• Non ci sono risultati.

Le implicazioni per il lavoro »

4. Le nuove tecnologie digitali: imprese e lavoro alla prova »

4.3 Le implicazioni per il lavoro »

Gli effetti sull’occupazione

Se guardiamo alla storia del Novecento, osserviamo che la grande crescita della produttività del lavoro associata all’introduzione delle nuove tecnologie ha consentito un innalzamento degli standard di vita senza precedenti, con conseguente aumento del tempo libero e miglioramento delle condizioni di salute3. Questo ha generato nuovi bisogni che hanno a loro volta determi-

nato la creazione di nuovi posti di lavoro. Le rivoluzioni tecnologiche del passato hanno com- plessivamente creato più occupazione di quella che hanno distrutto cancellando mestieri divenuti obsoleti, anche se i costi sociali del cambiamento sono stati molto importanti. L’ansia circa la possibilità che le nuove tecnologie creino disoccupazione è molto antica (vedi Mokyr

3 Sachs (2017) mostra che tra il 1900 e il 2015 le occupazioni manuali sono passate dal 70% al 20% circa del totale e

et al, 2015, Keynes, 1930) e, anche se i dati storici complessivamente ci rassicurano, è impossi- bile avere la certezza che pure questa volta sarà così (Autor, 2015). Per esempio Acemoglu e Re- strepo (2017) giustificano una certa preoccupazione: considerando l’introduzione di robot industriali tra il 1990 e il 2007 negli USA essi stimano che l’introduzione di un robot per ogni mille lavoratori riduca il tasso di occupazione locale di un ammontare compreso tra 0,2 e 0,3 punti percentuali e riduca il salario medio di un ammontare compreso tra 0,25 e 0,5 punti per- centuali. Tale analisi e la relativa conclusione non sono isolate nel proporre una prospettiva tendenzialmente negativa4. A ciò si aggiungono tre elementi di novità epocali: la velocità del

cambiamento, mai stato così rapido e che riduce la capacità di adattamento delle persone alle nuove tecnologie; la globalizzazione che genera una maggiore pressione competitiva anche e sempre più su segmenti di produzione ad alto valore aggiunto; l’invecchiamento della popo- lazione che allunga la vita lavorativa e comporta la necessità di adeguati processi di apprendi- mento quando, con l’avanzare dell’età, le capacità di apprendere si riducono.

L’automazione trova maggiore possibilità di utilizzo in ambienti definiti e dove le operazioni sono programmabili (che non significa rigidamente ripetitive): sono gli ambienti di lavoro fi- sici prevedibili. Al contrario, in ambienti di lavoro imprevedibili l’automazione si svilupperà più lentamente: ad esempio, questo accade per le operazioni in situ, specifiche e non ripetitive. Si pensi al giardinaggio, alle manutenzioni, ai servizi per la salute e così via.

L’impatto principale delle nuove tecnologie sul lavoro non consiste direttamente nella distru- zione di ben definita occupazione (vedi Frey e Osborne, 2017) quanto piuttosto nella possibi- lità di automazione di specifiche mansioni che compongono una posizione lavorativa. Al riguardo, Chui et al. (2016) notano che, ovviamente, la semplice fattibilità tecnica della sostitu- zione macchina-uomo è solo una condizione necessaria e non sufficiente per l’effettiva intro- duzione delle macchine, che dipende anche da elementi di costo e di accettabilità sociale5.

Questi autori stimano che, nel complesso dell’economia americana, solo un quinto del tempo passato sul luogo di lavoro riguardi lo svolgimento di attività fisiche o la conduzione di mac- chine in ambienti prevedibili; tale quota è maggiore (circa un terzo) nel settore manifatturiero. La percentuale di mansioni per le quali oggi esiste una possibilità tecnologica di sostituire un lavoratore con una macchina è peraltro molto variabile tra le diverse occupazioni: per esempio, per il lavoro di saldatura arriva al 90% mentre per i servizi al cliente è inferiore al 30%.

