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casa come ambiente del corpo

Nel documento Il corpo (pagine 54-61)

65 M. Munro, R. Madigan, Negotiating space in the family home,1999

Attualmente, uno degli snodi principali su cui si giocano i con- fini della domesticità, riguarda il diverso rapporto che si stabili- sce tra fusionalità e individualità. Nell’intrico di negoziazioni che si generano negli spazi domestici contemporanei, a seguito del progressivo affermarsi di questa seconda polarità, la definizione della regola che precisa i confini dell’ordine – e del disordine – è molto più fluida, incerta, che in passato. Tuttavia, oggi essa non è meno indispensabile di ieri, perché la regola dell’ordine è il ba- luardo della dimestichezza con lo spazio e con le relazioni che vi confluiscono. E’ il principio-cardine a cui si torna sistematicamen- te per tenere sotto controllo il disordine creato dalla naturalità dei corpi. E’ il punto di partenza per la costruzione di un ambito in cui l’individualità si può aprire all’esperienza della condivisione. Mettere ordine tutti i giorni è un lavoro apparentemente grega- rio, monotono, pesante, ripetitivo e soprattutto invisibile. Tuttavia, è mettendo ordine che ci si appropria dello spazio, esercitando una forma più o meno estesa di controllo su di un territorio abita- to anche dagli membri della famiglia. Chi mette ordine possiede le chiavi dell’intimità che danno accesso alle manifestazioni più segrete dei bisogni del corpo. Ordine e cura vanno, dunque, di pari passo.

L’intimità può essere considerata, fra le molte definizioni possi- bili, come la chiave d’accesso alla naturalità del corpo. Si tratta di un’accessibilità, resa accettabile – incontaminata e non contami- nante – dal fatto di essere giustificata dal potere salvifico dell’a- more. Non ci si riferisce solo all’amore coniugale e parentale, ma anche a quello per sé, che prende forma con la graduale “scoper- ta” dell’identità personale, già nel corso della modernità classica. Quest’ultima osservazione mette in luce l’esistenza di un para- dosso nella mortificazione del corpo, derivante dalla mitizzazione che l’occidente moderno ha fatto “dell’igiene e decoro”. Da un lato, il corpo viene confinato nel retroscena, nella misura in cui si nega dignità ai bisogni “naturali” che esso esprime. Dall’altro lato, come parte dell’immagine di sé che il soggetto sottopone alla confer- ma66 del proprio ambiente, il corpo acquisisce una rilevanza cre- scente, man mano che il progredire dell’individualizzazione spo- sta il baricentro dell’immaginario culturale dal concetto di ruolo a quello di persona, dalle identificazioni collettive, all’identità in- dividuale67. La costruzione identitaria riguarda, prima di tutto, lo sviluppo fisico e le pratiche con cui ognuno cerca di plasmare il proprio, nonché i movimenti con cui si inserisce nell’ambiente e interagisce con esso (i gesti, il modo di camminare, parlare, sorri-

66F. Crespi, Identità e riconoscimento nella sociologia contemporanea, 2004 67 L. Sciolla, Riconoscimento e teoria dell’identità, 2000

dere, guardare, ecc.), l’agire che il corpo rende possibile, o impone (dalle pratiche sessuali a quelle sportive; dal cucinare, al guidare una macchina). E’ nella casa che il soggetto inizia a prendere co- scienza del corpo e compie i primi esperimenti con esso e su di esso. Anzi, è quando il corpo incomincia ad abitare lo spazio della casa, che inizia ad esistere il soggetto68.

A partire dall’incontro del Sé con lo spazio domestico, e dalle prati- che quotidiane che fanno di tale incontro una consuetudine, l’in- dividuo: “si radica nel mondo (lo abita) e in qualche misura lo fon- da, nel senso che se ne appropria interiorizzandolo e nello stesso tempo lo colonizza proiettandovi una parte di sé”69. E’ questo il senso dell’appaesamento, una sorta di centratura di sé nell’am- biente, fisico e relazionale, finalizzata alla progressiva definizione dei criteri di vicinanza/lontananza e prossimità/estraneità che governano la ricerca di un equilibrio tra l’essere per sé e l’essere con, tra individuazione e identificazione.

