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Uno sguardo di lungo periodo »

5. La mappa territoriale della manifattura italiana sta cambiando

5.6 Uno sguardo di lungo periodo »

L’analisi economica territoriale in Italia si è sviluppata nel segno della questione meridionale, ovvero della grande frattura tra Nord e Sud che ha caratterizzato l’articolazione dello sviluppo fin dagli anni immediatamente successivi all’unificazione. L’ampiezza del divario – mai colmato – ha mantenuto per lungo tempo l’attenzione concentrata su una rappresentazione dicotomica dello sviluppo, in particolare manifatturiero, lasciando in ombra quei segni di cambiamento che non rientrassero in questa visione.

Nel tempo, molti studi hanno contribuito a evidenziare il delinearsi di una discontinuità im- portante, che corrisponde all’emergere di un nuovo paradigma: il dualismo Nord-Sud non esau- risce più il quadro dello sviluppo territoriale, perché nuove linee di frattura emergono all’interno del Centro-Nord13. La più importante è quella che divide le aree di più antica industrializza-

zione (il triangolo industriale: Milano-Torino-Genova) dal “motore ausiliario” che si avvia nel Nord Est e nel Centro, in parte come esito di processi di trasferimento di alcune attività dalle re- gioni più industrializzate (per sopraggiunti problemi di congestione o altro), in parte su basi en- dogene, ma comunque nel contesto di una organizzazione sociale molto diversa.

Man mano che le indagini sul campo procedono, diventa sempre più chiaro che le caratteristi- che strutturali di quest’area vista nel suo complesso, in particolare per quanto riguarda la lo- gica dell’organizzazione produttiva, presentano importanti differenze rispetto a quelle prevalenti nel Nord Ovest, e ancora di più rispetto a quelle del Mezzogiorno. È in questo modo che nella seconda metà degli anni Settanta irrompe negli studi territoriali la periferia, e l’Italia diventa divisa in tre14.

Man mano che lo sviluppo si diffonde, la morfologia del modello di industrializzazione se- guita a cambiare. Nei primi anni Ottanta emerge all’attenzione una questione ulteriore, ovvero il fatto che la diffusione dello sviluppo procede geograficamente anche in senso verticale e coin- volge almeno le regioni meridionali del versante adriatico, con caratteristiche analoghe a quelle già riscontrate nell’area centro-nordorientale. Questa constatazione fa subito parlare di una via adriatica allo sviluppo. Fino ai primi anni Novanta, l’affermarsi di un Sud Est industrialmente dinamico viene chiaramente confermato dall’analisi quantitativa.

Si può dunque dire che la realtà e la rappresentazione del processo di industrializzazione si fac- ciano nel tempo via via più articolate. Dapprima c’è una semplice linea di cesura orizzontale, che si limita a separare il Mezzogiorno dal resto d’Italia. Poi compare una linea di demarcazione ul-

13In questo ambito va ricompresa la fitta serie di indagini sul campo di sociologi, geografi, aziendalisti, economisti

territoriali ed economisti industriali che – partita dal “dibattito sul decentramento produttivo” intorno ai primi anni Settanta – ha consentito di illuminare attraverso un approccio multidisciplinare le molte facce di un fenomeno allora del tutto nuovo, che prefigurava l’emergere di un paradigma di sviluppo senza precedenti. Tra i tentativi di fornire una chiave di lettura dei cambiamenti di lungo periodo dello sviluppo industriale a livello territoriale cfr. tra gli altri i contributi di Secchi (1974), Antonelli e Momigliano (1980), Becattini e Bianchi (1982), Fuà (1983), Crivellini e Pettenati (1989), Garofoli (1991), Tamberi e Traù (1999).

14La “periferia” si contrappone nell’analisi territoriale al “centro” e al “margine”, situandosi in mezzo. Il riferimento

teriore, che mantiene quella precedente ma gliene aggiunge un’altra (dividendo in due il Cen- tro-Nord lungo un asse in questo caso verticale). Infine si fa strada una demarcazione che separa in due parti lo stesso Mezzogiorno, includendo quella orientale dentro un’area adriatica che pre- senta rilevanti tratti comuni e dividendo così in senso verticale l’intera Penisola.

Il cambiamento della forma del territorio industriale si accompagna a un fenomeno di fondo: gradualmente, si contrae il li- vello assoluto dell’occupazione manifat- turiera (la variabile rilevata dai censimenti industriali, che sono la principale fonte di informazione a livello locale). Il calo, chia- ramente visibile a livello aggregato anche sulla base dei Conti Nazionali (Grafico 5.8), riflette almeno due fatti decisivi. Il primo è che mentre nel corso del secondo dopoguerra l’Italia è interessata da un in- tenso processo di sviluppo e la sua base manifatturiera seguita complessivamente a espandersi fino ai primi anni Ottanta,

negli anni successivi il ritmo rallenta. Il secondo sono gli effetti del cambiamento strutturale (più volte analizzati dal CSC in Scenari industriali), che agiscono sia dal lato della domanda sia da quello dell’offerta, e tendono a comprimere nel lungo periodo la componente manifatturiera dell’occupazione in tutti i territori, trasferendo quote crescenti di occupati nei servizi15. In que-

sto senso l’espansione dei servizi è di per sé parte integrante del processo di sviluppo di un si- stema economico. A questi due fatti se ne aggiunge un terzo: l’intenso processo di ristrutturazione che si realizza nella manifattura italiana nel corso delle due successive fasi di crisi, quella dei primi anni Ottanta e quella dei primi Novanta, nel corso delle quali la razio- nalizzazione dei processi produttivi spinge verso un minore impiego dell’input di lavoro16.

