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1. Lo sviluppo industriale negli anni della globalizzazione »

1.5 Conclusioni »

La Grande Globalizzazione ha coinciso con l’estendersi dello sviluppo manifatturiero al di fuori dei confini delle economie occidentali. Questo sviluppo ha riguardato solo un gruppo relati- vamente circoscritto di paesi, e ha comunque tagliato fuori la maggior parte delle economie che nei documenti internazionali una volta si chiamavano sottosviluppate o in via di sviluppo. La liberalizzazione degli scambi commerciali e dei movimenti di capitale ha svolto un ruolo im- portante nel favorire il trasferimento di fasi manifatturiere dal Nord al Sud del Mondo, inclu- dendo attraverso la globalizzazione delle catene del valore nuovi paesi all’interno del perimetro del mondo industriale. Questo processo è stato fortemente accelerato dallo scongelamento di grandi sistemi economici che ancora all’inizio degli anni Novanta del Novecento erano rima- sti sigillati all’interno di un mondo parallelo, quello dei regimi pianificati dell’Est Europa e del- l’Asia e delle dittature sudamericane. Dentro un arco temporale eccezionalmente breve (poco più di un decennio, dal lancio delle “quattro modernizzazioni” di Deng nel 1978 al ritorno nel- l’ambito della democrazia delle maggiori economie sudamericane, alla “caduta del Muro”), nuove vaste aree economiche sono entrate contemporaneamente a far parte del mondo glo- bale, affiancando altre economie in ritardo già inserite nel sistema degli scambi internazionali. Si è trattato di un evento irripetibile con risultati altrettanto unici, senza precedenti nella storia industriale, che ha improvvisamente messo a disposizione del mondo economicamente avan- zato un nuovo mercato del lavoro caratterizzato da disponibilità pressoché illimitata di mano- dopera a bassissimo costo35.

Questo nuovo assetto ha consentito, solo dove fossero già presenti conoscenze manifatturiere, l’avvio di un percorso di industrializzazione attivato dall’esterno senza che, per molto tempo, si manifestassero tensioni inflazionistiche; anzi, semmai ha esercitato una pressione al ribasso sui prezzi. Ma la stessa globalizzazione ha frenato contemporaneamente l’estendersi dell’atti- vità di trasformazione, rendendo decisivo il possesso di un vantaggio comparato. L’idea che l’apertura agli scambi internazionali potesse essere il primo motore immobile dello sviluppo manifatturiero di qualunque paese ha dovuto presto fare i conti, in un contesto di forte con- correnza internazionale, con la difficoltà dei “ritardatari” di raggiungere un grado di esten- sione della matrice dell’offerta (e dunque un tasso di industrializzazione) adeguato a garantire uno sviluppo capace di autosostenersi.

È risultata decisiva la scala delle diverse economie: mentre le più piccole devono necessaria- mente fondare il loro sviluppo sulla specializzazione (poche industrie competitive a livello in- ternazionale), le più grandi possono beneficiare di un mercato interno che consente di attivare l’offerta anche in ambiti internazionalmente non competitivi. È questo il caso della Cina, che ha già imboccato da tempo la via del riequilibrio tra domanda estera e interna a vantaggio della seconda, riuscendo contemporaneamente, grazie all’elevato livello di industrializzazione rag- giunto, a ridurre la dipendenza dalle importazioni. Ma oltre alla scala dei sistemi-paese conta

35Si è configurata cioè una situazione molto simile a quella stilizzata nel modello di Lewis-Kindleberger, esteso a li-

enormemente anche l’orientamento delle istituzioni. Una letteratura ormai estesa dimostra che esse svolgono un ruolo decisivo nell’avviare, accelerare ed endogenizzare il processo di indu- strializzazione.

Il combinato di questi elementi può delineare una nuova linea di frattura all’interno del blocco degli stessi emergenti. Mentre la partecipazione alle catene globali del valore ha subito cam- biamenti di rilievo, essendo cresciuta l’esigenza di avere fornitori sempre più evoluti e di una maggiore concentrazione nei mercati a monte, non è ovvio che i percorsi fin qui seguiti siano destinati ad essere replicati da tutti; ed è possibile che, anche come conseguenza dell’effetto di spiazzamento che gli emergenti più competitivi (e più grandi) esercitano su quelli che lo sono meno, si delinei una divisione tra chi riesce a tenere il passo e chi no.

La questione del saper tenere il passo riguarda gli stessi paesi avanzati che, dopo avere trasfe- rito nel mondo emergente molte attività e una quota ragguardevole delle loro catene di forni- tura e dei relativi saperi (e in alcuni casi avere accumulato ingenti deficit commerciali), vedono oggi assumere un ruolo sempre più autonomo da parte di sistemi economici troppo a lungo concepiti come colonie (nel duplice senso di fornitori di condizioni di offerta privilegiate e di facili mercati di sbocco). Perciò la vera questione, che riguarda tutti, è quali siano le condizioni, anche istituzionali e di policy, per rimanere nel mondo industriale.

L’esperienza storica di questi anni sottolinea che la crescita dei paesi emergenti di maggiore successo non è stata semplicemente guidata dalla loro apertura al commercio estero e non è avvenuta in presenza di politiche di bilancio restrittive e di liberalizzazione dei movimenti di capitale e dei mercati interni (in molti casi le politiche sono state opposte). Inoltre, il trasferi- mento di fasi produttive non è stato di per sé sufficiente a generare sempre e comunque nelle economie emergenti una graduale estensione della matrice dell’offerta, che è invece in molti casi rimasta incagliata intorno alla specializzazione iniziale, generando fenomeni di deindustria- lizzazione precoce.

Ancora, il reshoring nei fatti è stato fin qui piuttosto limitato, perché deve fare i conti con l’or- mai affermata esistenza di reti di fornitura strutturate nelle economie emergenti e con la dissi- pazione delle competenze nei paesi d’origine. A fronte del ritorno del protezionismo, gli scambi internazionali e gli IDE mantengono un elevato grado di inerzia, anche in virtù dell’estensione raggiunta dalle catene di fornitura a livello globale. L’interdipendenza raggiunta non può es- sere facilmente reversibile. Infine, non è la crisi ad aver cambiato il ritmo dello sviluppo (e i rap- porti tra il Nord e il Sud del Mondo) non più di quanto il ritmo e le modalità dello sviluppo negli anni che la precedono abbiano determinato l’intensità e la direzione della crisi.

Per i sistemi industriali delle economie avanzate l’eredità più densa di implicazioni degli anni della grande globalizzazione e della crisi è l’accrescimento dei divari nei risultati economici delle imprese. L’aumento della concorrenza internazionale, gli sviluppi della tecnologia e il ridimen- sionamento della domanda interna sono stati shock che hanno imposto strategie aziendali più evolute. Ne sono uscite vincenti le imprese che disponevano delle risorse e delle competenze per attuare le nuove strategie. Per le altre è diventata maggiore la difficoltà di fronteggiare il mer-

cato ed è più che mai cruciale la disponibilità di beni pubblici idonei a consentire la costruzione di strategie di sviluppo nel nuovo contesto. La politica, in particolare industriale, torna così ad avere un ruolo strategico per mettere le imprese (in particolare quelle che prima lo erano e ora non lo sono più o lo sono meno) in condizione di competere in un mondo molto più complesso.