Lo spazio della casa, ambito in cui si sviluppano le prime forme di appaesamento, rappresenta così una specie di “corpo inorganico”, in merito al modo con cui, nell’esperienza quotidiana dello spazio, il “mettere in ordine la casa è … un atto ontologico, è la maniera in cui nella nostra qualità di soggetti incontriamo quotidianamente il mondo”70.

Vivere, giorno dopo giorno, in un medesimo spazio organizzato in funzione dell’intimità familiare, significa imparare a condivi- dere attività, progetti, relazioni, stili di vita. Ma significa anche - ed in misura crescente oggi - apprendere l’arte della negoziazione, finalizzata conquistarsi qualche spiraglio di intimità personale. Le principali tensioni e negoziazioni fra membri della famiglia riguardano i tempi e i modi in cui ciascuno aspira a declinare questo doppio movimento. Non sempre il desiderio di intimità personale dell’uno si può conciliare con quello di socialità o in- timità familiare dell’altro/i coabitante/i. Non sempre i criteri con cui l’uno si appropria di specifici spazi domestici, deponendovi oggetti, rimettendo ordine, organizzandovi le proprie attività, portando alla ribalta il proprio corpo in tutte le sue sfaccettature, sono condivisi dagli altri. Il disordine, osserva Pasquinelli, è sem- pre “l’ordine di un altro”. E’ all’interno di questa tensione tra indi- vidualità e condivisione che, come vorrei precisare ora, prendono forma combinazioni più o meno differenziate e flessibili di “space zoning” e di “time zoning”. Quando c’è una situazione di conviven- za, è intorno al controllo personale su:

- i tempi, il cosiddetto time zoning, connesso alla definizione di

68 G. Giordano, La casa vissuta, 1997 69 C. Pasquinelli, La vertigine dell’ordine,2004 70C. Pasquinelli, La vertigine dell’ordine,2004

momenti della giornata in cui ad alcuni membri della famiglia è attribuita la priorità nell’utilizzo di particolari spazi della casa, tipicamente il soggiorno,

- gli spazi, ovvero lo space zoning, definibile come una delimita- zione fisica e simbolica delle aree in cui i diversi membri della fa- miglia godono di un diritto di priorità, come ad es. la camera da letto dei genitori e quella dei figli, che si sviluppa la negoziazione – talvolta quotidiana - con gli altri abitanti della casa.

Intimità personale corpo personale Intimità familiare corpo collettivo casa corpo inorganico

American beaty - Sam Mendes - 1999

Il retroscena casalingo, ovvero l’ambiente del corpo è un luogo dove il corpo è libero da restrizioni imposte dalla società e dove può sperimentare la vera presa di coscienza delle proprie possibilità. Su questo aspetto, si sono recentemente focalizzate alcune in- dagini sociologiche relative alla mutevole definizione dei confini dello spazio domestico. E’ stato così nel passato, nonostante la rigida definizione gerarchica dello spazio domestico, da un lato, ed il confinamento culturale del corpo nelle aree più segrete del privato, dall’altro. E’ così, in misura molto più evidente, nelle socie- tà contemporanee, in cui non solo la soggettività sta assumendo una centralità crescente, ma si sta verificando un mix di fenomeni che, come si è già in parte accennato, mette in discussione le fon- damenta culturali della domesticità moderna.

Segue alla ricerca sui metodi di produzione un breve excursus sui materiali utilizzati per donare allo specchio proprietà riflettenti e sui metodi di unione tra questi materiali ed il vetro che li riveste. La storia dello specchio nelle sue forme, applicazioni ed utilizzi, inizia con una approfondita ricerca del suo sviluppo e commercio dalle origini sino al XX secolo in Europa, proseguendo con un ca- pitolo nel quale si affronta invece la sua storia in oriente e nelle Americhe.

A chiusura di questa parte di ricerca storica sugli specchi è pre- sente una classificazione degli specchi dagli inizi del 1900 sino ai giorni nostri, ricerca atta a selezionare quelli che sono stati gli ele- menti che prima di altri introducevano innovazioni, oppure sem- plici esempi di come i grandi maestri del design hanno affrontato la tematica della progettazione di questa categoria di oggetti.

