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La tematica dell’ebreo comunista riceve ovviamente nel nostro paese un’attenzione ben minore rispetto a quanto avviene in Polonia. Emilio Sereni (1907-1977) è probabilmente l’unico vero comunista ad apparire in un romanzo ebraico italiano322. La figura storica di questo importante

leader del Partito Comunista Italiano, eminente agronomo, ministro e senatore nell’Italia del dopoguerra, più volte incarcerato in quella fa- scista in cui sopravisse a ben sette condanne a morte, capo partigiano della Lombardia, studioso dalla memoria eccezionale (conosceva decine di lingue, fra cui l’accadico, il sumero, l’ittita), autore di saggi sui più disparati campi dello scibile (la sua bibliografia comprende oltre mille scritti) è rievocata dalla figlia Clara (nata nel 1946) nel libro Il gioco

dei regni, pubblicato nel 1993323. Una prima resa dei conti con la figura

paterna, rigido stalinista privo di rispetto e considerazione per la figlia e abituato ad esigere un rapporto di sottomissione e dipendenza, era stata tentata da Clara Sereni nel precedente e molto lodato Casalinghitudine del 1987, ma è solo in Il gioco dei regni che l’elemento ebraico diventa fondamentale nello svolgimento del plot narrativo e nella costruzione identitaria dei personaggi e della narratrice. Definito “a montage of bio- graphical memory, historical research and reconstructive narrative”324, il

testo di Sereni può essere letto come un racconto autobiografico, parte di un “macrotesto autobiografico”325 ovvero di un “campo di tensione auto-

biografica”326 in cui ogni opera, pur nella sua diversità o nel suo carattere

tore. Allo stesso tempo Il gioco dei regni può essere letto come una saga familiare o una biografia di gruppo che tenti di raggiungere e svelare verità altrui, spesso accuratamente e scientemente celate o rimosse. Al centro di questa catena di silenzi si trova la rimozione dell’elemento ebraico dalla vita del padre; solo dopo la sua morte Clara infatti scoprirà con stupore che Emilio “non è sempre stato comunista” (p. 418, corsivo nel testo). Le vicende dei vari membri della famiglia Sereni, organiz- zate cronologicamente, gli accenni alla cerchia parentale e di amicizie, che comprende alcuni dei protagonisti della storia italiana del Novecen- to (come Manlio Rossi Doria, Eugenio Colorni, i fratelli Nello e Carlo Rosselli) cercano di corrispondere al criterio della massima veridicità, sostanziato dall’inserzione di documenti storici e arricchite, dal punto di vista letterario, da quello che Michał Głowiński definisce il “lusso pecu- liare della narrazione”, ovvero il “completamento narrativo del mondo”, elementi secondari in apparenza futili che consentono l’effetto realisti- co nella descrizione degli eventi327. Allo stesso tempo ogni dettaglio di

questa ricostruzione documentario-romanzesca tende allo scopo di ogni autobiografia – scopo implicito ma parzialmente esplicitato nell’ultimo capitolo – di “costruzione [della propria] vita attraverso la costruzione di un testo”328, ovvero, nelle parole dell’autrice, a “rimettere a posto i

pezzettini dentro di me” (p. 421) restituendole un’identità e un senso di appartenenza articolate in opposizione ad entrambe le figure genitoriali. La madre, Xeniuška Silberberg, figlia di due terroristi russi, poi appas- sionata e devota compagna di Emilio e fondatrice del settimanale delle donne comuniste «Noi donne», è descritta con toni che spesso rasentano l’astio ed è il personaggio che riceve una descrizione meno empatica. Di Xeniuška, morta giovane e appena conosciuta dalla figlia, Clara si sfor- za di svelare “menzogne […] censure e omissioni” (p. 419), così come riportate dalla memoria familiare e dall’autobiografia militante I giorni

della nostra vita329, una sorta di vademecum per le donne comuniste di

tutto il mondo. Nei confronti del padre Clara, che a tutt’oggi si definisce comunista330, prova “rancore confuso, e un dolore che non sapevo collo-

care”, unito al desiderio di “dichiarami estranea, e innocente” (p. 408). Attraverso le vicende di entrambi la narratrice cerca però di salvare un retaggio familiare e identitario che vada, oltre o, meglio che neghi l’au- tocostruzione ideologica e (dunque) “falsa” operata dai due. Il retaggio

