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Il corpo

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Academic year: 2021

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il corpo

Politecnico di Milano A.A. 2010-2011

Facoltà del Design - Design del Prodotto

relatore

Carlotta de Bevilacqua

candidato Valentino Iraci matricola

734392

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03 corpo < società 03.00 corpo < società 03.01 corpo flessibile 03.02 vetrinizzazione 03.03 corpo trasparente 03.04 corpo packaging 03.05 autopubblicità 04 corpo > mondo 04.00 corpo > mondo 04.01 città di moda 04.02 città palcoscenico

04.03 casa come rappresentazione 04.04 casa come ambiente del corpo

05 specchi 05.00 specchi 05.01 il vetro 05.02 il vetro in lastre 05.03 lo specchio 05.04 lo specchio in Europa 05.05 lospecchio nel mondo 05.06 specchi: una classificazione 05.07 classificazione specchi 1900-2011 06 progetto 06.00 da ricerca a progetto 06.01 spazio temporaneo 06.02 spazio permanente 06.03 declinazioni 06.04 struttura 06.05 renders di prodotto bibliografia 057 068 060 066 069 074 080 085 086 088 092 097 102 107 108 110 115 118 119 127 130 132 229 230 233 236 242 246 252 270 00 abstract 00.00 abstract 00.01 concetto di corpo 01 corpo = mondo 01.00 corpo = mondo 01.01 mondo e corpo 01.02 spazio del corpo 01.03 ambiente del corpo

02 corpo = società

02.00 corpo = società

02.01 corpo e costruzione sociale 02.02 corpo docile

02.03 corpo e bio potere 02.04 corpo medicalizzato 02.05 corpo e feticismo dei bisogni 02.06 corpo e vesti 001 002 004 008 009 011 017 021 028 029 031 034 038 042 046 051

indice

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L’idea di ricercare un significato alternativo a quello a cui si è abi-tuati, che permetta di identificare con il termine corpo non una cosa nel mondo, ma una propensione ad esso, è nata osservando l’uso che del corpo viene fatto nel mondo contemporaneo. La so-cietà ed il suo potere, la feticizzazione dei bisogni, il tessuto rela-zionale ed i suoi codici hanno reso ogni individuo progettista del proprio corpo. Il corpo viene studiato, programmato, mutato per poter essere socialmente accettato. Esso è divenuto un supporto per dei segni che comunicano in società l’essenza che l’individuo vuole esprimere. Il corpo è diventato una rappresentazione di sé. Il rapporto corpo-segno è ciò che più interessa questa tesi perché l’uso del corpo come supporto di segni e l’uso del significato come espressione dell’essere sono ciò che più ha corrotto l’idea di corpo. Il legame corpo-vesti è la relazione da cui parte il progetto presen-tato in questo scritto. Il prodotto ideato non muove da un’esigen-za o da un problema che va risolto, bensì, nascendo dalla formula-zione di un quesito e crescendo lungo una fase di ricerca che pone aperture piuttosto che vincoli, non è direttamente funzionale a risolvere un problema, ma funzionale a stimolare un quesito. Agendo su un rapporto di imprescindibile importanza come quel-lo del corpo e le sue vesti, il prodotto presenta una doppia valenza. Da una parte agisce in modo da congelare il momento di assun-zione di significato da parte del corpo in modo da mostrare agli occhi dell’utente un’azione automatica che conserva all’interno della sua ripetitività un’importante testimonianza di “oggettifi-cazione”1 del corpo. Un ulteriore spunto di riflessione è il fatto che il prodotto si presenta all’interno dell’ambiente del corpo come un altare dei segni, uno spazio in cui le vesti sono mostrate come simulacri sempre visibili, che con la loro presenza ricordino all’u-tente la loro natura di segni, che ogni giorno rivestono il suo cor-po per comunicare alla società il sé artificioso che si è scelto di indossare.

1 M. Nussbaum, Sex and Social Justice, 1999

La scelta del corpo come base di partenza per un progetto di indu-strial design può essere facilmente confusa con un atto di proget-tazione incentrata sull’ergonomia. Il corpo in questo caso verreb-be inteso come volume e massa organica di un individuo, come serie di misurazioni che identificano “a quale distanza”, “con quale peso”, “di che forma” un prodotto deve essere per poter soddisfare i bisogni di un organo-macchina complesso come il corpo umano. Ciò che viene richiesto in questo testo è di liberarsi dei pregiudizi ai quali si è abituati, per i quali con il termine corpo viene identi-ficato l’organismo che costituisce la struttura fisica dell’uomo. Il corpo qui descritto è altro; è qualcosa di più intimo di una massa organica e qualcosa di più personale di misure standardizzate. Il corpo è la nostra apertura al mondo.

Può sembrare azzardato e soprattutto presuntuoso da parte di uno studente di industrial design, disciplina che fa dell’uomo e delle sue misure la base minima per la progettazione, accantona-re ciò che si è appaccantona-reso durante il suo iter accademico per iniziaaccantona-re autonomamente una ricerca su un significato di corpo che vada oltre alla sua mera definizione scientifica.

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abstract

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Nella bibbia ciò che si legge con anima nella traduzione latina, e con psiché nella traduzione greca, nella stesura originale ebraica viene chiamata nefesh. Questa parola, però, se viene letta nei vari contesti non funziona con il significato di anima. Si dice ad esem-pio: ”Legarono i miei piedi nei ceppi ed in catene misero la mia nefesh”, con il qual termine si identifica la gola; oppure si dice che il nazireo, colui che deve diventare sacerdote, non può toccare la nefesh meth, concetto che non può funzionare assumendo ani-ma come traduzione, in quanto si identificherebbe l’aniani-ma mor-ta (nefesh meth) degli animali, idea che si scontra con quella di anima come caratteristica propria degli uomini. Mancava quindi la concezione di anima oltre che un vocabolo con il quale identifi-carla. Ad esempio ciò che si pensava avvenisse dopo la morte non era l’immortalità dell’anima, ma la resurrezione del corpo. Il concetto di anima è un’idea derivante dalla cultura greca. Pla-tone parla di psiché (respiro) per identificare qualcosa che tra-scenda il corpo e che generi sapere. Egli sosteneva infatti che se si vuole costruire un sapere che sia valido per tutti, non si può fare riferimento alle informazioni corporee, in quanto esse sono cer-tezza sensibile, cercer-tezza cioè che non è in grado di costruire un cri-terio di verità. Ad esempio se si chiedesse ad un gruppo di persone di quantificare la temperatura di una stanza, ne verrebbero fuori tante diverse risposte quanto il numero di persone presenti nel-la stanza perché esse farebbero affidamento sulle loro percezioni corporee. Il corpo quindi non può generare dati oggettivi. La vera certezza secondo Platone è data solo dai costrutti e dalla mente: dalla psiché, cioè dall’anima. Se quindi per i greci l’anima è il sa-pere assoluto, il corpo è la prigione dell’anima, un impedimento al pensiero astratto.

Sant’Agostino nel 400 recupera il concetto greco di anima e lo in-troduce nella cultura giudaico-cristiana, facendone luogo dell’i-dentità personale (“io sono anima”) e della rivelazione della verità. Il dualismo corpo-anima di Platone viene utilizzato da Agostino per spiegare il concetto di salvezza dell’anima, sottraendolo ad un problema metodologico di conoscenza. Si genera quindi l’idea di sopravvivenza dell’anima sul corpo: serbare l’anima diviene l’im-perativo categorico cristiano. Inizia da allora la mortificazione del corpo perché esso è l’impedimento dell’anima.

Nel 1600, con Cartesio e la nascita della scienza moderna, viene radicalizzato il dualismo di Platone. Si impone l’idea che si possa fare scienza solo con idee chiare e distinte, le idee della fisica. Il pensiero scientifico deve ammettere solo dati e valori certi,

quin-00.01

concetto di corpo

Parlare di corpo introduce una problematica di fondo che rende il parlarne un compito difficile da assolvere. Poter esprimere il pro-prio punto di vista su qualcosa senza che essa (qualche cosa) ven-ga trattata come oggetto all’interno di una discussione è impos-sibile; si adotterebbe quella prospettiva in cui il corpo è qualcosa d’altro rispetto a me. Per questo motivo occorre specificare che il corpo qui inteso sono io, non un’entità da me scissa. È importante fissare questo concetto a priori di questo elaborato, in modo da non incorrere in fraintendimenti e prendere le distanze da ciò che comunemente viene inteso come corpo, ma che è in realtà solo un organismo vivente, un corpo come viene studiato dalla scienza. Prima di parlare di corpo scientifico, però, è meglio parlare di cor-po come lo si intende oggi, o meglio, come si è generata l’odierno concetto di corpo.

La nostra società occidentale è figlia di una educazione dualistica di corpo, infatti ciò che viene sempre insegnato è che “siamo fatti di anima e corpo”. Le culture che hanno influenzato questa con-cezione sono quella giudaico-cristiana, che introduce il concetto di corpo, e quella greca, che da Platone concepisce l’idea di anima.