L’oggetto casalingo che più di altri permette la presa di coscienza, almeno a livello visivo, del proprio corpo è lo specchio. Da sempre le superfici riflettenti sono state usate per mettere l’uomo di fron- te alla propria immagine che, seppur ribaltata rispetto alla realtà, presenta la più verosimile versione in tempo reale del corpo nel mondo.

I capitoli che seguono offrono una breve storia dello specchio e dei suoi metodi di produzione, indagando le tecniche ed i processi che, evolvendosi nel tempo, consentirono la creazione delle grandi superfici riflettenti alle quali si è oggi abituati.

La prima produzione analizzata è quella del vetro e della sua suc- cessiva riduzione in lastre, procedimento di imprescindibile im- portanza per la creazione di specchi. Si è optato per una ricerca finalizzata allo studio dei metodi di riduzione in lastre del vetro piuttosto che del metallo, che costituisce la parte riflettente dello specchio, perché è la lavorazione del vetro e del cristallo che nel tempo ha subito più evoluzioni dal punto di vista procedurale ed ha trovato pieno sviluppo in Italia divenendo un’eccellenza della produzione veneziana.

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Specchi

l’Encyclopédie - Diderot, D’Alembert

Illustrazione di una manifattura artigianale del vetro -1850 circa Il principio base su cui si regge questo tipo di produzione con-

siste nella fusione di materie prima ad alto contenuto di silicio in particolari forni. Esse, sottoposte a calore, diventano pastose e facilmente lavorabili nelle forme desiderate. Poiché per fondere il silicio occorrono circa 1.500 gradi si utilizzano altre sostanze, a base di soda, che ne abbassano il punto di fusione. Silicio e soda rappresentano così le materie di base del vetro. Oltre a queste, si deve ricordare, che possono essere anche aggiunti altri materia- li che hanno il compito di conferire alla pasta di vetro il colore e maggiore o minore opacità. Il prodotto semilavorato assume for- me, colori e caratteristiche diverse a seconda delle aggiunte che si effettuano durante la fusione. Tutte queste sostanze, almeno fino alla metà del XIX secolo, erano sostanze che venivano recupera- te sul territorio nei pressi degli opifìci. A questo proposito si può quindi dire che uno dei fattori localizzanti di questo tipo d’indu- stria era la vicina presenza di sostanze silicee e di soda, quest’ulti- ma ottenuta dall’incenerimento di particolari piante. L’ascesa e il declino a livello europeo dell’industria veneziana del vetro si deve infatti alla presenza dei sassi quarzosi del fiume Adige e del fiume

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il vetro

alla base di 14.

L’uso della nuova fonte energetica fu adottato poi sul resto del continente in tempi diversi. In Francia venne utilizzato nel 1665 nelle manifatture reali e poi alla fine del secolo nello stabilimento di Saint-Gobain. In Italia, così come in altri settori produttivi, l’uso del carbon fossile nella fusione della pasta di vetro fu praticamen- te inesistente data la sua assenza sul territorio e le difficoltà d’im- portazione legate agli elevati costi di trasporto. Il carbone di legna rappresentò così per il nostro paese la fonte energetica esclusiva nella produzione di vetro fino a principio del XX secolo quando iniziarono a essere usati forni a gas o elettrici.

Un particolare tipo di pasta di vetro era quella da cui si produceva il cristallo. La messa a punto di questa miscela si deve all’industria vetraria veneziana che fece leva sulla presenza di materie prime particolarmente pure. Fu proprio il cristallo che permise all’indu- stria veneziana di rimanere all’avanguardia in tutto il mercato europeo fino al XVII secolo. Da quella data i cristalli veneziani do- vettero poi subire la pesante concorrenza di quelli boemi e inglesi che li scalzarono dal mercato internazionale, grazie a costi di pro- duzione molto più bassi e alle conoscenze empiriche che questi paesi si erano assicurati assoldando molti operai provenienti dal- le fornaci veneziane.