La vicenda dell’automazione degli sportelli bancari è al tempo stesso associata alla digitaliz- zazione (introduzione dei “Bancomat”) e abbastanza lontana nel tempo (inizia nei primi anni ’70 del secolo scorso) per poter essere guardata con una prospettiva storica. Autor (2015) mo- stra che negli USA dal 1970 il numero di impiegati bancari raddoppia (da 250.000 a 500.000) per effetto di due tendenze opposte: il numero medio di impiegati per agenzia si riduce di un terzo ma il numero delle agenzie bancarie aumenta del 40% dal momento che aprire e gestire una

4 Si vedano, ad esempio, PEW (http://www.pewInternet.org/2014/08/06/key-insights-expert-views-on-artificial-

intelligence-robotics-and-the-future-of-jobs/) e World Economic Forum (2016).

5 Per esempio, qualora esistesse la possibilità di affidare un malato di Alzheimer alla cura di un robot che il malato

nuova agenzia costa meno. L’esito è sotto gli occhi di tutti: gli impiegati svolgono meno lavori di routine, maneggiano meno denaro contante e si concentrano su attività di consulenza, rela- zioni con i clienti, illustrazione di nuovi prodotti. In sintesi, gli impiegati si concentrano su mansioni più impegnative dal punto divista cognitivo.

Quel che genera incertezza, ansia e paura, tuttavia, è la presa di coscienza che le nuove tecno- logie e la globalizzazione congiuntamente fanno sì che «qualunque sia il lavoro o le compe- tenze che ciascuno ha, nessuno può sentirsi al sicuro circa il fatto che il proprio posto di lavoro non sarà il prossimo a essere investito dal cambiamento» (Baldwin, 2016).

Pur non potendo, quindi, sapere se nei prossimi decenni, a livello planetario, saranno più i posti di lavoro distrutti o quelli creati, con certezza possiamo però dire che i posti di lavoro non sa- ranno necessariamente creati e distrutti negli stessi luoghi e negli stessi settori produttivi e che i nuovi posti di lavoro richiederanno competenze nuove; esiste inoltre il rischio che ci sia uno sfa- samento temporale, anche molto rilevante, tra distruzione e creazione di posti di lavoro. Esiste dunque il rischio concreto che un numero importante di persone perdano il posto di la- voro per effetto della digitalizzazione della manifattura e dell’economia in generale, combi- nata con la globalizzazione. Auspicabilmente per la totalità o almeno per la gran parte di loro potrebbe trattarsi di una condizione transitoria che potrebbe anzi preludere a migliori sbocchi lavorativi. I costi sociali, tuttavia, potranno essere molto elevati: ci potranno essere fenomeni mi- gratori, disoccupazione e diffuse necessità di riqualificazione professionale e si potrà generare una massa di persone escluse dai processi produttivi che potranno esprimere frustrazione, rab- bia e disagio sociali anche attraverso il voto democratico, contro un sistema economico dal quale si sentono escluse. I vinti hanno già formato maggioranze vincitrici nel caso della Brexit, delle elezioni presidenziali USA e minoranze robuste e inedite nel nuovo Bundestag tedesco. C’è dunque una questione urgente di gestione della fase di transizione verso un equilibrio so- cialmente migliore e più accettabile (con salari più alti, lavori meno usuranti e pericolosi, mag- gior tempo libero), che però potrebbe essere politicamente bloccata da coloro che risultano perdenti nelle prime fasi del processo di introduzione delle nuove tecnologie.

La rapidità stessa del mutamento tecnologico determina non solo grandi variazioni nei livelli occupazionali dei diversi settori industriali ma anche radicali mutamenti nella quota del valore aggiunto che va ai diversi fattori produttivi. Si consideri, per esempio, che in meno di tren- t’anni, dal 1988 al 2015, la quota del fattore lavoro sul valore aggiunto nel settore automobili- stico USA è passata dal 70% a meno del 45% (Sachs, 2017).

L’atteggiamento e la reazione più diffuse per far fronte a questa montante preoccupazione e alle sue conseguenze politiche consiste nell’auspicare massicci interventi redistributivi e vasti pro- grammi di welfare. In particolare, sono stati proposti schemi di tassazione dei robot, programmi di reddito minimo di cittadinanza anche per chi non cerchi attivamente il lavoro e piani di pen- sionamento anticipato (anche FMI 2017). Ma le condizioni della finanza pubblica (alti debiti accumulati prima e soprattutto in conseguenza della crisi), il già troppo elevato livello della tassazione del lavoro e della contribuzione pensionistica e la bassa fiducia dell’opinione pub-

blica nella capacità dei governi di attuare politiche redistributive efficienti ed eque suggeri- scano che tale strada sia molto difficilmente percorribile. Sebbene è certo che programmi di in- clusione sociale, basati sul contrasto condizionato della povertà, detassazione dei lavori a bassa qualifica e massicci programmi di formazione e riqualificazione, debbano rientrare nella fare- tra degli strumenti e delle politiche da adottare.