è quello ebraico, che non le è stato tramandato ma in cui Clara ritrova una sorta di salvezza, ovvero un collante che le consenta di attribuire un significato unitario alla scissione dei vari aspetti della sua personalità, alle identità multiple che la caratterizzano. La tradizione ebraica in que- sto libro è addirittura l’unico canale che consenta a Clara di articolare sentimenti umani e di compassione:

La pietà che avrebbe potuto essermi d’aiuto [di fronte allo sgomento causato dalla morte del padre, n.d.a.] non rientrava nei canoni dell’edu- cazione che mi aveva impartito. Per ritrovarla dentro di me, ho dovuto cercarla molto lontano. Nelle radici negate, troncate per volontà ma misteriosamente riaffioranti; in una sapienza antica, tranquilla di sé quanto occorre per discernere e salvare, fra i detriti della Storia, ciò che ancora può servire (p. 408).

In un articolo del 1989, Mino Chamla notava che, agli occhi di molti,

gli ebrei non soltanto si trovano a godere, sul limitare del moderno, di una nuova e promettente libertà, ma possono coniugare quest’ultima con una tradizione e una cultura ‘forti’ che li rendono avvantaggiati rispetto alla ‘lotta per l’identità’ che si scatena nelle società delle plu- rime soggettività politiche331.

Ove per ‘cultura forte’ non si intende alcuna affinità con il cosiddetto ‘pensiero forte’, antitetico alla continua interrogazione e messa in gioco caratteristica della riflessione ebraica, ma il radicamento in un retaggio significativo e plurisecolare, possiamo trovare qui una delle motivazioni alla base della scrittura de Il gioco dei regni e anche uno delle molteplici cause di una certa moda dell’ebraismo, iniziata in Italia negli anni Settan- ta332. Questa moda italiana per l’ebraismo e le cose ebraiche ha contribuito

al successo del libro di Sereni e sembra, nel momento in cui scriviamo, non ancora cancellata dalla sempre crescente diffusione, nella penisola, di sentimenti anti-israeliani (quando non apertamente antiebraici). È noto che in Polonia la riscoperta del passato ebraico e una certa sua popolarità diffusasi in alcuni, ristretti, circoli in particolare dopo il 1989 è salda- mente legata alla riscoperta e alla riappropriazione del passato polacco.

In Italia si può invece supporre che la medesima moda sia collegata, piut- tosto che a una riflessione sul passato nazionale, a una sorta di fuga da esso, al bisogno di sconfinamento, alla ricerca di elementi esotici e mi- stici, così come anche forse al bisogno di individuare un anello in grado di mettere in collegamento fra loro le varie identità culturali e nazionali europee. Questo atteggiamento però non è riscontrabile nel libro di Sere- ni, saldamente ancorato alla propria storia familiare e a quella nazionale. È anzi significativo il fatto che proprio per riconnettersi alla catena delle generazioni Clara sia obbligata a tentare un salto generazionale, cercan- do il proprio riflesso più nella vita dei nonni, percepiti come più vicini a un nucleo esperienziale autentico, che in quella dei genitori. Il modello identitario ‘fluido’ offerto dall’ebraismo sembra inoltre particolarmente adatto alla autoriflessione postmoderna di Clara, esposta a “a variety of conflicting political and cultural discourses” e incentrata su “the interplay of marginality, fragmentation, and blurred boundaries”333.

Il Gioco dei regni è diviso in sei capitoli, ognuno dei quali è a sua vol-

ta suddiviso in brevi sottosezioni associate a tecniche o generi narrativi diversi. Sereni passa dalla posizione di narratrice onnisciente tipica del romanzo ottocentesco al montaggio di “materiali originali dei protago- nisti reali di questa storia […] memorie, riflessioni, epistolari” (p. 8) e pubblicazioni a stampa. Con l’ultimo capitolo intitolato Dopo la storia:

perché, il volume si chiude con una prosa direttamente autobiografica

piena di dettagli concreti, come il numero e la fermata dell’autobus (il “44”, nel quartiere romano di Monteverde) dove l’autrice si era imbattuta nella studiosa Paola Di Cori. L’incontro, apparentemente casuale, segnerà l’inizio della ricerca identitaria di Sereni, che proseguirà grazie alla fre- quentazione delle lezioni di Giacoma Limentani, a un viaggio in Israele, a letture e ricerche d’archivio, all’incontro con vari protagonisti di primo piano nella storia italiana come Vittorio Foa o Giorgio Amendola e così via. La narrazione procede per salti e interruzioni, non cronologiche ma spaziali, passando dalla descrizione della famiglia Sereni, un’agiata e col- ta famiglia ebraica (il padre, Samuele, è medico della Real Casa e anche dottore dei poveri fra gli operai e i contadini romani e dell’Agro Ponti- no; il nonno materno, Pellegrino Pontecorvo, “patriarca bizzarro” e dotto di ebraismo, è un noto industriale illuminato) alla spesso desolata vita

della russa Xenia Pamphilovna Silberberg, giovane vedova del terrorista ebreo russo Lev e terrorista ella stessa, quindi profuga in Italia e madre di Xeniuška-Marina. La sottolineatura data all’inizio del romanzo alla di- stanza apparentemente abissale delle esperienze delle due famiglie, unite solo dalla fragile trama dell’appartenenza ebraica334, contribuisce a dare

maggior risalto e pregnanza al loro futuro incontro, a una fusione sancita dall’ideologia e da quello che si manifesta come un destino comune di esclusione, militanza, impegno morale (unite anche, nel percorso di alcu- ni, a rigidità, massimalismo e desiderio di autoimmolazione).

Protagonisti centrali della narrazione sono i fratelli Sereni Enrico, Enzo ed Emilio (Mimmo). Tre fratelli guidati dal “bisogno di farsi a ogni costo diversi, perché costruiti troppo uguali” (p. 421), i Sereni sono una sorta di idra a tre teste che incarna nei suoi diversi e diversamente tragici destini le opzioni offerte al mondo ebraico nella prima metà del Novecento: assi- milazione, sionismo, comunismo. Enrico, il maggiore, patriota appassiona- to, volontario pluridecorato nella Prima Guerra Mondiale, quindi direttore dell’Istituto di Ittiologia di Napoli, è quello che più degli altri tenta la strada dell’assimilazione. Chiuso e malinconico, malato di depressione forse in seguito alle esperienze di guerra, la sua morte accidentale ha tutte le carat- teristiche di un suicidio. Soffocato da una fuga di gas nella minuscola stanza da bagno del suo appartamento napoletano, è difficile liberarsi dall’impres- sione che il suo destino sia una malinconica o forse grottesca prefigurazione di quello che attendeva gran parte dell’ebraismo europeo, fra cui molti di coloro che proprio sull’assimilazione avevano contato. Enzo (1905-1944; Haim dopo l’immigrazione in Palestina avvenuta nel 1927), esponente di punta del sionismo italiano, fra i fondatori di Givat Brenner, il più impor- tante kibbutz israeliano, autore di svariati libri335, fu anche fra i maggiori

sostenitori della convivenza ebraico-araba. Nel 1944 Enzo, nonostante l’età relativamente avanzata, fu uno dei 33 emissari paracadutati in Europa dalla Palestina mandataria. Arrestato dai nazisti, venne ucciso a Dachau il 18 novembre di quello stesso anno. Non termina con una morte prematura ma con la rinuncia ai sentimenti, ai legami familiari, alla capacità critica la vicenda di Emilio Sereni e quindi di sua moglie Marina (di una quarta so- rella, Lea, nominata fuggevolmente nel romanzo, sappiamo solo che si era trasferita in Palestina forse poco dopo Enzo). A queste figure predominanti maschili si intrecciano nel romanzo due coppie femminili: quelle di Xenia e

Xeniuška-Marina, già nominate, e di Alfonsa ed Ermelinda, rispettivamen- te madre e zia dei Sereni. Costruite in bizzarra antitesi e complementarità (una goffa e maschile, l’altra vezzosa ed elegante; una austera moralista, l’altra più frivola amante dell’arte ecc.), madre e zia incarnano due modelli educativi diversi ma entrambi tesi “to create a new class of intellectuals who will become devote leftist activists”; sia madre che zia partecipano entrambe “in the construction of the sons’ destinies”, e quindi “by extension, indirectly participates in affecting history”336. In effetti lo sguardo attento