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ed il corpo (con il quale nello stato di salute coincido), prende il posto del mondo, lo si guarda come prima si guardava il mondo, come una cosa, con occhio medico, lo si disabita. È solo abitando il proprio corpo che si vive il mondo.

Closed Contact - Jenny Saville - 2002

Jenny Saville più di altri studia da sempre l’universo del corpo portando all’estremo le sue opere che non si limitano a mostrare semplici nudi, quanto corpi che esplorano la loro fisicità e le loro di il corpo deve essere studiato con mezzi scientifici: con

misu-re, quantità e numeri. Nasce in questo modo il suddetto corpo scientifico o corpo della medicina. Si è detto che in questo scritto si intende prendere le distanze dal concetto di corpo come viene inteso dalla scienza; con ciò non si vuole affatto screditare questa idea, perché il corpo è anche questo, ma non solo, il corpo non è solo organismo, il corpo è anche persona. “Si deve recuperare una dimensione del corpo che sia un po’ più potente della dimensio-ne scientifica, perché è più di un ammasso di cellule ed impulsi nervosi, o comunque non si può ridurre ad esso” (U. Galimberti). Nel 1700 con la nascita della psicologia, sino ad i giorni nostri con la nascita della psicoanalisi, della psichiatria e della psicosoma-tica, si rafforza la teoria del corpo come organismo, in quanto si studia il “morbus sine materia”, la malattia senza riscontro orga-nico, una malattia che colpisce non il corpo, ma la psiche. Si raffor-za in questo modo la scissione tra corpo e anima, delineando per quest’ultimo malattie differenti da quelle del corpo.

Con i postulati sulla fenomenologia del corpo di Husserl, Heide-ger, Sartre, Merleau-Ponty, Foucault, si inizia ad intendere e defi-nire il corpo non dal punto di vista medico o psicologico, ma dal punto di vista del corpo stesso. Viene teorizzato in questo modo il corpo non sulla base di valori scientifici, ma su base esperien-ziale, valutando il corpo nella sua vita nel mondo e nella relazio-ne uomo-corpo. Come verrà riscontrato relazio-nel Capitolo 1.01 Mondo e Corpo, il nostro corpo è apertura al mondo, non è una cosa nel mondo, perché gli oggetti stanno nel mondo; io, invece, sono nel mondo come uno che ha un mondo, come uno che dischiude un mondo, il mio mondo. Il corpo viene inteso in questo elaborato come apertura al mondo, intenzionalità alle cose, risposta agli stimoli, elaborazione dei messaggi che il corpo riceve dal mondo. “Un uomo con una gamba amputata cerca per mesi di continuare camminare come se la gamba non gli fosse stata amputata, per-ché il suo corpo non vuole ignorare quella parte di mondo che con quella gamba raggiungeva”. Merleau-Ponty cercava di spiegare il rapporto del corpo con il mondo portando il suddetto esempio, che testimonia come il corpo sia in relazione stretta con il mondo, con il suo mondo. Non esisterebbe mondo senza corpo e corpo senza mondo. È il rapporto corpo-mondo quello decisivo, non il rapporto anima-corpo. Quando ho di fronte un mondo, il mon-do mi stimola ed io risponmon-do. In malattia, ad esempio, si spacca la struttura originaria corpo-mondo, il corpo va sullo sfondo, ci si stacca dal proprio corpo, non interessano più le cose del mondo

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01 corpo = mondo

Nello scambio relazionale tra corpo e mondo si acquisisce la per-cezione del proprio corpo e del mondo. Grazie a questa relazio-ne, imprescindibile da un’apertura del corpo al mondo, si genera quella sinergia che permette vivere nel mondo ed organizzarlo. Nell’organizzazione del mondo il corpo riesce a strutturare il ter-ritorio e predisporre gli oggetti del tutto spontaneamente, in ma-niera che essi siano ordinati per il corpo senza che una coscienza esterna comandi questa attività. La spontaneità di quest’azione è affascinante. Il fascino risiede nel constatare come in maniera macroscopica l’uomo abbia organizzato il mondo in spazio (1.02) ed ambiente (1.03), ma che solo grazie ad un ragionamento poste-riore ciò ci sia stato reso noto. Tutto è nato da un moto inconscio, quello stesso moto che, per esempio, a valle di un’organizzazione ponderata del nostro ambiente-casa con la quale si sono studiati i colori, le disposizioni ed i materiali, fa spostare oggetti e mobili in base alle funzioni del corpo. Ciò non è altro che un’organizzazione spontanea dell’ambiente attorno al proprio corpo, o meglio, ciò che avviene è la modifica di un’organizzazione mentale dimen-tica del corpo come entità fenomenologica. Quanto detto sta ad

01.00

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indicare con un semplice esempio l’importanza del corpo e l’im-programmabilità metodica della sua organizzazione, anche con un accurato studio di progettazione.

Nel seguente capitolo si tratterà la relazione corpo-mondo, che è la relazione che regola il mondo che conosciamo, che ci permette di disporre dello spazio e delle cose, e che in questo modo ci fa prendere coscienza del corpo, delle sue capacità e dei suoi limiti. Verrà affrontata successivamente l’organizzazione del mondo in spazio ed ambiente, il che permette di impostare una schema-tizzazione mentale di suddivisione spaziale. Nel capitolo in cui si tratterà l’ambiente del corpo verrà inoltre discussa la creazione da parte del corpo di strumenti, oggetti grazie ai quali il corpo può modificare ed ordinare il mondo che lo circonda.

L’intenzionalità del corpo umano, la sua originaria apertura al mondo, il suo esporsi e attendere dal mondo per sé è attestato, innanzitutto, dalla sua struttura anatomica. Noi siamo eretti non per la meccanica dello scheletro o per la regolazione nervosa (queste sono piuttosto conseguenze, non cause), ma perché sia-mo impegnati in un sia-mondo. In un sia-mondo viviasia-mo, agiasia-mo, abi-tiamo, in un modo siamo attivi, difatti come questo impegno vien meno, come si riduce il nostro esercizio sul mondo, il corpo si ab-bandona: quotidianamente con il sonno e alla fine con la morte, dove diviene oggetto puro, cosa tra cose, immobilità e non gesto, silenzio e non parola; diventa un corpo come lo concepisce l’ana-tomia: un corpo immobile, un cadavere fermo per essere studiato. “L’intenzionalità del corpo non è oggettivante come quella dell’in-telletto che prende possesso delle cose distanziandosene, ponen-dosele innanzi come oggetti; l’intenzionalità del corpo è destinata ad un mondo che non abbraccia né possiede, ma verso cui non cessa di dirigersi e di progettarsi”1. L’intelletto nel giudicare le cose del mondo non può prescindere dall’esperienza del corpo in quanto esse prima di venire concettualizzate sono già state

espo-01.01

mondo e corpo

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ste ad un corpo che le ha viste, le ha sentite, le ha toccate. Il cor-po è quindi quell’unità naturale e pre-logica che fa da sfondo ad ogni costruzione logica in quanto prima di essere valutate le cose vengono vissute. Il mondo, infatti, è “già là”, offerto al nostro cor-po prima di ogni giudizio e di ogni riflessione, così come il nostro corpo è già esposto al mondo non appena si pondera la prima e originaria riflessione.

Riflettere non è rientrare in sé e scoprire l’”interiorità dell’anima”, quel primo e soggettivo atto intellettuale che garantisce la prima equivalenza che è l’identità con sé stessi. Riflettere è accogliere le impressioni e le percezioni inavvertite con cui il mondo mi si offre, e con cui io mi offro al mondo nel momento in cui gliele restitu-isco, perché non le confondo con le mie fantasie o le mie imma-ginazioni, dove invece non rendo quello che sottraggo. È come la riflessione di uno specchio, dove quello che si presenta davanti ad esso viene restituito tale e quale, senza interventi da parte di una “coscienza” dell’oggetto. Riflettere, dunque, non è costruire il mon-do, ma restituirgli la sua offerta, non è nemmeno un atto delibe-rato, ma il principio grazie al quale posso deliberare. “Per quanti sforzi faccia quando rifletto su di me, ciò che trovo non è mai la mia interiorità, ma la mia originaria esposizione al mondo”2. La ghiandola pineale di Cartesio, la coincidenza occasionale di Ma-leblanche e l’armonia prestabilita di Leibniz sono concetti grazie ai quali si è spiegata quell’operazione per cui la rappresentazio-ne coscienziale di un movimento suscita rappresentazio-nel corpo il movimento. Ciò non può prescindere dal concepire il corpo come meccanismo in sé e la coscienza come quell’essere che in maniera autonoma impartisce ordini al corpo-macchina. Se solo si riuscisse a rinun-ciare a questo concetto si riuscirebbe a spiegare ciò che accade in maniera semplice, partendo dal corpo come un veicolo che in-troduce al mondo, perché al mondo è originariamente dischiuso. Si intuisce quindi che come sostiene Merleau-Ponty, “la coscien-za è l’inerire alle cose tramite il corpo”, e inerendo alle cose del mondo, il corpo si conosce come quell’insieme di possibilità che le cose del mondo costantemente verificano. Il corpo dunque non è una barriera tra coscienza e mondo, bensì un tramite attraverso il quale l’Io interagisce con le cose, perché è grazie a questo tramite che acquisisco l’esperienza che mi permette di interagire. “Il pri-mo senso delle cose del pri-mondo nasce contemporaneamente alla verifica delle possibilità del corpo”3.

