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Le catene globali del valore stringono i legami produttivi tra paesi »

3. Come si muove il manifatturiero italiano nelle catene globali del valore »

3.1 Le catene globali del valore stringono i legami produttivi tra paesi »

Nell’idea tradizionale del commercio estero, in cui i beni che si spostano sono quelli che vanno dal produttore al consumatore, ogni paese si specializza in beni e servizi finali diversi. Tuttavia, nessun paese produce beni “da solo”. Più della metà degli scambi con l’estero è costituita, infatti, da input intermedi (53,2% nel 2016, escludendo i combustibili; dati ONU), che vengono acqui- siti per produrre nuovi beni e servizi; i quali a loro volta possono essere utilizzati nelle produ- zioni di altri settori e/o paesi o essere venduti al consumatore finale. Questa frammentazione internazionale dei processi produttivi forma una fitta trama che lega molteplici paesi, settori e imprese, lungo le cosiddette catene globali del valore (GVC).

Con la pervasiva e forte diffusione delle GVC avvenuta nell’ultimo quarto di secolo diventa ne- cessario analizzare con lenti nuove la composizione e la dinamica del commercio mondiale, la geografia e le forme della competizione internazionale e anche i canali di trasmissione degli shock tra paesi e settori.

Gli scambi lordi, dati dal semplice valore dell’export, misurano il grado di connessione com- merciale tra paesi, ma non il valore aggiunto effettivamente prodotto all’interno dei confini na- zionali e incorporato in ogni euro di export. Un noto esempio è quello dell’I-Phone, che è assemblato in Cina ma contiene componenti di alta tecnologia prodotti in altri paesi: nel caso dell’I-Phone4, è stato calcolato che il suo export dalla Cina per 194 dollari conteneva meno di 7 dollari di valore aggiunto cinese; 80 dollari erano invece da assegnare alla Corea del Sud, 25 agli Stati Uniti, 16 alla Germania e così via1. Queste statistiche, che possono essere definite come

“scambi internazionali in valore aggiunto”, misurano il reddito generato all’interno di ciascun paese grazie alla partecipazione nelle GVC, che va quindi a remunerare i lavoratori e le im- prese che operano sul suo territorio.

La frammentazione internazionale della produzione in fasi localizzate in paesi diversi che danno luogo a spostamenti di semilavorati svolge, così, un potente effetto volano degli scambi lordi mondiali e tende a ridefinire la geografia stessa della parte preponderante degli scambi secondo logiche produttive. Ciò ha favorito un processo di regionalizzazione del commercio in- ternazionale intorno ai tre principali poli mondiali; schematicamente: la Cina nel Sud-est asia- tico, gli Stati Uniti nel Nord America e la Germania in Europa. Allo stesso tempo, si sono irrobustite le connessioni tra questi poli, specie con l’affermarsi del gigante cinese, sia in stazza sia in capacità tecnologiche. Ciò ha provocato uno spostamento del baricentro della manifattura di prodotti sia finiti sia intermedi dal Nord al Sud del Mondo, con profonde implicazioni per il controllo delle filiere globali.

All’interno delle GVC, infatti, la competizione tra paesi non riguarda tanto o soltanto i beni e i servizi finali, quanto e soprattutto le diverse fasi del processo produttivo, che richiedono spe- cifiche conoscenze e competenze: si passa dal trade in goods al trade in tasks, cioè dal commercio di beni agli scambi di funzioni produttive. L’obiettivo delle politiche diventa quello di mante-

nere e attirare dentro i confini nazionali le attività a più alto valore aggiunto, con elevato con- tenuto tecnologico e che impiegano lavoratori altamente qualificati e retribuiti.

In questo contesto il controllo delle GVC si concentra sempre più nelle mani di grandi imprese multinazionali. E i modelli di gestione delle filiere internazionali si collocano tra due estremi: il controllo delle imprese leader a valle delle filiere, tipicamente localizzati nei paesi avanzati, e, viceversa, l’upgrading dei grandi fornitori e intermediari a monte delle catene, che possono essere situati anche nei paesi emergenti.