e irremovibile delle due donne sui tre discendenti maschi, la loro costante istigazione ad eccellere, non può non avere un peso nelle loro scelte future e sembra derivare direttamente dalla posizione privilegiata ma pur sempre ambigua dell’alta società ebraica nel periodo d’oro dell’assimilazione. Ben- ché ai Sereni, così come a molti altri ebrei italiani, il futuro potesse apparire come “una mano tesa” (p. 75), esisteva infatti pur sempre qualcosa che “li teneva legati a un passato di diversità, di sofferenza, di oppressione” (p. 27); anche in questa famiglia così orgogliosa c’era chi covava come un sogno irrealizzabile il desiderio di diventare “definitivamente uguali, italiani e non più ebrei” (p. 114). Un ideale che sembrava raggiungibile solo a chi fosse sta- to in grado di primeggiare in ogni campo, e di rinunciare a una parte di sé. Il

gioco dei regni può anche essere letto come un apologo su come l’educazio-

ne familiare determini, benché in maniera sempre inaspettata e bizzarra, le scelte dei figli, anche quando essi più desiderano rifiutarla e allontanarsene. Ciò riguarda in questo libro sia la famiglia Sereni che quella composta da Xenia e sua figlia, e potrebbe toccare anche la narratrice stessa, nonostante i suoi sforzi per prendere le distanze dai genitori.

Anche in virtù del proprio nome e di un retaggio familiare così vasto e complesso Sereni è, fra le autrici italiane contemporanee, una delle più lette e una di quelle su cui più spesso si è soffermata l’attenzione della critica, in particolare femminista e post-femminista, ed è stata definita “la migliore esponente” della giovane generazione di scrittrici ebree nate dopo la Shoah337. All’attività di scrittrice (è autrice di otto romanzi e ha

partecipato a diversi volumi collettivi) e di pubblicista, Sereni unisce un forte impegno politico in prima persona (è stata vicesindaco di Perugia dal 1995 al 1997) e sociale (madre di un ragazzo con gravi problemi psi- chici, è fondatrice e presidentessa della Fondazione La città del sole, che costruisce progetti di vita per persone disabili). Questi vari aspetti della

sua vita trovano riflesso puntuale nella scrittura. Come notato dalla stu- diosa dell’Università di Melbourne Mirna Cicioni, il macrotesto autobio- grafico di Clara Sereni

constructs a persona who engages in a variety of political and personal projects in the context of developments in Italian society from the 1970s to the beginning of the new century. At the centre of some of these projects, and of some texts, is a process of defining, and redefining, possible meanings of Jewishness338.

Inizialmente fervente sionista come il fratello Enzo, Mimmo ha un’infatuazione per l’ebraismo tradizionale, che in lui diventa ben presto feroce ortodossia ed è solo un gradino verso un’altra scelta totalizzante e definitiva. Anche altre fonti documentarie ricordano la “mania religio- sa” del ragazzo, da tutti “il prediletto per la vivacità intellettuale e l’ine- sauribile energia”, e come essa mettesse in subbuglio l’intera famiglia, facendo infuriare come un’offesa personale i parenti positivisti “imbe- vuti di Spencer e Lombroso”339. Nel racconto della figlia l’ortodossia è

per il ragazzo anche una maniera per differenziarsi dal fratello Enzo e allo stesso tempo tentare una strada per primeggiare su di lui: “I mille viluppi in cui Mimmo si avvolgeva infastidivano Enzo e lo preoccupava- no: per gli ostacoli che opponevano all’attività comune […], per quell’os- sessione che intuiva in lui di sopravanzarlo a ogni costo, e per molte altre ragioni, più confuse” (p. 148). Ma neanche Enzo può prevedere che l’opzione comunista di Mimmo lo porterà a tagliare i ponti non solo con il movimento sionista (“«Enzo e Ada costruiscono sulla sabbia» dice Mimmo [a Xeniuška, n.d.a.] e ha un tono sprezzante, ultimativo, «io voglio qualcosa che duri»”, p. 208), ma anche con lo stesso Enzo e con il resto della famiglia, considerati dal Comintern, in quanto sionisti, nemici e “mascalzoni”. Le certezze di cui Mimmo va progressivamente riempiendosi sono forse anche un vuoto spirituale e di sentimenti:

Solo i libri possono coprire il grande vuoto che Mimmo si stava sca- vando dentro: fatto di eliminazioni progressive, di nodi troppo doloro- si per essere scissi e che dunque non si può che tagliare di netto. Con una lama fatta di parole.