Soggetto di questa esperienza non è l’intelletto puro, ma quell’in-telletto “incorporato” che abita il tempo e lo spazio dei corpi, e che

2 U. Galimberti, Il corpo, 1987

3 M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, 1945

interviene nel mondo non come “io penso”, ma come “io spingo”, “io trascino”, “io sollevo” le cose del mondo. Tra questo intelletto ed il mondo non c’è distanza come tra soggetto ed oggetto, ma c’è un’originaria correlazione. Il luogo di questa correlazione è il cor-po, senza il quale non c’è intelletto che possa intendere qualcosa del mondo.

Non esiste infatti un’esperienza “interna” e una “esterna”, la prima relativa all’Io, la seconda al mondo, perché ogni esperienza è il ri-flettersi del mondo nell’Io e il modificarsi dell’Io per effetto del suo rapporto con il mondo.

Il corpo è un immediato sbocco sulle cose, non un oggetto rac-colto in sé. Racrac-colto in sé è solo il cadavere, qualcosa che non è più impegnata nel mondo, qualcosa dove l’occhio che non vede, la gamba che non cammina, il cuore che non batte sono oggetti, cose che non hanno più alcuna parentela con il corpo. Nel cada-vere la mano rivela se stessa, mentre nel corpo rivela gli oggetti che tocca. A differenza del cadavere raccolto nel suo in sé, il corpo è subito fuori di sé, aperto al mondo, proteso sulle cose. L’occhio non vede sé, ma le cose del mondo, senza mondo non ci sarebbe una vista.

“Dalle cose del mondo ho la consapevolezza della potenzialità del mio corpo, perché le cose si rivestono delle sue azioni”4. Ho la posizione degli oggetti tramite quella del mio corpo, non per de-duzione logica, ma per un’implicanza reale, perché il mio corpo è protensione verso il mondo, e il mondo è il punto d’appoggio del mio corpo. È grazie al mio corpo che vivendo il mondo riesco a prendere coscienza di ciò che esiste, delle sue grandezze, delle sue forme, delle sue essenze. Grazie al corpo riesco ad interiorizzare l’esterno e a concepire il pensiero con il quale intendere il mondo. Come si è detto, recuperare il corpo significa respingere il forma-lismo della coscienza per sostituirlo con la comunicazione senso-riale, senza la quale non ci è dato di abitare il mondo, né di pen-sarlo con l’a priori della ragione. Se non ci fidiamo più dei sensi, se svalutiamo l’importanza delle loro informazioni è perché si è rimossa la nostra esperienza corporea a tal punto da farci disim-parare a “vedere”, a “udire” ed in generale a “sentire”, per poter “de-durre” dalla nostra organizzazione mentale e dal mondo (che è concepito dal fisico, non dall’intelletto), ciò che dobbiamo vedere, udire, sentire.

Il corpo abitando il mondo, e quindi percependolo, lo misura e lo organizza. Abitare non è conoscere, è sentirsi a casa, ospitati da uno spazio che non ci ignora e tra cose che dicono il nostro

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to. Abitare è sapere dove deporre l’abito, dove sedere alla mensa, dove incontrare l’altro. Abitare è trasfigurare le cose, è caricarle di sensi, che trascendono la loro pura oggettività, è sottrarle all’ano-nimia che ne fa semplici oggetti, per restituirle ai nostri gesti abi-tuali che consentono al nostro corpo di sentirsi tra le sue cose. È vivendo il mondo e quindi sentendolo e percependolo che il corpo riesce ad organizzarlo, riconoscerlo e quindi abitarlo.

Il bambino acquisisce un movimento, esprime un suono lingui-stico quando il suo corpo li ha compresi, ossia quando li ha as-similati al suo mondo. Per lui muovere il proprio corpo significa protendersi, tramite esso, verso le cose, significa lasciarlo rispon-dere alla loro sollecitazione. La sua motilità non è il prodotto della coscienza che trasporta il corpo nel punto dello spazio che prima s’era rappresentato. Perché possa muovere il suo corpo verso un oggetto, o perché, indicandolo o nominandolo, possa chiedere alla madre di avvicinarglielo è necessario che l’oggetto esista come sollecitazione o come risposta a un bisogno del suo corpo, e che quindi il suo corpo appartenga al vissuto soggettivo (il mondo abitato) che consente l’esperienza del proprio corpo tramite l’e-sperienza del proprio corpo nel mondo.

Si può esemplificare quanto detto rapportandolo ad una di-mensione ordinaria. Per esempio abitare una casa non signifi-ca disporre di un certo numero di metri quadri, ma avere “nelle mani e nelle gambe” le distanze e le direzioni principali, caricate di quell’intenzionalità corporea che fa di uno spazio geometrica-mente misurabile un dominio familiare. Il corpo abita la casa, per-ché la casa s’è modellata sulle sue abitudini.

L’abitudine è un sapere che è nelle mani, nelle gambe, un sapere che si affida solo allo spazio corporeo, dilatando e facilitando le sue possibilità di abitare il mondo. Il pianista non ha bisogno di trovare i tasti da premere, perché la sensibilità musicale glieli fa trovare sotto le dita; l’automobilista non ha bisogno di cercare il freno o l’acceleratore, perché le caratteristiche della strada per-corsa dal suo sguardo modulano il movimento delle sue mani e dei suoi piedi. Qui è il corpo a “comprendere”, non nel senso in-tellettualistico di assumere un dato sotto un’idea, ma nel senso corporeo di esprimere un accordo tra ciò verso cui tendiamo e ciò che è dato, tra l’intuizione e la realizzazione. Il pianista e l’automo-bilista non operano in uno spazio oggettivo, ma in quello spazio espressivo creato rispettivamente dalla musica e dalla velocità. Il corpo si pone al servizio di questa espressione, i suoi movimenti non sono dettati dal pensiero, ma dalla musica e dalla velocità

che vuol esprimere. Esprimendole, il corpo diventa mediatore di un mondo, il mondo della musica o il mondo del rischio a cui “dà corpo”.

Ciò è possibile perché il nostro corpo non è solo uno spazio espres-sivo come tutti i corpi, ma è ciò grazie a cui tutti i corpi esprimono dei sensi che, proiettati all’esterno in un tempo ed in un luogo, si mettono a esistere come cose, sotto le nostre mani, sotto i nostri occhi. Il corpo vibra con la musica che esprime, è percorso dal bri-vido della velocità; a tutti i livelli s’è lasciato penetrare dall’atmo-sfera che i suoi gesti hanno creato, un’atmodall’atmo-sfera che trascende la pura e semplice meccanica gestuale e che consente al corpo di ancorarsi al mondo secondo nuovi stili, lo stile della musica, lo stile del rischio e della pericolosità. Attraverso questi stili, il corpo sceglie il suo tipo di esistenza, oppure muta esistenza assimilan-do nuovi strumenti, ma in ogni stile e con qualsiasi strumento sempre si conferma come ciò senza di cui non avremmo un mon-do.

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Le peintre de l’espace se jette dans la vide - Yves Klein - 1960

Il primo senso delle cose del mondo nasce contemporaneamente alla verifica delle possibilità del corpo.

01.02

spazio del corpo

Non si accede al mondo se non percorrendo quello spazio che il corpo dispiega intorno a sé nella forma della prossimità o della di-stanza delle cose. È uno spazio che sfugge ad ogni sistema astrat-to di coordinate, perché risponde solo a quella serie indivisibile di atti che consentono al nostro corpo di dislocare le cose sopra o sotto, a destra o a sinistra, vicino o lontano, ottenendo così un orientamento e una direzione.

Lo spazio corporeo non è posizionale, non è cioè l’ambito reale o logico in cui le cose si dispongono in base ad un sistema astratto di coordinate presupposte da uno spirito geometrico che prescin-de da qualsiasi punto di vista, ma è situazionale, perché si misura partendo dalla situazione in cui viene a trovarsi il corpo di fronte ai compiti che si propone e alle possibilità di cui dispone. Il corpo, infatti, è l’unico sfondo da cui può nascere uno spazio esterno, è il “rispetto a cui” un oggetto può apparire, è la frontiera che non solo le ordinarie relazioni di spazio non oltrepassano, ma da cui queste stesse relazioni si dipartono. Lo spazio omogeneo e ogget-tivo della geometria acquista senso solo partendo dallo spazio orientato del corpo, a partire dal quale, per astrazione, è stato

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co-struito lo spazio oggettivo, per cui il mio corpo non è un semplice frammento nello spazio, ma per me non ci sarebbe spazio se non avessi corpo.

