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L’ebreo chassidico ovvero il Diverso

Accanto al sionismo politico, il chassidismo è il movimento ebraico più importante dell’età moderna. Sorto in Polonia intorno alla metà del Sette- cento, da qui si era diffuso rapidamente in tutta l’Europa centro-orientale e quindi in tutto il mondo. Nel bene o nel male, il chassidismo ha influen- zato non solo l’ambito dell’osservanza religiosa, ma anche la letteratura, la musica, il modo di vestire e di autorappresentarsi di gran parte del popolo ebraico. È ben comprensibile che il giovane Stryjkowski, sionista e poi comunista, a fatica sopportasse sia l’esasperata religiosità chassidica sia la politica tradizionalista e di chiusura adottata dai loro esponenti religiosi. Meno comprensibile è un accanimento che non cessa diversi anni dopo la scomparsa del chassidismo in Polonia e lo sterminio quasi totale degli ebrei chassidici di questo paese, e che non è venuto meno neanche quan- do, smessi i panni del comunista, Stryjkowski ha dichiarato il suo totale ritorno emotivo al popolo ebraico.

La spiegazione addotta da Stryjkowski per giustificare tanta acrimonia echeggia la tesi di Martin Buber secondo cui il chassidismo avrebbe co- nosciuto un periodo di decadenza agli inizi del Novecento. Pur elogian- do il cassidismo ‘originario’ dei tempi del suo fondatore Baal Shem Tov, Stryjkowski non si perita di descrivere senza mezzi termini gli zaddikim come una genia di “idioti” circondati da seguaci “incapaci di occuparsi del problema del bene e del male”448.

Eppure negli anni d’infanzia e giovinezza di Stryjkowski erano ancora vivi e attivi importanti zaddikim, come Adam Eiger, zaddik di Lublino, morto nel 1914, autore di un apprezzato commento al Deuteronomio; gli zaddikim della dinastia Halberstam di Nowy Sącz, fra cui si annoverano eccellenti studiosi, lo zaddik Salomon Henoch Kohen Rabinowicz di Ra- domsko, fondatore di una nota yeshivah, la scuola superiore di studi ebrai- ci, assassinato dai nazisti nel 1942; Izrael Taub e il figlio Jakub Dawid di Modżyce (morti nel 1920 e nel 1926), noti musicisti; Samuel Weinberg di Słonim, autore di commentari talmudici. Nel 1935 è morto Menachem Mendel Chaim di Zawiercie, pedagogo e attivista sociale. Il più importan- te e noto fra gli zaddikim polacchi della prima metà del Novecento è sicu- ramente è Abraham Mordechai Alter (1866–1948), ultimo esponente della celebre dinastia di Góra Kalwaria (Ger) in Polonia, considerato la figura

più importante di tutto l’ebraismo ortodosso europeo prima della Shoah. Uno dei fondatori del partito conservatore Agudat Israel (Agudas Yisroel in yiddish), Alter fu anche deputato al Parlamento polacco. Secondo lo studioso israeliano David Assaf, agli inizi del Novecento, con lo sviluppo delle yeshivot chassidiche, si è anzi testimoni di una fase di nuova crescita e vigore di questo movimento: un’ulteriore riprova della soggettività del- la visione stryjkowskiana di un mondo di degenerati. Per una gran parte della critica polacca però l’immagine esclusivamente negativa del mondo chassidico è così fortemente interiorizzata da far ritenere le descrizioni di Stryjkowski realistiche ed empatiche, quando non “più vere del reale”.

È già stata citata l’opinione di Sandauer, secondo cui il nostro autore an- dava alla ricerca del plauso del lettore, di cui aveva fatto proprie aspettative e idiosincrasie. Il patto che unisce le attese del lettore al ‘dono’ ottenuto dallo scrittore, così come la stessa definizione di ‘orizzonte di aspettativa’ diventa- no temi particolarmente rischiosi nel trattare tematiche relative a minoranze etniche accolte in maniera ostile nel discorso collettivo. Nel nostro caso, sono l’insicurezza quasi patologica dell’autore e il suo inesauribile desiderio di ac- cettazione a condurlo verso le ipotetiche aspettative del lettore, il cui sguardo normativo è maschile, polacco, ‘ariano’. Queste molteplici tensioni, accentua- te da una congiuntura politica perennemente conflittuale, sembrano conver- gere nella figura dell’ebreo chassidico. Esso è la figura centrale nell’universo letterario di Stryjkowski non solo per la frequenza in cui viene ritratta, ma anche perché proprio in essa si concentra la ‘diversità ebraica’.