A ciò si aggiunge il fatto che sembra difficilmente sostenibile una società futura nella quale i de- tentori del capitale e le persone con qualificazioni più elevate e non sostituibili abbiano quote di reddito estremamente elevate mentre una massa crescente di persone viva in condizioni di marginalità e percepisca trasferimenti assistenziali. Il lavoro non è solo fonte di reddito ma deve essere strumento di crescita personale e intellettuale e di sviluppo di una coscienza sociale. È dunque indispensabile che i rapidi cambiamenti tecnologici in atto si associno ad azioni in- clusive e ad un allargamento della platea delle persone che contribuiscono con il proprio lavoro e le proprie idee allo sviluppo della collettività.

Ciò porta a ritenere che il tema della formazione e dell’istruzione sia davvero centrale per far sì che l’adozione delle nuove tecnologie conduca effettivamente verso un sistema economico che garantisca maggiore ricchezza e maggiore benessere, distribuiti in misura socialmente con- divisa e accettata. Si consideri a questo proposito che la Germania, paese manifatturiero più avanzato sul terreno dell’Industria 4.0, è il paese con il numero più basso di ore annue lavorate: 1.368 contro una media OCSE di circa 1.800 e un massimo del Messico di 2.248. E tuttavia un alto numero di persone sono classificabili come lavoratori poveri.

Occorre dunque sviluppare un modello di crescita nel quale la produttività del lavoro salga in modo radicale e possa sostenere non solo un aumento dei salari ma anche un coinvolgimento nell’occupazione di una platea molto vasta di persone. Sachs (2017) giunge alla conclusione che occorrano almeno quattro tipi di politiche: i) nuovo training; ii) redistribuzione del reddito per mitigare l’aumento della quota che va al capitale a discapito del lavoro; iii) aumento del tempo libero; iv) potenziamento delle complementarietà tra uomo e macchina.

I fabbisogni formativi

Assistiamo in Italia a una preoccupante concomitanza di fenomeni: i) un numero di laureati in- feriore alla media europea e di gran lungo più basso di quello dei paesi avanzati, anche tra i gio- vani, ii) una emigrazione di laureati che non ha precedenti, iii) un differenziale salariale tra laureati e non laureati che si restringe, iv) un’alta percentuale di laureati che sono sovra-istruiti rispetto al lavoro svolto6. Anche le imprese che innovano fanno poco ricorso a laureati: solo nel

20% di tali imprese i laureati rappresentano più del 10% della manodopera totale, contro il 60% in Spagna e il 50% in Germania (CSC, 2016). Ancora, gli occupati ICT sono solo il 2,5% del to-

6 L’Istat (2016) stima nel 42% il fenomeno; OCSE (2015) mostra che nel 2011-12 l’Italia è risultato il paese con la più

alta percentuale (33% circa) di skill mismatch e stima che se riducessimo tale disallineamento tra le competenze al livello del paese OCSE con il valore più basso in ciascun settore di attività, la produttività del lavoro in Italia cre- scerebbe del 10%.

tale contro il 3,5% della media europea e solo il 33% degli specialisti in ICT delle imprese sono laureati contro il 60% della media europea (CSC 2016).