La spazialità geometrica, come idea dell’estensione pura e omo-genea, non ha nulla da spartire con la spazialità vissuta, che è orientata sul corpo come centro di tutte le prospettive; non ci dà la verità delle cose, ma se mai la verità degli enunciati con cui s’è deciso di definire le cose; non ci introduce nel mondo, ma ci disto-glie; le sue proposizioni prescindono da quei significati antropo-logici di cui è invece carica la spazialità corporea, senza la quale all’uomo non sarebbe consentito di esistere in un mondo, ma solo di pensare un mondo.

Lo spazio corporeo non ha un significato puramente teoretico, ma porta con sé la traccia dei sentimenti personali, di bisogni sociali e di elementi emotivi. Ce lo testimoniano in larga misura i resti che della loro vita ci hanno lasciato i primitivi e i comportamenti abituali che accompagnano la nostra vita quotidiana. Appartie-ne alla vita primitiva e alla vita quotidiana media degli uomini possedere un punto fisso nello spazio, da cui partire ogni giorno e a cui fare ritorno. Questo punto fisso è la casa. “Andare a casa” significa muoversi verso un punto che rimane sempre identico nello spazio, dove ci sono cose note e conosciute, e dove delle at-tese ci richiamano. La casa risponde ad un bisogno di sicurezza e di integrazione.

Negli animali tale integrazione si attua in diverse maniere, ma soprattutto nella percezione di sicurezza dovuta all’inserimento dell’individuo nello spazio e nel ritmo del branco o, meglio anco-ra, nel collocamento in un perimetro di protezione. A differenza dell’animale, l’uomo carica questo perimetro di sicurezza di un significato simbolico, grazie al quale il suo “habitat” diventa lo spazio ordinato e perciò separato dal caos esterno, e il punto da cui, con una certa regolarità, egli parte per “mettere ordine” nel mondo circostante. Il cacciatore-raccoglitore nomade conosce la superficie del proprio territorio attraverso i suoi spostamenti, l’agricoltore sedentario costruisce il mondo in circoli concentrici intorno al suo granaio.

In base ai modi di sostentare il proprio corpo, il primitivo si rappre-senta il mondo attraverso due percezioni spaziali: l’una dinamica che consiste nel prendere coscienza dello spazio percorrendolo, l’altra statica che permette da fermo di costruire attorno a sé dei cerchi successivi che vanno attenuandosi fino ai limiti dell’ignoto. L’una dà l’immagine del mondo su un dato percorso, l’altra

inte-gra l’immagine in due superfici opposte, quella del cielo e quella della terra che si congiungono all’orizzonte.

Raccolto intorno a un punto o dispiegato lungo un itinerario, lo spazio è quell’origine e quella traccia che consente all’uomo di orientarsi nel mondo, e poiché non c’è un orientamento in sé, ogni orientamento è un patto concluso anticamente tra il corpo umano e la terra.

A fare dello spazio corporeo e dello spazio esterno un sistema uni-co è l’azione. Pilotando una canoa o scagliando frecce uni-contro un bersaglio, il primitivo conosce lo spazio come campo d’azione. Perché l’azione sia efficace, oltre alla percezione dello spazio at-tuale è necessaria la percezione dello spazio virat-tuale. Qui lo spazio è una configurazione visiva, sonora, emotiva, addirittura anteriore alla distinzione dei sensi, perché il valore sensoriale di ogni elemento è determinato in base alla sua funzione nell’insie-me e varia con questa funzione. L’insienell’insie-me, dal canto suo, non è una semplice somma dei dati attuali, ma il loro prolungamento nell’ambito del virtuale e del possibile, senza il quale nessuna azione sarebbe realizzabile, perché ogni gesto sarebbe concluso in se stesso, in un’opacità che non rinvia ad alcun senso. Se non ci fosse questa protensione sul possibile, la semplice somma delle sensazioni presenti non darebbe alle cose del mondo il loro senso e il corpo ignorerebbe le sue possibilità.

“Disporre del proprio corpo è disporre dello spazio del mondo dove il corpo può agire. Lo spazio del mondo appartiene al corpo come una parte della sua carne, e finché l’anatomia non si de-ciderà a studiare il corpo partendo dalla fisiologia, e la fisiologia dall’essere-nello-spazio-del-mondo, l’anatomia continuerà a dar-ci informazioni sul cadavere, perché solo il cadavere non è più al mondo. Se il corpo costruisce azioni in base alla percezione dello spazio reale e virtuale che il mondo gli offre, cosa potrà insegnarci la fisiologia del sistema nervoso dove il corpo è chiamato a rispon-dere a stimoli invece che a risolvere situazioni?”5.

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Untitled - Felix Gonzalez-Torres - 1991

Dalle cose del mondo si ha la consapevolezza delle possibilità del proprio corpo, perchè le cose si rivestono delle sue azioni.

01.03

ambiente del corpo

Umano non è il mondo nelle sue dimensioni cosmiche, ma quell’ambito molto più circoscritto dove sono le cose che ci circon-dano e che il corpo può raggiungere ed utilizzare. Questo mondo non supera le dimensioni di un ambiente che, partendo da quel punto privilegiato che è la propria casa, si estende alla strada sot-tostante, alle direzioni principali che da quella strada si diparto-no, per raggiungere il luogo di lavoro, le case degli amici, secondo quella geografia di relazioni operative ed affettive costruibili in qualsiasi luogo, a patto che vi siano i requisiti minimi (la casa di un amico o un posto di lavoro, ad esempio) per generare una nuo-va geografia di relazioni, nei cui limiti è la massima estensione del mondo umano.

“Umano” è quel mondo dove il corpo si sente impegnato e, a dif-ferenza di tutte le altre cose che pure sono al mondo, si verifica come una certa potenza sugli oggetti, che cessano di apparire come semplici cose, per offrirsi come cose-utensili, come risposte ai bisogni del corpo, come abbozzo delle sue possibili azioni. Su-perandosi nell’azione, la percezione corporea carica le cose di un significato ulteriore rispetto a quello che esse possiedono come

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Hundredweight - John Wood e Paul Harrison - 2003

Umano è quel mondo dove il corpo si sente impegnato e si verifica con una certa potenza sugli oggetti e sullo spazio.

semplici cose in sé; la terra diventa allora custode di semi, il cie-lo sole e pioggia fecondanti, la foresta piantagione, la montagna cava di pietra, il fiume forza d’acqua, il vento vento in poppa. Sollecitato dai bisogni, il corpo ritaglia nel mondo il suo ambiente che è poi l’unico mondo che può abitare perché, come regione or-ganizzata dalla sua azione, è il solo che lo indica come centro di ri-ferimento di tutte le cose-utensili e di tutti gli strumenti. Qui tut-to si ridefinisce, spazio e tempo perdono i loro connotati oggettivi per esprimersi come prossimità o lontananza delle cose. “Vicino” è, come vuole l’etimologia di Heidegger, ciò che è alla mano, ciò che si lascia raggiungere dal corpo e perciò utilizzare, “lontano” è ciò che è solo promesso, ciò che richiede il superamento di certe difficoltà o di certe distanze per essere raggiunto e quindi impie-gato.

Il corpo è dunque ciò in funzione del quale e a misura del quale esistono tutti gli strumenti, ma non è a sua volta uno strumento. ”L’intenderlo come tale, l’utilizzarlo sono altrettanti modi di non esserlo. Io non sono il chiodo ed il martello perché li uso, mentre non uso il mio corpo perché lo sono. Il corpo umano differisce da quello fisico e da quello animale non perché provvisto di un’anima o di una coscienza, ma perché la qualità dei suoi bisogni produ-ce delle tensioni che giungono ad un equilibrio qualitativamente diverso da quello che in un sistema fisico si produce tra forze con-trarie, e nell’organismo animale tra la stabilità del suo ambiente e l’a priori monotono dei suoi bisogni e dei suoi istinti. Come non è necessario introdurre un’”anima” o una “coscienza” per spiegare la differenza di questi equilibri, così non è necessario introdurle per spiegare l’equilibrio che l’animale raggiunge quando si adatta all’ambiente, o l’uomo quando si costruisce un ambiente.”6 Il bambino che nasce in un ambiente umano carico di oggetti d’uso non li comprende come tali perché ad un certo punto gli si sviluppa la “coscienza”, ma la “coscienza” gli si sviluppa quando, maneggiando gli oggetti che gli si offrono sottomano, recupera nei suoi gesti e negli oggetti a cui si applica, l’intenzione di cui essi sono visibile testimonianza. Ogni oggetto d’uso, infatti, è il corpo di un’intenzione, e l’intenzione non è il prodotto di una co-scienza, ma è il modo con cui il corpo umano si relaziona alle cose. Non è sbagliato chiamare quest’ordine di relazioni “anima” o “co-scienza”, purché con questi termini non si intenda il luogo di una presunta soggettività che adopera il corpo come uno strumento, ma la dialettica che il corpo instaura con il mondo al fine di darsi con l’azione un ambiente.