Per molti decenni l’ebreo chassidico ha rappresentato, agli occhi dei gentili e anche degli stessi ebrei occidentali o assimilati, il simbolo stesso dell’ebreo orientale, dello Ostjude. Diversi e in qualche maniera ripugnanti per la foggia degli abiti, il disprezzato dialetto (lo yiddish non era parlato solo dai chassidim, ma a essi veniva immancabilmente associato), le forme di religiosità esasperate e incomprensibili, e anzitutto per la povertà che ne caratterizzava le masse, gli ebrei chassidici, nonostante la stilizzazione romantica della loro vita e delle loro credenze operata da Martin Buber e da altri studiosi449, riassumevano tutto ciò che di estraneo e di pericoloso po-

teva trovarsi nel mondo ebraico. Veri nemici della civiltà, accusati persino durante la Shoah di essere, con la loro diversità esasperata, la ‘causa’ delle persecuzioni antisemite, gli ebrei chassidici erano allo stesso tempo temuti e disprezzati dai correligionari occidentalizzati. Un disprezzo strettamente

congiunto alla ingenua e oggi risibile convinzione che l’antisemitismo sa- rebbe scomparso magicamente una volta che gli ebrei si fossero formalmen- te adeguati alle convenzioni del mondo non ebraico. L’ebreo è generalmente rimasto simbolo dell’Alterità e del Nemico persino quando ha compiuto la maggiore delle rinunce, ovvero quando, convertendosi, ha acquistato uno spesso inutile biglietto d’ingresso nella società.

Altrettanto importante nel nostro caso è inoltre il fatto che l’ebreo chas- sidico evochi l’immagine di un’identità ebraica dalla connotazione ses- suale ambivalente. Come già accennato, una mascolinità dubbia, quando non un’intrinseca natura femminea, potevano venir attribuite agli ebrei a prescindere dal tipo della loro osservanza religiosa o dal grado di accul- turazione raggiunta; la milah, la circoncisione obbligatoria per i bambini ebrei all’ottavo giorno di vita, si associava alla malattia, alla perversione, all’omosessualità e alla femminilizzazione; come dimostrato da Mayer e Mosse, l’identificazione del Diverso con la Donna svolge ancora oggi un’importante funzione sociale nel mantenimento dei rapporti di dominio e soggezione450.

I motivi di tale associazione sono rinvenibili anche all’interno della cultura ebraica tradizionale. In terra polacca l’estraneità fra i diversi pa- radigmi culturali e sociali aveva particolare evidenza. La società ebraica, basata sullo studio dei testi sacri, sull’osservanza di severe regole religiose ed etiche e la coesione familiare, caratterizzata dal disgusto per le armi e da un sostanziale pacifismo, dalla timidezza e dalla mitezza dei suoi uomini, mal si accordava ai modelli culturali dei conterranei polacchi ispirati da ideali di cavalleria, coraggio fisico, tracotanza guerresca, amor di patria. La figura maschile di riferimento, l’‘eroe’ del mondo ebraico tradizionale era lo studioso: pallido e magro, veniva generalmente man- tenuto dalla moglie; il viso affilato che lo contraddistingueva in maniera inequivocabile dai contadini gentili dal volto sano e rubizzo era indice di “finezza ebraica”451.

La distanza fra l’ideale maschile ebraico e quello proposto dalla società circostante ricorre in tutta la storia europea e non è ovviamente caratteri- stica unicamente polacca, avendo le sue radici nella fondamentale discordia fra i paradigmi culturali di Roma e di Gerusalemme. Ma è stato proprio in Polonia che si è definito il modello virile nella sua versione ebraico-ashke- nazita. Le prime descrizioni letterarie di questo modello sono però altrove,

e risalgono a prima della nascita del chassidismo. Forse il più celebre testo scritto da una donna ebrea in età premoderna, Le memorie di Glückel Ha- meln redatte ad Amburgo a metà del XVII secolo, ne forniscono un esem- pio commuovente. Secondo le parole di Daniel Boyarin:

In her description of her young husband as the ideal male Jew of her time, she emphasized his inwardness, piety, and especially «meekness». Her book is suffused with descriptions, tender and delicately erotic, of her love for this man who forms in a sense a prototypical mentsh [ter- mine yiddish che indica l’essere umano nel senso etico della parola, n.d.a.] as husband, devoted, reliable, gentle, and emotionally warm452.

