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il vetro in lastre

Nel documento Il corpo (pagine 61-63)

l’Encyclopédie - Diderot, D’Alembert

sopra una tavola su cui veniva colata la pasta di vetro liquida. Su queste tavole, costruite inizialmente in rame e poi in ghisa, era applicato un rullo che veniva fatto scorrere avanti e indietro al fine di spargere il vetro liquido su tutta la superficie della tavola e dargli uno spessore omogeneo. Anche questa tecnica, come quel- la a cilindro, ha avuto origine in Francia nel XVIII secolo e da qui si è poi diffusa in tutta Europa.

La produzione di lastre di vetro subì importanti innovazioni sol- tanto a partire dall’inizio del XX secolo. Il principio base su cui si reggevano le varie tecnologie era quello di tirare in modo paral- lelo o perpendicolare al bagno contenente il vetro fuso una cer- ta quantità di impasto tramite piccoli rulli o aste immerse e poi alzate dal bagno stesso. Soltanto nel 1926 fu però possibile per la prima volta produrre lastre di vetro e di cristallo in modo conti- nuo, facendo tracimare il bagno di vetro liquido del forno su alcu- ni rulli che attraversavano stadi a temperatura sempre più bassa, seguendo lo stesso principio che era stato adottato anche nella macchina continua da carta.

l’Encyclopédie - Diderot, D’Alembert

Atrezzi italiani per la modellazione del vetro - 1650 circa to le due tecniche si discostavano nei procedimenti. Con il me-

todo a corona la pasta di vetro allargata con la soffiatura veniva staccata dalla canna, applicata a un’altra asta di ferro più robusta, messa nuovamente nel forno e fatta roteare nell’aria calda della fornace in modo che la forza centrifuga allungasse e appiattisse ulteriormente il composto. Una volta tolto dal forno e prima che si fosse raffreddato il disco di vetro veniva staccato dall’asta e sul- la lastra rimaneva così un segno circolare detto appunto corona . Fu in Lorena, nel corso del XVIII secolo, che venne messo a punto il metodo del cilindro. Invece di staccare il globo di vetro pastoso dalla canna di soffiaggio si continuava a soffiare nella pasta men- tre si faceva ondeggiare a pendolo affinché la pasta assumesse una forma allungata e quasi cilindrica (da cui il nome della tec- nica). Occorreva poi aspettare il raffreddamento, tagliare le due parti finali del cilindro e lo stesso in senso longitudinale. A que- sto punto il cilindro aperto poteva essere immesso nuovamente nel forno su una lastra in modo che fondendo di nuovo la pasta si adagiasse automaticamente su questa; oppure dopo averlo ri- scaldato ma non fino al punto di fusione veniva tolto dal forno e adagiato su una tavola di legno, detta spianatoio, pronto per esse- re premuto e steso grazie a un blocco di legno.

Le tecniche di produzione a corona o a cilindro erano completa- mente manuali e la buona riuscita della lastra di vetro dipende- va del tutto dall’abilità dei singoli operai. Inoltre le lastre che si producevano non erano molto grandi. Con la tecnica a cilindro si ottenevano lastre che raramente superavano una lunghezza di 120-130 cm e una larghezza di 70-80 cm; ancor più piccole erano quelle ottenute con il metodo a corona poiché si doveva asportare le calotte del disco per ottenere una lastra squadrata. Proprio per questo motivo alla metà del XIX secolo la tecnica della corona ven- ne praticamente abbandonata in quasi tutte le vetrerie europee che iniziarono invece a preferire la tecnica del cilindro.

La produzione di lastre di vetro per colata consentiva invece di ot- tenere lastre di 4 metri per 2 sebbene il processo di produzione fosse assai più lungo. In effetti la produzione della pasta di vetro avveniva in due fasi. Nella prima si preparava la pasta in fornaci di piccola potenza calorica al fine di eliminare le impurità e l’umidi- tà contenute nella miscela di silicio e soda. Una volta raffreddata, la pasta veniva tagliata a piccoli pezzi e poi immessa in crogioli di argilla posti all’interno di fornaci più potenti. A mano a mano che all’interno di un crogiolo si raggiungeva la temperatura di fu- sione, questo veniva estratto dal forno con degli argani e portato

L’uso dello specchio è testimoniato presso le civiltà europee e mediterranee dall’Età del bronzo (circa 1700-800 a.C.). Non si può escludere per lo specchio un originario carattere rituale o magico, sia per la sua connessione col sole, di cui riflette i raggi, sia perché in rapporto con l’adornamento del corpo, che ha sempre avuto ca- rattere rituale presso i primitivi... La stessa pressoché universale forma circolare, oltreché a motivi pratici, è da mettere in rapporto col disco solare. Il tipo più comune di specchio per tutta l’età an- tica, già presente durante il Medio Regno egiziano (2052-1570 cir- ca), è costituito da un piccolo disco di metallo (argento, bronzo o rame), sorretto da un manico, dalla superficie levigata e rifletten- te da un lato, incisa e decorata dall’altro. Anche le civiltà micenea e minoica adoperarono specchi con manico per lo più d’avorio di derivazione egizia; in Grecia l’uso dello specchio fu assai largo e si precisarono allora tre tipi fondamentali: semplice disco, disco con manico, disco con piede; verso la fine del v secolo a.C. si affermò un originale tipo di specchio portatile, detto “a scatola”, in quan- to racchiuso in una custodia o realizzato a due valve incernierate ripiegabili; in questi esemplari, ma anche negli altri, assai ricca

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Nel documento Il corpo (pagine 61-63)