6 U. Galimberti, Il corpo, 1987 7 Bergson, L’évolution créatrice, 1907 8 U. Galimberti, Il corpo, 1987

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Con ciò non si riduce l’uomo all’animale, ma neppure si accetta che la differenza si instauri per quella giustapposizione che ad un corpo animale si aggiunge un’anima. Umberto Galimberti nel spiegare il suo concetto di anima rifiuta l’ipotesi di Bergson che nella costruzione umana degli strumenti vede solo un altro modo di raggiungere i fini che l’istinto persegue per proprio conto, per il quale istinti e strumenti altro non sono che “due soluzioni altret-tanto eleganti per risolvere lo stesso problema”7 che è poi quello ella conservazione. “La differenza tra animale e l’uomo non è nella presenza o nell’assenza dell’anima, né nella diversa modalità di conservarsi, ma nella differente dialettica tra il corpo e l’ambien-te. L’animale si adatta all’ambiente naturale, l’uomo vi si rapporta per trascenderlo”8.

L’anima è quindi nella capacità umana di rifiutare l’ambiente na-turale per darsene uno virtuale, che diventa reale con il lavoro che, nell’inadeguatezza del dato, promuove la passione per il possibile. Un abbozzo del possibile è già riscontrabile nel comportamento di quei volatili che utilizzano dei fuscelli per costruirsi un nido o di quelle scimmie che adoperano un ramo per avvicinarsi ad una ba-nana. Questo impiego strumentale delle cose non oltrepassa però l’ambiente ma si limita a meglio organizzarlo per renderlo idoneo ai propri bisogni. L’uomo, invece, quando costruisce strumenti non lo fa per meglio organizzare l’ambiente, ma per prepararne altri che gli consentano di oltrepassare quello dato. Il senso del lavoro è tutto qui, nel riconoscere al di là dell’ambiente attuale un ambiente possibile, un ambiente che si profila non per un’intui-zione dell’anima, ma perché a esso conduce la catena degli stru-menti, costruiti l’uno per l’altro secondo quella modalità che, ad ogni punto della serie, consente di scoprire un ambiente nuovo. “Essere nel mondo” significa allora “essere nel mondo per fare” e non solo per adattarsi com’è nella condizione animale, perché il mondo umano non è popolato solo di cose, ma soprattutto di compiti. “Con l’azione l’uomo rivela l’essenza nascosta delle cose, le loro possibilità celate, chiama la natura a manifestare la sua energia trattenuta e, “pro-vocandola”, fa opera di verità evocando-ne le possibilità latenti”9.

Con l’ordine degli strumenti il corpo fugge dal suo semplice “es-sere nel mondo” come le cose, per dispiegarsi verso il possibile in cui è raccolto ogni suo senso. Quello che possiamo raggiungere sono solo le cose che acquistano esistenza solo quando il corpo le tocca e le impiega, creando tra esse una serie di collegamenti che, prima dell’azione del corpo, le cose ignoravano. In questo

sen-9 Heiddeger, La questione della tecnica, 1954

so possiamo dire che il corpo abita il mondo creandolo attraverso l’ordine degli strumenti che lo rendono presente ovunque, perché tutti gli si riferiscono e in essi il corpo si estende.

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Finger gloves - Rebecca Horn - 1972

Il corpo riesce a trasformare semplici cose in cose-utensili in risposta ai propri bisogni e come abbozzo delle sue possibili azioni

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02 corpo = società

02.00

corpo = società

Coincidere con il proprio corpo significa vivere attivamente il mondo. Si è detto che la non coincidenza con il proprio corpo equivale a mettere il proprio corpo sullo sfondo, al posto del mon-do, e guardarlo come un oggetto. Ciò avviene in malattia, quan-do con occhio scientifico si osserva il corpo come organismo, ma anche quando l’azione della società è in grado di intromettersi prepotentemente nella relazione corpo-mondo. In questo caso la costruzione sociale del corpo è così forte da rendere il corpo un oggetto di cultura. Essendo il corpo il tramite tra il sé ed il mondo, è il corpo come entità fisica a rappresentare il sé all’interno delle interazioni sociali, esso è quindi obbligato a rispondere a deter-minate caratteristiche per poter essere accettato socialmente. Il potere sociale determina queste caratteristiche generando corpi docili, corpi cioè accondiscendenti, che rispondono alla necessità di coercizione del potere sociale sull’uomo.

Il corpo diventa quindi succube della produzione, disegnato a se-conda delle necessità di produzione umana ed industriale. La so-cietà ottiene un bio-potere in grado di generare corpi con qualità ed in quantità predefinite. Grazie a questo potere si

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moltiplica-no le tecmoltiplica-nologie politiche che investomoltiplica-no oltre al corpo la salute, le modalità di nutrirsi e di abitare, le condizioni di vita e l’intero spazio dell’esistenza.

La maniera con la quale la società fissando degli standard è in grado di assoggettare l’uomo è la feticizzazione dei bisogni. Es-sendo per l’uomo di imprescindibile importanza la soddisfazione delle proprie necessità, la società fissa delle modalità con le quali soddisfarle, le quali modalità diventano più importanti della ne-cessità stessa perché solo in questo modo la soddisfazione viene socialmente accettata.

Parte di questa azione coercitiva viene svolta dal sistema vesti-mentario, che assumendo socialmente una funzione di segno sul corpo, diviene significante del corpo, identità della persona, rap-presentante all’interno della società del sé.

02.01

corpo e costruzione sociale

Il corpo come categoria sociologica ha attirato l’attenzione degli studiosi solo in anni recenti. Lo studio della fisicità è stato tradi-zionalmente delegato ad altre discipline, come ad esempio la me-dicina, e addirittura, la sociologia classica ha delimitato i propri confini attraverso “l’energica negazione dell’importanza dei fatto-ri genetici e fisici nella vita sociale, [...] fatto-rinforzando e contfatto-ribuen- contribuen-do al tempo stesso a teorizzare l’opposizione tipica del pensiero occidentale, tra natura e cultura”10.Emile Durkheim, uno dei pa-dri fondatori della sociologia, sosteneva che occorre distinguere tra il corpo fisico (dato universale e naturale di cui si occupano le scienze mediche e biologiche) e corpo socializzato, riempito di valori e di morale il cui studio spetta propriamente alla sociologia. Si introduce un nuovo concetto di corpo utile ad un’analisi socio-logica del corpo nel mondo. Questa nuova definizione non vuole però prendere il posto di quella fornita nei passati capitoli, bensì identifica il corpo di cui si è parlato nella sua interazione con la società. Il corpo appare oggi sempre più come un dato organiz-zato socialmente, è per questo che si sostiene che esso sia social-mente costruito, cioè vissuto e gestito in modi diversi a seconda

10 P. Borgna, Sociologia del corpo, 2005

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delle culture e delle epoche storiche11. “La relazione corpo/società è strategica non solo perché ci riconosciamo nell’ambito di studi che fa capo alla sociologia, ma perché è in essa che riteniamo di poter cogliere i criteri con cui il corpo stesso, da oggetto di Natu-ra diviene oggetto di CultuNatu-ra, e quindi è socialmente costruito”12. Ogni società si confronta con 4 obiettivi – scrive Bryan Turner 13: riproduzione della popolazione, regolazione dei corpi nello spazio, controllo del corpo interiore attraverso le discipline, rappresenta-zione del corpo esteriore nello spazio sociale. Nel primo e secondo gruppo rientrano le norme della morale sessuale e delle condot-te demografiche, controllo della fecondità, politiche sociali di so-stegno alla famiglia e procreazione, leggi sulla contraccezione e aborto, ecc.; nel terzo e quarto ambito si parla di socializzazione e rappresentazione del corpo come veicoli di rappresentazione di sé – ogni cultura nel proprio tempo storico, disciplina e indirizza l’attenzione e la cura del corpo al fine di rendere possibile il buon esito dell’interazione con gli altri e la sensazione di stare bene con sé stessi. Questi ultimi due obiettivi sono quelli che più interes-sano questo elaborato, e verranno approfonditi nei capitoli “03.01 corpo flessibile” e “03.04 corpo packaging”.

La prospettiva della costruzione soggettiva del corpo come veicolo del sé è parsa in questi anni come la più promettente per com-prendere un buon numero di problemi. Il corpo è come un testo leggibile e scrivibile da soggetti diversi. Esso parla modificando l’ambiente che lo circonda e crea intorno a sé, grazie alle intera-zioni a cui partecipa, una visibilità e dei risultati comprensibili an-che dagli altri. Per comprenderlo però occorre, preliminarmente, capire chi lo scrive e chi lo legge: i segni significano non di per sé stessi, ma in ragione del corpo sociale che lega chi li produce a chi li interpreta14.