Analisi come quelle di Boyarin, che ricerca all’interno della tradizione ebraico-orientale la possibilità di definire dei rapporti interumani non basati sull’oppressione, hanno dato nuovo risalto a questi modelli culturali. D’altro canto, questa rivalutata ‘mitezza’ dell’ebraismo ashkenazita contiene anche elementi autopunitivi o il riflesso di condizioni sociali disperate, della passi- vità e dell’impotenza politica di questo popolo453. Caratteristiche femminili

possono venir associate alle società prive di potere politico: “for class, as for empire, the bottom position would tend to be feminized”, sostiene Amy Richlin citata da Boyarin454. La percezione dell’ebreo tradizionale perden-

te come maschio455 ovvero lo stereotipo della sua dubbia identificazione

sessuale, della sua natura debole e femminea, sono state interiorizzate da grande parte dell’ebraismo europeo sulla via dell’assimilazione. L’immagi- ne dell’ebreo femminizzato ha fornito ispirazione all’‘ebraismo muscoloso’ formulato da Max Nordau, alla base dell’immaginario del sionismo politico. Si può aggiungere che caratteristiche sessuali venivano associate anche alle lingue degli ebrei, l’ebraico biblico ovvero il neo-ebraico e lo yiddish. Erano addirittura gli stessi scrittori in questa lingua a concettualizzarne un’essen- za femminile. Il sinonimo più frequentemente usato per lo yiddish è ma-

meloshn, la lingua della mamma. La stessa definizione ne indica dunque

lo stretto legame con l’esperienza femminile, la marginalità, la mancanza di potere: immagini che riflettono una condizione storica e non solamente simbolica. Allo stesso tempo all’ebraico, lingua che con l’affermarsi del sio- nismo politico si fa portatrice di modelli culturali caratteristici del mondo gentile (la forza e il vigore fisico, l’eroismo, il valore militare), spetta inevi-

tabilmente un’identificazione maschile. Un divario che appare con grande evidenza nelle arti visive. Già all’inizio del XX secolo, alla stilizzazione liberty, all’ondulata linea femminile con cui l’artista di Leopoli Gotthold Ephraim Lilien spiritualizzava ed esaltava l’esperienza ostjudisch, faceva riscontro la grafica sionista che celebrava l’ebreo muscoloso, agricoltore o pioniere. Molti giovani che si trovavano sulla fragile linea divisoria ‘fra i due mondi’ trovavano qui una via di fuga dall’umiliazione dell’Esilio, dalla spiritualità esasperata e spesso malsana degli shtetlakh, dalla loro atmosfera soffocante. Il sionismo proponeva un capovolgimento di priorità estetiche e morali; in contrasto con l’ascetismo repressivo del mondo ortodosso rega- lava la promessa sensuale di corpi sani e di una sessualità liberata; il suo immaginario prospettava una vera e propria “rivoluzione erotica”, secondo la definizione di David Biale, dagli impliciti sottotesti omosessuali. Erano suggestioni a cui il giovane Stryjkowski non poteva restare indifferente.

In un’intervista spesso citata, così Stryjkowski aveva riassunto le moti- vazioni del suo periodo sionista:

[Volevamo] allontanarci dal modo di vivere dei bottegai, dei venditori ambulanti, dei piccoli artigiani, che per noi era un peso e un fardello. Eravamo giovani e desideravamo l’armonia, la libertà, volevamo re- spirare a pieni polmoni, ambivamo a una patria ideale […]. Si trattava della bontà, della giustizia, della bellezza: niente meno di questo…456

La proiezione negativa usata da Stryjkowski nei confronti del mondo ebraico ha probabilmente a suo scopo principale la rimozione della soffe- renza erotica dello scrittore e della sua carente identificazione nei modelli maschili dominanti. Nelle parole di Sander L. Gilman:

One of the most successful ways to distance the alienation produced by self-doubt was negative projection. By creating the image of a Jew existing somewhere in the world who embodied all negative qualities feared within oneself, one could distance the spectre of self-hatred, at least for the moment457.