Tale concomitanza di fatti appare sorprendente in una fase storica nella quale il Paese è chiamato a produrre il massimo sforzo verso l’innovazione. Occorre dire con chiarezza che il successo nella sfida posta dalla rivoluzione digitale in atto non può essere conseguito senza un innalza- mento del livello della cultura imprenditoriale, una necessità di cui sono ben consapevoli l’80% degli imprenditori stessi (CSC, 2016; Marini, 2016; Andreis, 2017). Il potenziamento del capitale fisico delle imprese, testimoniato per esempio dai recenti, molto positivi, dati sugli acquisti di macchine utensili, da solo non è sufficiente: occorre un corrispondente potenziamento del capi- tale umano e una radicale trasformazione del modello organizzativo delle imprese. Tutto il si- stema manifatturiero è chiamato a effettuare un salto culturale: gli imprenditori ed i manager devono cogliere con lucidità le implicazioni delle nuove tecnologie ed anche i lavoratori con compiti manuali dovranno gioco forza muoversi in contesti produttivi radicalmente nuovi. Mai, o quasi mai, le nuove tecnologie digitali sono utilizzate per fare la stessa cosa e nello stesso modo semplicemente usando una macchina diversa. Vi sarà dunque necessità non solo di per- sone con competenze specifiche su ciascuna tecnologia ma anche (e forse soprattutto) di per- sone capaci di gestire il cambiamento e di apprendere nuove competenze. Si tratta di persone alle quali è richiesto di capire fino in fondo che i processi produttivi, i modelli organizzativi, i modelli di business oggi adottati sono il risultato di processi di ottimizzazione del passato che tenevano conto di obiettivi e di vincoli tecnologici ormai superati. Le nuove tecnologie abilitano il perseguimento di obiettivi diversi e più numerosi e rimuovono molti vincoli del passato. Ci sarà dunque bisogno non solo di tecnologi ma anche di persone capaci di immaginare in modo creativo qualcosa che vada oltre il solito “abbiamo sempre fatto così” nei diversi campi della vita delle imprese. Si consideri, per esempio, la manifattura additiva (stampa 3D): tale tecno- logia determina un (quasi) totale superamento dei vincoli di geometria posti dalle tecnologie tradizionali e (quasi) annulla i costi di realizzazione di varianti. La competitività della stampa 3D non deriva quasi mai dal minor costo di produzione del singolo pezzo ma piuttosto dal fatto che la geometria dei pezzi viene ottimizzata, che si riducono i costi di manifattura (spesso si possono realizzare in un unico pezzo oggetti che prima si ottenevano saldando 6 o 7 com- ponenti) e che si possono ridurre i costi del magazzino di ricambi. La vera sfida oggi per le im- prese è quindi individuare quei componenti dei propri prodotti che possono essere realizzati con manifattura additiva dopo una opportuna re-ingegnerizzazione e valutazione degli aspetti economici complessivi e dopo opportuni e necessari cambiamenti organizzativi.

Come nota Sachs, di fronte a macchine che fanno cose diverse e sviluppano capacità che prima erano esclusivamente appannaggio di persone, occorre potenziare quelle competenze, non solo tecnologiche ma anche “umanistiche”, dei lavoratori che siano complementari con tale nuova ge- nerazione di macchine. Da un lato, infatti, alcune competenze tecniche diverranno meno neces- sarie, dall’altro competenze organizzative e relazionali diverranno più importanti. Riguardo alle prime, si consideri per esempio il caso delle riparazioni/manutenzioni: la possibilità di racco- gliere dati da remoto e di dialogare in tempo reale con un operatore sul luogo può consentire una

sorta di formazione just in time che permetta a un tecnico di attuare un intervento per il quale non ha una preparazione specifica. Alternativamente, la presenza di un gemello digitale di cia- scun macchinario fa sì che la conoscenza possa essere incorporata in un palmare e che l’addetto alla manutenzione possa essere guidato da esso nei successivi passi del proprio lavoro.

Oggi il livello dell’investimento in formazione nelle imprese italiane risulta inadeguato: la per- centuale di lavoratori nella classe di età 20-24 che riceve formazione sul posto di lavoro in Ita- lia è pari al 10% contro il 30% e il 50%, rispettivamente, della media OCSE e della Germania. Una conferma indiretta di ciò deriva dall’osservazione che il divario tra le competenze in Ita- lia e nel resto dei paesi OCSE si allarga al crescere degli anni di esperienza lavorativa: ciò di- mostra che in media in Italia si fa meno rispetto al resto dei paesi industrializzati per evitare che con il passare degli anni i lavoratori perdano competenze cognitive.

4.4 Conclusioni

L’evoluzione convergente di una pluralità di tecnologie abilitanti richiede l’elaborazione di una strategia complessiva che garantisca la tenuta economica e sociale del Paese a fronte di una ve- locità di cambiamento che non ha precedenti nella storia.

Il prevalere in Italia di imprese di piccola e piccolissima dimensione con accesso al credito spesso limitato e con scarse capacità finanziarie alternative costituisce un elemento di debo- lezza nell’affrontare un cambiamento tecnologico radicale che modificherà, tra l’altro, la strut- tura delle catene internazionali del valore. Il Piano nazionale Industria 4.0 e gli iper-ammortamenti che l’hanno concretizzato costituiscono una risposta centrata: tali incen- tivi fiscali forniscono infatti alle imprese un aiuto importante e automatico (non assegnato con bandi che implicano un’alea e costi amministrativi significativi) verso l’ammodernamento dello stock di capitale.