Il recente interesse del corpo come categoria sociologica ha por-tato allo sviluppo dell’ipotesi che la componente più significativa dell’individuo, base della sua identità ed individualità, non sia co-stituita dal solo sistema cervello-mente ma dal corpo intero, con la sua spazialità, la sua motricità e la sua capacità di sentire e di agire.

La teoria dell’azione sociale, che a questa prospettiva si ispira, ri-tiene che “ai fini dell’azione fa differenza che l’individuo che agi-sce sia femmina anziché maschio, sia più o meno giovane, abbia o no figli, e così via”15. Ciò significa partire dalla consapevolezza che il corpo è frutto dell’incrocio tra dimensione biologica e di-mensione sociale. Da una parte si può dire che le realtà corporee

12 R.Stella, Prendere corpo. L’evoluzione del paradigma corporeo in sociologia, 2001 13B. S. Turner, Status, 1984

14 R.Stella, Prendere corpo. L’evoluzione del paradigma corporeo in sociologia, 2001 15 P. Borgna, Sociologia del corpo, 2005

acquistano significato ed identità in base al contesto culturale nel quale sono inserite, la cultura cioè fornisce nomi ed identità al corpo, dall’altra esiste un tipo di relazione messa in evidenza dalla sociobiologia, che studia l’intreccio, nell’essere umano, di natura ed educazione, di biologia e di cultura, secondo cui il comporta-mento socio-culturale per quanto strutturato dall’ambiente, ha una forte componente biologica, l’ambiente è cioè “incorporato”. Quindi non ci si riferirà al corpo come ad un oggetto del mondo, ma a qualcosa che ci permette di agire nel mondo. Dove ciò che agisce non è semplicemente il nostro corpo ma siamo noi; dove la nostra immagine corporea esprime lo stile e il senso della nostra storia personale; dove, infine, la costruzione dell’immagine corpo-rea non dipende solo dalla storia del singolo, ma anche dall’inci-denza dell’elemento sociale.

La gran parte dei contributi delle scienze sociali sul corpo sono rivolti all’universo maschile: sia nella cornice classica del “sociale senza corpo” sia in quella dei contributi successivi. Solo a partire dall’analisi di Foucault (1980) delle dinamiche sociali di potere e sapere che definiscono il corpo, si cominciano a tracciare le linee che riguardano il corpo femminile, fino a quel momento assimi-lato a quello maschile.

Le intuizioni di Foucault sul tema del potere e dell’assoggetta-mento si rivelano particolarmente utili all’analisi sociale e stori-ca della femminilità e della mascolinità, stabilendo i confini e le caratteristiche (fisiche e sociali) del corpo femminile. Dove il po-tere agisce “dal basso”, le forme prevalenti dell’individualità e del-la soggettività (tra cui il genere) vengono mantenute non tanto mediante la repressione e la coercizione fisica, quanto piuttosto mediante l’autosorveglianza e l’adeguamento alle norme (cap. “02.02 corpo docile”).

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02.02

corpo docile

Per secoli la gravidanza si è annunciata con certezza alla madre solo con il primo movimento del bambino. Quando le donne di questa generazione avvertono il feto muoversi sono a conoscenza da tempo di essere incinta; del formarsi all’interno del loro cor-po di un’altra forma di vita hanno avuto l’annuncio dall’esito di un test chimico e dalle prime videotestimonianze eseguite da un operatore in possesso della necessaria strumentazione.

“Sebbene ogni volta diversa e tipica del suo tempo, l’esperienza del corpo è rimasta sostanzialmente immutata sino a non molto tempo fa, orientata verso un’attenzione di tipo tattile. Nella pro-spettiva della storia del corpo, le trasformazioni prima indicate sono inserite nel quadro del passaggio a una percezione geome-trico-visuale del corpo”16. Oggi, grazie ai mezzi con i quali è dotata l’ottica medica, la donna vede l’interno del proprio corpo; attraver-so la macchina viene svelato l’interno del corpo, il confine tra den-tro e fuori risulta quindi nullo. Nasce, come lo ha efficacemente definito Barbara Duden, il feto pubblico. Il feto fa del corpo della donna il luogo in cui si compie un processo esposto allo sguardo della ricerca, un terreno su cui è possibile vedere, intervenire,

de-16 P. Borgna, Sociologia del corpo, 2005

cidere.

Dal punto di vista semiotico, il feto pubblico “generato” dai labora-tori costituisce secondo Duden un tipico objectum nostri tempo-ris: costituisce cioè l’esito di un processo attraverso il quale alcune idee, scientifiche e non, sul corpo della donna si sono sviluppate fino a diventare socialmente accettate.

La straordinaria ricostruzione che Duden fa della storia di una particolare condizione del corpo - la gravidanza – è qui introdot-ta per la sua qualità esemplare di ricostruzione di un processo al quale i sociologi sono soliti riferirsi con l’espressione costruzio-ne sociale del corpo. Il processo è guidato da rappresentazioni, in questo caso del corpo della donna, che orientano una molteplicità di pratiche anche routinarie relative ad esso e che, complessiva-mente, definiscono delle politiche del corpo. Esse letteralmente producono e normalizzano il corpo che abbiamo e che siamo. Nel-la prospettiva richiamata, Nel-la varietà dei processi in cui esse si con-cretizzano ha come effetto l’espropriazione del corpo della donna. Riamane da comprendere il “come” delle politiche del corpo. Se è vero che esse agiscono nel senso della normalizzazione e del-la omogeneizzazione, è altrettanto vero che nessuna donna in gravidanza verrà condotta contro la sua volontà ad effettuare le ecografie di routine; nessuna sarà costretta a conservare/acqui-stare/riacquistare una figura snella. È anzi frequentemente dato osservare che le donne scelgono di sottoporsi a controlli prenatali, a diete rigorose o rimodellamenti chirurgici, a trattamenti farma-cologici periodici di vario tipo. Il fenomeno non è meramente fem-minile, in quanto anche i corpi maschili, seppur in minor numero, sono soggetti a controlli medici e modifiche corporee chirurgiche e non. Entrambi i sessi partecipano cioè attivamente alla riprodu-zione della cultura della società a cui appartengono.

Cosa ha reso le loro menti ed i loro corpi così docili, in assenza di macchinazioni o strategie cospirative evidenti?

La risposta a questa domanda viene data considerando il concet-to di Corpi docili descritti da Michel Foucault, che presuppone l’a-nalisi di “[…] una molteplicità di processi spesso minori, di diversa origine, a localizzazione sparsa, che si intersecano, si ripetono o si imitano, si appoggiano gli uni agli altri, si distinguono secondo il campo di applicazione, entrano in convergenza e disegnano, a poco a poco, lo schema di un metodo generale”17: quello dell’”inve-stimento politico e dettagliato del corpo”, di “una anatomia politi-ca”, di “una meccanica” o “microfisica del potere”.

Secondo Foucault è a partire dal XVII secolo che il potere si

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be dato la funzione di gestire la vita, organizzandosi a tal fine in-torno a due poli: quello della anatomo-politica del corpo umano, e quello di una bio-politica della popolazione.

L’anatomo-politica prese forma dall’applicazione dei meccanismi di potere al corpo umano in quanto macchina, attraverso metodi volti a garantirne l’addestramento, il potenziamento delle attitu-dini, l’estorsione delle forze, la crescita dell’utilità e della docilità. Verso la metà del XVIII secolo, una serie di interventi e di controlli regolatori sul corpo-specie – operazioni politiche, interventi eco-nomici e campagne ideologiche in tema di natalità, di longevità, di salute pubblica, di habitat e di migrazione – diedero origine alla bio-politica della popolazione.

Anatomo-politica e bio-politica costituiscono gli assi lungo i qua-li andò a svilupparsi la tecnologia poqua-litica della vita, una “grande tecnologia a due facce, anatomica e biologica, agente sull’indivi-duo e sulla specie, volta verso le attività del corpo e verso i pro-cessi della vita” che si articola in una serie “di tecniche diverse e numerose per ottenere la subordinazione dei corpi ed il controllo delle popolazioni. Si apre così l’era di un bio-potere (si veda il ca-pitolo successivo “02.03 corpo e bio-potere”)”. A partire di qui si moltiplicheranno le tecnologie politiche che investono “il corpo, la salute, le modalità di nutrirsi e di abitare, le condizioni di vita, l’intero spazio dell’esistenza”, e si moltiplicheranno i meccanismi di potere “continui, regolatori e correttivi” preposti alla loro appli-cazione: “meccanismi di potere completamente nuovi che si sono occupati, a partire dal XVIII secolo, della vita degli uomini, degli uomini come corpi viventi”18.