Anche la peculiare convenzione linguistica, il connubio artificioso yiddish-polacco proposto da Stryjkowski si direbbe dover adempiere alla

funzione di separare l’io narrante (e con lui il lettore) dagli eventi e dai personaggi descritti. Come già visto nella rappresentazione fisica dei per- sonaggi ebraici, la sofferenza, la vergogna e il senso di colpa che per Stryj- kowski sono indissolubilmente legati al mondo ebraico sembrano potersi esprimere solo tramite l’allontanamento, la reificazione, la degradazione dell’oggetto descritto. Benché preponderante, il problema dell’autore non è solo quello dell’identità sessuale e dell’impossibilità a trovare all’interno della tradizione ebraica i parametri necessari a un percorso di accetta- zione e di liberazione, ma anche quello della catastrofe ebraica, a cui lo scrittore ha assistito da lontano, nell’impossibilità anche solo di progettare forme di aiuto e in una situazione, almeno dal punto di vista emotivo, di relativo conforto. Il senso di colpa di chi è sopravvissuto ha un effetto lacerante nell’opera di Stryjkowski. Ponendosi a una distanza di sicurezza dai suoi personaggi lo scrittore (che, come già ricordato, ha iniziato a scri- vere con successo solo dopo la Shoah), sembra anche volersi allontanare dallo sterminio ebraico e dal buco nero della sua sofferenza. L’impotenza ebraica, la passività ebraica, l’incapacità ebraica a salvare dallo sterminio se stessi e gli altri vengono localizzate e parzialmente rese innocue grazie a un linguaggio estraniante ed estraniato, un codice fizionale in cui nes- suna persona reale si sarebbe mai potuta esprimere. Come ha argomenta- to Gilman, persino scrittori come Canetti o Koestler avevano cercato di esorcizzare il linguaggio ebraico (lo yiddish o il ladino) situandolo in un periodo precedente e concluso rispetto alla posizione del narratore:

By shifting his language, the “self critical” Jewish writer posits the ne- gative image of the Jew in the world he has left. The damaged discourse of the Eastern Jew in the works of Canetti and Koestler and the mute- ness of Becker and Kosinski’s children are but further projections of the internalized image of the writer’s own discourse. What remains is a world, admittedly within the functions of the writer, in which the di- scourse of the Jew, damaged as it may be, is localized and distanced458.

Ma a Stryjkowski non è sufficiente porre una barriera emozionale e linguistica fra sé e il “mondo di ieri”. Nei racconti americani (Na wierz-

bach…) lo scrittore con sarcasmo rinfaccia agli ebrei americani di essere

proprio da quella tradizione verso la quale in altri testi Stryjkowski dimo- stra un disprezzo che rasenta la ferocia. Nessun tipo di autoidentificazione, nessuna patria è possibile per lo scrittore che procede di fuga in fuga. Come ha notato Małgorzata Sadowska:

Stryjkowski tenta di nascondere il suo essere ebreo ed omosessuale sotto le maschere del polacco, dell’artista, del sionista, del comunista, dello scrittore polacco, dello scrittore ebreo che scrive ora in polac- co. Questa identità si polarizza, somiglia a una sfilata di maschere, è un’identità in movimento459.

Sulla negazione dell’ebreo, ovvero dell’Altro-Simile a sé, lo scrittore costruisce la sua immagine mitizzata di outsider, di uomo che sfugge a ogni definizione, di scrittore ‘etico’. Il nodo irrisolto della sua identità si rispecchia in maschere e fughe di cui lo scrittore parla con conturbante franchezza o forse con ingenuità affettata. La prima fuga è dallo shtetl nel sionismo e dallo yiddish all’ebraico; dal sionismo nuovamente lo scrittore si dice “fuggito nel comunismo” da cui si allontana per una sorta di calcolo utilitaristico: “Il comunismo non poteva darmi un’iden- tità di scrittore. E perciò ho tentato di ritornare alle mie radici” – perché, prosegue, la letteratura “nasce sempre dal ricordo, dalle proprie radici. Lo scrittore deve avere un’infanzia”460. Il processo di identificazione con

una collettività (l’ebraismo, il sionismo oppure il comunismo), basato sul silenzio della propria identità non poteva condurre altro che a una teoria di fallimenti. La solitudine dello scrittore sembra essere infinita. Come il Bucharin descritto da Sartre, anche Stryjkowski conosce la vera solitudine:

quella del mostro, aborto della Natura e della Società, e vive fino all’estremo, fino all’impossibile, codesta solitudine latente, larvata, che è la nostra e che noi tentiamo di passare sotto silenzio. Non si è soli, se si ha ragione, perché la Verità deve rifulgere: e nemmeno se si ha torto, giacché basterà confessare gli errori perché questi si cancellino. Si è soli quando si ha torto e ragione contemporaneamente: quando ci si dà ragione come soggetti […] e ci si dà torto come oggetti, perché non si può rifiutare la condanna obiettiva decretata dall’intera Società461.