Si pone, però, una duplice sfida dal cui esito dipende la tenuta economica e sociale del Paese. In primo luogo, occorre prefigurare un percorso verso Industria 4.0 per la manifattura italiana che non lasci indietro la grande massa delle imprese e non crei inaccettabili sacche di emargi- nazione nei lavoratori.

Il dispositivo dell’iper-ammortamento sta certamente aiutando le imprese leader italiane a com- petere con successo sui mercati internazionali, ma la fragilità della struttura funzionale e reddi- tuale di una parte importante della nostra struttura industriale espone al rischio che degli aiuti fiscali predisposti dal governo beneficino quasi esclusivamente le imprese competitivamente più forti che realizzano utili sui quali l’iper-ammortamento possa incidere. Al contrario, le im- prese che oggi non realizzano utili ed hanno una struttura finanziaria debole rischiano di re- stare escluse da politiche di sostegno delle quali avrebbero massimamente bisogno.

Esiste un sentiero stretto per conciliare l’esigenza di contenere l’impegno finanziario richiesto alle imprese e la velocità del cambiamento imposto dalle tecnologie. Occorre che gli impren-

ditori sviluppino rapidamente una comprensione delle implicazioni del cambiamento in atto, elaborino una strategia di medio termine basata su una visione complessiva dei fenomeni che preveda una gradualità nel percorso di transizione. È evidente che un ipotetico imprenditore che oggi si trovasse a costruire ex-novo, partendo da un prato verde, un impianto industriale realizzerebbe qualcosa di radicalmente diverso rispetto alle strutture produttive che cono- sciamo. Ma non è questa la condizione nella quale si trovano ad operare la quasi totalità degli imprenditori italiani, e non solo loro. La letteratura economica parla di irreversibilità delle tec- niche per sintetizzare la realtà fattuale dell’esistenza di uno stock di capitale accumulato in pas- sato e che non può essere cancellato passando, come vorrebbe la teoria formalmente elegante ma fondata su ipotesi astratte, istantaneamente da una tecnologia a un’altra.

È importante, perciò, che gli imprenditori, soprattutto piccoli e medi, comprendano che esiste un percorso possibile che li può portare nell’arco di qualche anno verso un nuovo paradigma tecnologico partendo dagli impianti esistenti e sviluppando progressivamente nuove compe- tenze e nuovi modelli di business. La gradualità dell’approccio può consistere nel cominciare a estrarre informazione da dati dei quali l’impresa è già in possesso (e che non sta usando) op- pure nell’applicare sensori anche sui macchinari esistenti allo scopo di connetterli tra loro e con quelli nuovi. Quest’ultima operazione (che può avere un costo contenuto) prolunga la vita utile degli impianti, permette di aumentare la produttività dell’impresa (tipicamente riducendo i consumi di energia e gli scarti di produzione) e consente all’impresa di sviluppare una nuova cultura manageriale e organizzativa.

Molto bene ha fatto dunque il governo a includere gli investimenti finalizzati alla digitalizzazione di vecchi macchinari (revamping) tra quelli ammissibili per l’iper-ammortamento. Tali investimenti permettono, infatti, all’impresa di iniziare un percorso che sviluppa le competenze dei propri di- pendenti e all’imprenditore di mettere a punto aggiustamenti di traiettoria man mano che le im- plicazioni della digitalizzazione della propria impresa diventano più evidenti e chiare.

Questo percorso presuppone evidentemente una grande capacità di elaborazione culturale da parte degli imprenditori che dovrebbe essere sviluppata con azioni individuali ma anche con iniziative di condivisione di esperienze e contaminazione reciproca, facilitate dal sistema delle associazioni imprenditoriali. Sotto questo aspetto potenzialmente molto utili possono essere i

digital innovation hub che Confindustria sta creando nei diversi contesti regionali e i competence center che il Ministero dello Sviluppo ha stabilito di finanziare e che dovrebbero essere creati nel

2018, pur con notevole ritardo rispetto ai programmi iniziali.

Infine, ma non certo per importanza, si pone il grande problema della tenuta sociale, che passa attraverso l’inclusione e dunque la formazione. Sappiamo che i nuovi posti di lavoro non ne-