Una volta prodotti i vari tipi di pasta si passava alla realizzazio- ne dei prodotti finiti con procedimenti diversificati a seconda del tipo di produzione.

Ticino che avevano un contenuto siliceo del 98% e all’introduzio- ne di sostanze che davano una trasparenza eccezionale al vetro (cristallo). L’assenza sul territorio di sostanze fondenti adatte ob- bligò i veneziani a ricercarle su mercati lontani, contribuendo a innalzare i costi di produzione e quindi a essere poco competitivi sui mercati europei quando anche in altri paesi si raggiunsero gli stessi standard produttivi. Dal modo in cui si miscelavano questi tre tipi di sostanze, si ottenevano paste diverse per caratteristiche visive (colore, opacità ecc.) e per caratteristiche chimiche. Fino alla fine dell’Ottocento queste miscele furono il frutto di antichi sape- ri tramandati gelosamente di generazione in generazione e l’abi- lità dei maestri vetrari stava proprio nella loro capacità di com- porre la miscela in base al prodotto che si richiedeva: ciò avveniva proprio in base all’esperienza empirica e ai segreti del mestiere che essi avevano ereditato dai propri avi.

Lo strumento principale per la produzione della pasta di vetro era il forno. Dopo aver ridotto in polvere il materiale siliceo tramite pestatura e aver composto la miscela con il fondente e i vari ad- ditivi si introduceva il composto nel crogiuolo e si teneva a fon- dere per molte ore e a volte anche per qualche giorno. In realtà, come sottolineavano i trattati di epoca rinascimentale di George Agricola e di Vannoccio Biringucci le operazioni di fusione poteva- no avvenire utilizzando anche due o tre forni con funzioni com- pletamente differenti. A Venezia, ad esempio, si utilizzavano due forni. Il primo, dove si raggiungevano temperature di circa 700 gradi Celsius, serviva ad amalgamare il composto di materiali che poi veniva introdotto in appositi vasi fasori. Questi poi venivano immessi in un altro forno più potente dove si superavano i 1.000 gradi e da cui usciva la vera e propria pasta di vetro che poi veni- va trattata per avere il prodotto finito. La principale innovazione che toccò questi forni riguardò la sostituzione del carbone di le- gna con quello fossile. Il primo uso documentato di questo nuo- vo combustibile risale al 1615 in Inghilterra, quindi molto prima del suo uso in siderurgia. Nel caso del vetro, però, la fusione delle sostanze avveniva per riverbero, poiché il carbon fossile avrebbe prodotto impurità di zolfo che avrebbero compromesso la qua- lità della pasta. L’utilizzo del carbon fossile apportò significativi miglioramenti nelle rese dei forni poiché aveva maggior potere calorico e, soprattutto, determinò una diminuzione significativa dei costi energetici e un aumento importante delle scale di pro- duzione. Si pensi, ad esempio, che le fornaci inglesi del XIX secolo potevano raggiungere un’altezza di quasi 25 metri e un diametro

Le lastre di vetro o di cristallo costituivano una produzione inter- media per poi ottenere gli specchi e soprattutto i vetri delle fine- stre. L’uso di chiudere le finestre delle abitazioni con il vetro iniziò a comparire verso il XV secolo, da prima nelle case signorili e in se- guito anche in quelle più popolari per evidenti ragioni legate pro- prio alla natura del vetro: la trasparenze permetteva l’illuminazio- ne degli ambienti domestici senza far filtrare durante le stagioni invernali 1’aria fredda. La produzione di lastre di vetro per finestra divenne progressivamente la produzione più consistente all’in- terno dell’industria vetraria europea, con una domanda sempre in aumento a partire dal XVIII secolo quando riprese a crescere la popolazione continentale e italiana.

Le tecniche di produzione per questo tipo di prodotto sono state essenzialmente tre: quella a corona, quella a cilindro e quella a co- lata. Le prime due tecniche si discostavano di poco l’una dall’altra ed entrambe erano basate sulla soffiatura. La canna da soffio ve- niva immessa nel forno per prendere la pasta di vetro che veniva fatta rotolare manualmente entro una forma cava di legno o di metallo in modo che assumesse una forma conica. A questo pun-

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