La concezione efficentista del corpo è particolarmente presente al giorno d’oggi in ambito sportivo. Gli atleti infatti incarnano quegli ideali di efficienza produttiva che sono propri del sistema industriale. Ai suoi livelli più elevati, lo sport ha bisogno di atleti sovrumani, i cui corpi, proprio per questo motivo, si impongono con forza nell’imaginario collettivo. Basta guardare questi atleti nel momento del loro massimo sforzo per vedere all’opera corpi che sembrano fabbricati in laboratori specializzati appositamen-te per otappositamen-tenere i risultati che si desiderano. Anche il corpo dello sportivo, dunque, si presenta oggi come un corpo che può essere liberamente manipolato per raggiungere determinati obiettivi. Il potere secondo Foucault si esercita positivamente sulla vita in-cominciando a gestirla, a potenziarla, a moltiplicarla, ad esercitare su di essa controlli precisi e regolazioni d’insieme, al fine di otte-nere prestazioni produttive. In questa prospettiva il bio-potere ha

18 M. Foucault, Sorvegliare e punire, la nascita della prigione, 1975

Il feto fa del corpo della donna il luogo in cui si compie un processo esposto allo sguardo della ricerca, un terreno su cui è possibile vedere, intervenire, decidere.

rappresentato uno degli elementi indispensabili allo sviluppo del capitalismo, che si sarebbe consolidato a prezzo dell’inserimento controllato dei corpi nell’apparato di produzione.

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02.03

corpo e bio-potere

I meccanismi di bio-potere sono meccanismi di potere che si oc-cupano degli uomini come corpi viventi. Per poterne spiegare il significato occorre prendere in esame due tipi di politiche del cor-po: le politiche dei regimi disciplinari e le politiche sessuali. Foucault teorizzò queste due strategie ricostruendo i modi in cui “il modello coercitivo, corporale, solitario, segreto del potere di pu-nire” si affermò nella seconda metà dal secolo XVIII. La riforma del codice penale che lo introdusse trasformò il corpo del condannato in un bene sociale, nell’oggetto di un’appropriazione collettiva ed utile, facendo del medesimo corpo, del suo tempo, dei suoi gesti e delle sue attività quotidiane il punto di applicazione della pena. Il progetto di istituzione carceraria che lo accompagnò rese la pu-nizione una tecnica di coercizione degli individui, nella forma di una serie di processi di addestramento del corpo. Selezionando queste tra le modalità secondo le quali si può esercitare il potere di punire, la riforma penale mise capo ad una “nuova politica del corpo”. Foucault si riferisce al sistema penale definito dai grandi codici “moderni” del secolo XVIII e XIX. In Sorvegliare e punire egli ricostruisce i modi in cui al “corpo squartato, amputato,

simboli-camente marchiato sul viso e sulla spalla, esposto vivo o morto, dato in spettacolo”19, la “nuova” giustizia penale sostituì un corpo “irretito in un sistema di costrizioni e di privazioni, di obblighi e di divieti”; di come sorveglianti, medici, cappellani, psichiatri, psico-logi, educatori si siano sostituiti al boia nel manipolare e colpire il corpo dei giustiziandi. La coercizione viene ad esercitarsi, per ciò che concerne la scala, al livello dei movimenti, dei gesti, delle attitudini; per ciò che concerne l’oggetto, al livello dell’economia e dell’efficacia dei movimenti; per ciò che concerne la modalità, in modo ininterrotto, costante. In ciò diverse dalla schiavitù, dalla domesticità, dal vassallaggio e dall’ascetismo, tali discipline au-mentano le forze del corpo (in termini economici di utilità) e di-minuiscono queste stesse forze in termini politici di obbedienza; perciò sono anche dette “schemi di docilità”, e “docile” è definito da Foucault il corpo che può per loro tramite essere sottomesso, utilizzato, trasformato e perfezionato.

Fu così che “tecniche minuziose sempre, spesso modestissime”, ”disposizioni sottili, d’appartenenza innocente ma profondamen-te insinuanti, dispositivi che obbediscono a inconfessabili econo-mie o perseguono coercizioni senza grandezza”20 intervennero via via a disciplinare la molteplicità della popolazione scolastica, del-la popodel-lazione ospedalizzata, deldel-la popodel-lazione militare, deldel-la po-polazione dei lavoratori delle grandi manifatturiere: costruirono i loro corpi, ripartendoli nello spazio, codificandone e mettendone in serie le attività, componendo le loro forze.

L’altro micropotere preso in esame è quello inerente alle politiche sessuali. A rendere interessanti queste politiche è la loro colloca-zione all’incrocio tra le discipline del corpo e la regolacolloca-zione delle popolazioni; dalla loro connessione concreta prende forma quella che Foucault chiama “la grande tecnologia del potere” del XIX se-colo, di cui è parte centrale la tecnologia del sesso (o dispositivo di sessualità).

Per il suo essere al tempo stesso “accesso alla vita del corpo ed alla vita della specie”, “matrice delle discipline e principio delle regola-zioni”, il sesso, scrive Foucault, “dà luogo a sorveglianze infinitesi-mali, a controlli istante per istante, ad organizzazioni dello spazio di un’estrema meticolosità, ad esami medici o psicologici inter-minabili, a tutto un micro-potere sul corpo; ma dà luogo anche a misure massicce, a stime statistiche, ad interventi che prendono di mira l’intero corpo sociale o gruppi presi nel loro insieme. È per questo che, nel XIX secolo, la sessualità è inseguita fin nei minimi particolari delle esistenze; è braccata nei comportamenti, le si dà

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20 M. Foucault, Sorvegliare e punire, la nascita della prigione, 1975

la caccia nei sogni, la si sospetta dietro le più piccole follie, la si in-segue fin nei primi anni di infanzia. Ma la si vede anche diventare tema di operazioni politiche, d’interventi economici (attraverso incitazioni o freni alla procreazione), di campagne ideologiche di moralizzazione o di responsabilizzazione.”

Le politiche cui tale forma di potere mette a capo disegnano a proposito del sesso dei dispositivi specifici di sapere e di potere ben individuabili a partire dal XVIII secolo; i principali sono l’iste-rizzazione del corpo della donna, la pedagogizzazione del sesso del bambino, la socializzazione delle condotte procreatrici e la psi-chiatrizzazione del piacere perverso.

Avere trattato il bio-potere consente di guardare alle politiche del

Estudio Económico de la Piel de los Caraqueños - Santiago Sierra - 2006

Pur essendo conosciuto in particolare per i progetti in cui fa eseguire delle azioni umilianti a operai immigrati, in quest’opera Sierra compie, in modo molto meno discutibile e più diretto, un’indagine sulla relazione tra livello economico-sociale e colore della pelle.

corpo come pratiche disciplinari. Esse producono e normalizzano i corpi, rendendoli funzionali ai rapporti di dominio e di subordi-nazione; senza armi, senza violenza fisica, senza costrizioni mate-riali: con le parole di Foucault: ”basta uno sguardo. Uno sguardo che sorveglia, uno sguardo che ciascun individuo, sentendolo pe-sare su di sé, finirà per interiorizzare al punto di essere l’osserva-tore di sé stesso; così ciascuno eserciterà questa sorveglianza su di sé e contro di sè”.

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02.04

corpo medicalizzato

La medicina costituisce una delle principali fonti di costruzione delle rappresentazioni sociali del corpo, di alcuni suoi aspetti o funzioni, oltre che del corpo stesso. Gli studi di sociologia della salute sono accomunati dal considerare gli aspetti sociali della salute/malattia costitutivi dei processi e delle condizioni che defi-niscono lo “stare bene” o lo “stare male”. Detto in modo differente, uno sviluppo adeguato della sociologia della medicina si fonda sullo sviluppo di una sociologia del corpo centrata sulla nozione di “social embodiment”, ovvero l’impiego del corpo, dei movimen-ti, delle espressioni durante le interazioni sociali.

Allo sviluppo della sociologia della salute, risalente agli anni ses-santa, si deve la focalizzazione dell’analisi sociologica sui processi di costruzione sociale della salute e della malattia. Stando ad al-cune interpretazioni, ciò costituirebbe un effetto dello sviluppo del settore di ricerca che va sotto l’etichetta di sociologia del corpo. Tra tutti i “corpi della medicina”, i più celebri sono i corpi delle tecnologie biomediche. Ciò che accomuna tutti questi corpi è il fatto di costituire il punto di applicazione dell’impiego coordinato di tecniche operative diverse come quelle chimiche, biochimiche,

microbiologiche, genetiche, informatiche ed impiantistiche, che porta questi corpi a costituire l’oggetto di una serie di processi di ridefinizione di confini, limiti e possibilità.

Per esempio la tecnologia dei trapianti d’organo consente di ri-formulare il concetto di morte, oggi divisa tra morte celebrale e morte fisica, permettendo anche di modificare il concetto di vita, facendo “vivere” il donatore all’interno di un corpo ricevente che grazie all’organo donato “sopravvive”. Il trapianto d’organo re-sponsabilizza, costringe l’uomo a prendere una posizione deci-dendo se rendere disponibili i propri organi all’espianto o meno, “condividendo” parte del suo corpo.