Non più le parole della Bibbia, mutevoli e interpretabili perfino nell’ortografia […] ma parole ferme su pagine prive di dubbi, scritture definitive capaci di mantenersi uguali (p. 192).

Il significato dell’ebraismo legato alla figura di Mimmo su cui si inter- roga Sereni nelle pagine di questo romanzo è indubbiamente quello dello sconfinamento. La figura della tradizione ebraica di Elishà ben Avuyà, detto anche Acher, l’Altro, colui che varca i limiti, viene rievocata ben due volte in questo libro, come immagine paradigmatica dell’esperienza dell’ebreo comunista. Elishà, narra il Talmud, era un grande studioso; ma il suo orgo- glio lo condusse a dimenticare il dovere di ogni ebreo: trovare un compagno di studi, con cui mettersi in relazione e discutere. Rimase dunque solo, e si perse. Continuava a stimarlo il solo rabbi Meir, che ne era stato allievo. Un sabato, mentre Meir discuteva di Torah con i suoi studenti, gli dissero che Elishà andava a cavallo per il mercato, seminando lo scandalo. Ma quando Meir lo raggiunse di corsa per convincerlo a non turbare il sacro giorno del riposo, quello prese a discutere dei testi sacri in maniera così sapiente e profonda, che Meir dimenticò il mondo che lo circondava:

Elishà manteneva il cavallo al passo, Meir camminava accanto a lui […]. Ma giunsero ai confini della città, alle porte che di sabato non vanno valicate. Infervorato com’era nella discussione Meir le avrebbe oltrepassate senza accorgersene, se l’altro non l’avesse avvertito: “Sia- mo giunti al limite”, gli disse Elishà. “Io lo supererò, e anche tu potrai fare altrettanto: ma solo se lo deciderai in piena coscienza, non per caso o per distrazione”.

A quelle parole Meir si riscosse, e ligio alle regole si fermò: a labbra strette Elishà spronò il cavallo, e senza un cenno di saluto si allontanò al galoppo, in una nuvola di polvere (pp. 64-66).

La personalità tragica di Elishà ben Avuyà, maestro del Talmud vis- suto durante l’occupazione romana della Palestina, il suo abbandono della Legge in cerca di nuove strade, fu in età moderna di ispirazio- ne per diversi scrittori. Isaac Deutscher, nel celebre saggio L’ebreo non

ebreo propone la figura di Acher come “prototipo di quei grandi rivo-

Luxemburg, Trockij e Freud”; anche una traduzione ebraica del Doctor

Faustus ne porta il nome340. La sua è la vicenda di un uomo vissuto in

tempi tragici, che ha molto sofferto e che forse ha sbagliato, ma – e qui esiste un’analogia con i Sereni – non per imposizioni esterne, non perché vittima di discriminazione e di odio (o almeno non solo), ma per libera scelta e per desiderio di confrontarsi con il proprio destino; in questo punto possiamo individuare probabilmente la differenza fondamentale fra questi personaggi e quelli analoghi incontrati nella letteratura po- lacca. Come nella parabola di Acher, anche per i personaggi ebrei di Il

gioco dei regni l’ebraismo non è stigma o maledizione, ma, o abbrac-

ciato in pieno come da Enzo, o persino se rifiutato come da Mimmo, esso è comunque uno strumento che consente di agire nel mondo. È un valore positivo che rende più semplice la scelta nel momento in cui essa è indispensabile e appare definitiva: “fra potenti e umiliati, fra vittime e carnefici, fra oppressi ed oppressori” (p. 194).

Come è stato notato da Elisabetta Properzi Nelsen, decidendo di lascia- re il dramma delle leggi razziali e la catastrofe della Shoah sulla sfondo della narrazione, Clara Sereni ha delineato dei personaggi che

do not reflect a victimization of Jewish identity. Instead, theirs is an identity born from the strong sense of self that flourishes when nur- tured by members of a close-knit community. It springs from a pro- found sense of belonging both to one’s family and to collective experi- ences”341; la storia che viene narrata in queste pagine, benché tragica,

è “a tale of human strength rather than defeat342.

Un senso di vitalità unito al desiderio e alla capacità di modificare il mondo intorno a sé, facendo leva anche o in particolare sul retaggio ebrai- co, caratterizzano anche l’io narrante dell’ultima parte del romanzo e la figura pubblica di Clara Sereni.

Allo stesso tempo però questo ebraismo sembra, pur nella maggiore