Sono molteplici i modelli di upgrading lungo le GVC. In Cina, in particolare, si sono sviluppate le cosiddette “supply chain cities”, cioè cluster industriali urbani specializzati in più fasi del processo produttivo. Possono essere originate sia da grandi unità produttive, spesso di multinazionali estere, che integrano localmente le fasi di design, fornitura e manifattura, per tagliare i costi di transazione e aumentare la flessibilità produttiva, sia da poli mono-prodotto, tipicamente nel set- tore dell’abbigliamento, che comprendono fornitori all’ingrosso, attività di packaging, servizi di nolo e trasporto, e altri. Questi cluster sono connessi in modo strategico, grazie a investimenti in- frastrutturali, agli altri anelli a monte e a valle delle filiere: i fornitori nel Sud-est asiatico di parti e componenti, da una parte, e i compratori globali di prodotti cinesi, dall’altra.

Nei paesi avanzati, invece, le politiche puntano al rientro dentro i confini nazionali di parti di produzione precedentemente esportata (il cosiddetto reshoring); ne sono esempio le politiche USA sotto le amministrazioni sia Obama (con il Make it in America Challenge) sia Trump (con la annunciata riforma fiscale a vantaggio delle produzioni interne).

L’altra faccia della medaglia della frammentazione produttiva internazionale è una sempre più stretta integrazione tra paesi e settori. Un esempio è appunto quello delle filiere regionali in Asia, che legano la Cina alle economie più avanzate (Giappone, Corea del Sud, Taiwan e Sin- gapore). Un altro altrettanto importante riguarda le catene del valore europee che gravitano intorno al perno tedesco. Ciò ha due rilevanti implicazioni.

La prima è che cresce la competizione globale tra filiere di produzione, nella quale paesi e settori integrati tra loro sono partner strategici, non concorrenti. Inoltre, anche le imprese che non espor- tano direttamente ma forniscono input intermedi a quelle attive sui mercati esteri contribuiscono alla competitività internazionale di ciascun paese e indirettamente partecipano alle GVC. La seconda è che questi paesi e settori sono strettamente interdipendenti, perché beni e servizi lungo le filiere di produzione che attraversano i confini nazionali sono complementari, cioè difficilmente sostituibili. Di conseguenza, shock positivi o negativi che avvengono in uno spe- cifico settore e/o territorio si trasmettono sia a monte sia a valle, lungo le catene di produzione, ad altri settori e/o territori; cosicché l’effetto cumulato può essere un multiplo di quello ini- ziale. Secondo un recente studio per l’economia USA, in particolare, negli ultimi cinquanta anni le fluttuazioni del PIL statunitense sono attribuibili in gran parte a shock specifici settoriali (83% del totale) e solo in misura minore a fattori aggregati, cioè comuni a tutta l’economia2.

Un esempio di trasmissione degli shock su scala globale è dato dalla crisi dei mercati finan- ziari nel 2008-2009, che ha causato lo stop dei crediti commerciali e dei finanziamenti di sup- porto all’export, con l’interruzione di connessioni produttive e, quindi, effetti a catena amplificati risalendo lungo le GVC. Ciò ha significativamente contribuito alla caduta del com- mercio mondiale alla fine del 2008 e nella prima metà del 2009. A partire dalla seconda metà del 2009 i legami produttivi internazionali si sono velocemente ricostituiti, ma non necessariamente nella stessa forma: alcuni pezzi delle filiere si sono trasferiti in Cina e in altri paesi emergenti, anche per avvicinarsi alla domanda finale più dinamica. La crisi è stata, quindi, uno spartiac- que che ha accelerato lo spostamento del baricentro di scambi e produzione mondiali dai mer- cati avanzati a quelli emergenti del Mondo.