Contribuiscono a mutare le rappresentazioni del corpo, dei suoi limiti e possibilità pure le tecnologie di riproduzione assistita. L’espressione è usata per indicare una grande varietà di meto-di meto-di intervento accomunati dalla sostituzione meto-di una parte del processo riproduttivo naturale con operazioni tecniche, intese a facilitare la fecondazione in vivo oppure in vitro, vale a dire nel corpo della donna o al di fuori di essa. La fecondazione assistita ha ristrutturato il concetto di procreazione tradizionale numeri-camente, consentendo a più soggetti di collaborare alla nascita di un individuo (si pensi ai donatori di ovuli, donatori di sperma ed alle madri di sostituzione), e temporalmente, consentendo di con-cepire in periodi di fertilità conclusa o addirittura post mortem. Ulteriori spunti di riflessione in tema di costruzione medica dei corpi vengono dalla combinazione delle tecnologie della riprodu-zione artificiale con le biotecnologie molecolari, tecnologie che consentono l’analisi e la manipolazione delle grosse molecole bio-logiche. Ciò determina un concetto di programmabilità del corpo, una sorta di manomissione della selezione naturale, che consente di agire sul corpo quando esso ancora non esiste. Si è quindi riu-sciti a trascendere il naturale decorso temporale anticipandolo. Le tecnologie biomediche, nel trasformare situazioni e rappre-sentazioni, riscrivere confini ed utilizzi relativi al corpo, agiscono in maniera eclatante nella medesima direzione in cui, solo meno manifestatamente, fa la medicina in generale. Alla crescente centralità e pervasività di quest’azione ci si riferisce spesso con l’espressione medicalizzazione del corpo, con essa intendendo la progressiva estensione del dominio, dell’influenza o della supervi-sione della medicina su fasi ed aspetti della vita dell’uomo. Ivan Illich nel suo libro Nemesi medica, l’espropriazione della sa-lute (1976) parla in maniera esaustiva degli effetti del monopolio medico sulla cultura della salute. In relazione allo sviluppo “senza

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freni” della medicina, egli ebbe criticamente a sostenere che la tu-tela istituzionale della salute – preventiva, curativa o ambientale che sia – equivale, oltre ad una certa intensità, a una negazione sistematica della salute, e diventa anzi patogena (l’autore definì iatrogena la patologia che comprende tutte le condizioni cliniche i cui agenti che provocano il male sono i farmaci, i medici, gli ospe-dali).

Medicalizzare infertilità, disturbi del comportamento alimentare o vecchiaia significa costruirli come problemi suscettibili di trat-tamento medico. In questo senso la medicina funziona come una delle principali fonti di costruzione del corpo e delle sue rappre-sentazioni.

In questo processo interagiscono assunti valutativi, descrittivi, esplicativi e di classificazione sociale. Essi stabiliscono, nell’ordine, quali funzioni, dolori e alterazioni siano normali, cioè appropriati e accettabili; come si debbano formulare le descrizioni; il gene-re di modelli da utilizzagene-re per la spiegazione. Infine, collocano il paziente in un contesto sociale caratterizzato da un insieme di aspettative sociali riconosciute.

In tale lavoro di produzione di immagini del corpo e di pratiche re-lative al corpo, di costruzione della realtà, la medicina non è sola; l’affiancano sempre più spesso il diritto e la bioetica, chiamate a dirimere questioni aperte dall’applicazione medica delle acquisi-zioni scientifiche più avanzate.

Non ci si può esimere dall’osservare che la medicalizzazione del corpo costituisce un aspetto di un più ampio processo di medica-lizzazione delle società contemporanee, espressione con la quale a partire dagli anni settanta ci si riferisce alla crescente centralità della medicina come istituzione di controllo sociale, che nell’eser-cizio di questa funzione vorrebbe progressivamente a sostituire nelle società secolarizzate la religione ed il diritto.

Convenzionale o non, occidentale o meno, in tutte le sue varianti storiche la medicina produce corpi. In una prospettiva che dal co-struzionismo intende prendere le distanze, ma che potrebbe es-serne semmai considerata una versione radicale, “se la medicina è da considerarsi un universale antropologico, questo non accade perché esiste una qualche sorta di universalità intrinseca al corpo. Ad essere primario non è il corpo, ma la realtà della medicina; la stessa idea del corpo, il nostro stesso concetto che esiste un corpo da curare è l’effetto dell’universalità della medicina. L’attività me-dica rivela il dato di fatto che noi possediamo ciò che chiamiamo corpi. L’esistenza della medicina provoca la nozione di corpo”21.

21 Osborne, On anti-medicine and clinical reason, 1994

Plastic surgery - Lucy & Bart - 2010

Le tecnologie biomediche, nel trasformare situazioni e rappresentazioni, riscrivere confini ed uti-lizzi relativi al corpo, agiscono in maniera eclatante nella medesima direzione in cui, solo meno manifestatamente, fa la medicina in generale.

(26)

22 K. Marx, Il capitale. Critica all’economia politica, 1867

02.05

corpo e feticismo dei bisogni

Il corpo soddisfa i suoi bisogni attraverso l’uso delle cose. Otte-nendo queste cose, non si fa altro che trasformare il loro valore d’uso possibile in valore d’uso reale ed operante. Nel valore d’uso Marx non scorge alcuna “sottigliezza metafisica” e alcun “capric-cio teologico”: “A prima vista una merce sembra una cosa triviale, ovvia. Dalla sua analisi risulta invece che è una cosa imbrogliatis-sima, piena di sottigliezze metafisiche e di capricci teologici. Fin-ché è valore d’uso non c’è nulla di misterioso in essa, sia che la si consideri dal punto di vista che essa soddisfa, con le sue qualità, bisogni umani, sia che riceva tali qualità soltanto come prodotto del lavoro umano”22.

“Il feticismo della merce ed il suo arcano” nascono con il valore di scambio, ossia con l’ingresso della merce nel mercato, dove i rapporti sociali si smascherano sotto forma di qualità e di attri-buti della merce: “L’arcano della forma di merce consiste dunque semplicemente nel fatto che tale forma, come uno specchio, resti-tuisce agli uomini l’immagine dei caratteri sociali del loro proprio lavoro, facendoli apparire come caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, come proprietà sociali naturali di quelle cose, e quindi

restituisce anche l’immagine del rapporto sociale tra produttori e lavoro complessivo, facendolo apparire come un rapporto socia-le fra gli oggetti esistente al di fuori di essi produttori. Mediante questo quid pro quo i prodotti del lavoro diventano merci, cose sensibilmente sovrasensibili, cioè sociali.”23

Il feticismo secondo Marx non investe soltanto il valore di scam-bio dei beni, ma si radica nella “semplicità e trasparenza” del loro valore d’uso. Il termine feticismo è stato coniato dagli etnologi, dai colonizzatori e dai missionari del XVIII secolo, indicando con esso la modalità con la quale i primitivi sovraccaricavano alcuni oggetti ed animali di una forza magica trascendente (mana), di cui era necessario impadronirsi o difendersi. Una volta feticizzati, gli oggetti o gli animali non erano più visti come quegli oggetti o quegli animali, ma come espressione di quella forza magica che dal gruppo era stata loro attribuita. Quando Marx parla del fetici-smo della merce e del feticifetici-smo del denaro allude al fatto che nel-la società capitalistica, esattamente come nelle società arcaiche, gli oggetti non sono considerati per ciò che sono (valore d’uso), ma per ciò che valgono (valore di scambio), ossia per la loro capa-cità di permutarsi con l’oro o con il denaro che, come il mana dei primitivi, si diffonde sugli oggetti mascherando la loro intrinseca natura, “il loro corpo” dice Marx, allo scopo di renderli pure espres-sioni del valore (economico):

“L’utilità di una cosa ne fa valore d’uso. Ma questa utilità non aleggia nell’aria. È un portato della qualità del corpo della merce e non esiste senza di esso. Il corpo della merce stesso […] è quin-di un valore d’uso, ossia un bene. Ma se noi facciamo astrazione dal valore d’uso delle merci, facciamo astrazione anche dalle parti costitutive e dalle forme corporee che la rendono valore d’uso. La merce non è più tavola, né casa, né filo, né altra cosa utile. Tutte le sue qualità sensibili sono cancellate a favore di quell’elemento comune che si manifesta nel rapporto di scambio o nel valore di scambio della merce. Questo è il valore della merce stessa.”24 Come il mana cancellava la loro natura di oggetti o di animali per renderli semplice espressione di quella forza magica, così il valore economico che il mercato delle società capitalistiche attribuisce alle merci, cancella la loro vera natura, che pur si palesa nel valo-re d’uso, per valo-renderle semplici segni di quell’equivalente generale espresso dall’oro o il denaro.

Riprendendo nel suo significato originario la metafora feticista, Marx dice che il feticismo non è la sacralizzazione di questo o quell’oggetto, di questo o quel valore, ma del sistema in quanto

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