L’effetto combinato di tutti questi elementi è che negli anni successivi al 1980 l’occupazione manifatturiera registra un evidente ridimensionamento. Ma nel frattempo gli shock seguitano a susseguirsi: prima la globalizzazione, che ha l’effetto diretto di spiazzare produzioni locali e quello indiretto di spingere verso tecnologie più evolute (e dunque implicitamente labour saving) e gli sviluppi delle nuove tecnologie digitali (che producono effetti analoghi); e poi la crisi. Il loro effetto è di seguitare a erodere le dimensioni della manifattura in termini di occupati.

15Il fenomeno riguarda l’andamento nel tempo delle quote di occupazione; ma, per ragioni legate alla dinamica dif-

ferenziale della produttività, comporta anche una contrazione dell’occupazione in termini assoluti. Per una di- scussione di questi aspetti cfr. in particolare Centro Studi Confindustria (2013). A questi effetti si aggiungono quelli dovuti alla esternalizzazione di molte attività di servizio prima svolte all’interno delle imprese manifatturiere, che proprio negli anni in questione assume speciale intensità (si veda per tutti Momigliano e Siniscalco 1986).

16L’argomento ha ricevuto ampia attenzione in letteratura (cfr. per tutti Barca e Magnani, 1989, Traù 1994).

Grafico 5.8

L’occupazione manifatturiera ricrolla nella crisi

(Milioni di ULA)

Fonte: elaborazioni CSC su dati ISTAT e Banca d'Italia. 3,0 3,5 4,0 4,5 5,0 5,5 6,0 6,5 1951 1956 1961 1966 1971 1976 1981 1986 1991 1996 2001 2006 201 1 2016 Banca d'Italia Contabilità nazionale

L’andamento medio è però il risultato di dinamiche territoriali molto differenziate: la varia- zione dell’occupazione manifatturiera nel Nord Ovest dell’Italia è sostanzialmente nulla (+4.437 unità su uno stock al 1971 di quasi 2 milioni e mezzo) già nel periodo 1971-1981. Negli stessi anni Nord Est e Centro aumentano gli occupati di 506mila unità su meno di due milioni (dun- que di oltre un quarto). E, sempre negli stessi anni, è positivo anche l’andamento dell’occupa- zione nel Sud (quasi +220mila unità su 666mila, ossia un aumento di un terzo). Dunque, già tra il 1971 e il 1981, mentre il sistema manifatturiero seguita ancora a espandersi, cambia la sua base territoriale: l’attività di trasformazione si disloca fuori delle aree di prima e più antica in- dustrializzazione e si diffonde verso il Nord Est, il Centro e, più avanti, il Sud Est, che è l’unica ripartizione a registrare aumenti di occupazione manifatturiera ancora tra 1981 e 1991. Negli anni successivi, su cui si concentra l’analisi qui svolta dal CSC, i cambiamenti della di- stribuzione delle attività produttive sul territorio proseguono, ma non accompagnano più un processo di espansione della base manifatturiera. Nella fase del ridimensionamento le trasfor- mazioni territoriali non cessano, ma smettono di avvenire secondo un modello di sviluppo fa- cilmente identificabile. A partire dall’inizio degli anni Duemila diventa pressoché impossibile individuare una direzione definita del cambiamento. In un contesto di assottigliamento della manifattura, i mutamenti territoriali derivano diversamente dal passato da un grado maggiore o minore di resilienza delle diverse aree. A livello provinciale i territori mostrano di procedere in ordine sparso. Detto in altri termini, i comportamenti si fanno sempre più eterogenei. La difficoltà di individuare una forma del cambiamento pone di nuovo, così come accaduto in- torno alla metà degli anni Settanta del secolo scorso, l’esigenza di una conoscenza maggiore di quello che accade all’interno delle singole aree, anche a livello molto disaggregato e anche sul piano qualitativo, per cercare di ricostruire una chiave di lettura complessiva.

Le informazioni fin qui raccolte, riferite soltanto all’occupazione, servono a stilizzare un primo quadro. Esse dovranno essere integrate da altre variabili. La questione è quali siano le trasfor- mazioni di fondo che hanno investito i luoghi della manifattura in Italia, la cui struttura pro- duttiva è cambiata sempre più fortemente. Basti pensare alle tre grandi capitali industriali del Paese: Genova, Torino e Milano, in cui all’erosione della base manifatturiera ha corrisposto la transizione verso attività di servizio anche molto evolute, il cui sviluppo ha progressivamente trasformato la stessa identità dei territori. In questo senso la contrazione della base manifattu- riera non va intesa come un evento a seguito del quale i territori sono ineluttabilmente desti- nati a collassare. Ma pone in ogni caso la questione di quanto ciascuno di essi sia in grado di fronteggiare i mutamenti di contesto facendo leva sulle proprie conoscenze.

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L’EFFICIENZA ALLOCATIVA NON BASTA