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“Few kinds of hate are as potent as self hate”

Nato nel 1905 a Stryj, uno misero shtetl della Galizia orientale, in una famiglia tradizionale (il padre melamed, insegnante elementare della scuola ebraica: un mestiere di cui, spiega l’autore, “ci si vergognava”417; la

madre piccola rivenditrice), i primi anni della vita di Stryjkowski, allora ancora Pesach Stark, sembrano caratterizzati dal desiderio di fuga, dal senso di profondo disagio ed estraniamento verso i genitori e il proprio ambiente, dall’angoscia suscitata dalla propria inconfessabile e presto sco- perta diversità sessuale. Nella già citata intervista del 1987, Stryjkowski, parlando del romanzo Głosy w ciemności, così rievoca l’infanzia: “La miseria, le privazioni, la terribile costrizione, il fanatismo. Tutto ciò pur- troppo è vero. È questo l’ambiente in cui sono cresciuto. E, da bambino, lo odiavo”418.

L’unica possibilità di identificazione è la sorella maggiore Maria, la cui figura è spesso ricordata dallo scrittore. Maria, che morirà giovane in circostanze oscure a Vienna, è uscita dal cerchio magico della cittadina ebraica spezzandone quasi ogni barriera e tabù (meno il più importante, la conversione): ha abbandonato lo yiddish, il disprezzato dialetto dei ghetti,

insegna in una scuola polacca, ha una storia d’amore con un polacco spo- sato. Nel corso di numerose interviste e apparizioni pubbliche e anzitutto grazie a due testi del più giovane scrittore Piotr Szewc, Syn kaplana [Il figlio del sacerdote]419 e il già citato Salvo in Oriente, Stryjkowski è an-

dato definendo la sua biografia mitica di uomo simbolo del Novecento. In tale biografia, come ha notato Małgorzata Sadowska, lo scrittore ha identificato “il proprio estraniamento […] con la figura della donna estra- niata”420. Maria viene raffigurata non solo come tragica ribelle ma anche

come tramite fra il fratello minore e la lingua e la (idealizzata) cultura po- lacca. L’aneddoto che segue è esempio del modello frequentemente usato dall’autore nella sua autocreazione biografica. Dopo aver contrapposto la polonità alla bruttezza irredimibile della vita ebraica, Stryjkowski coniu- ga la liricità del prato slavo a un’allusione sessuale così esplicita da essere forse autoironica. Il brano è tratto dalla già citata intervista del 1987.

– Ricorda la sua prima parola in polacco? – chiede l’intervistatrice. – Sì. Era la parola: fiori. Mia sorella mi portava a passeggiare su di un prato e mi diceva: questo si chiama ranuncolo, questo trifoglio. E questo è un dente di leone. Sa, quel fiore considerato simbolo del vigore virile421.

La stilizzazione lirico-erotica della Polonia in contrapposizione con la soffocante Giudea della vita familiare si ripresenta poche pagine dopo. Alla domanda dell’intervistatrice su quanto, all’interno dello shtetl, le di- verse comunità etniche avessero conoscenza una dell’altra, Stryjkowski candidamente risponde che gli ebrei sapevano dell’esistenza dei polacchi perché “a volte coppie di polacchi innamorati smarrivano la strada e fini- vano sulla Piazza della Sinagoga. Speravano che lì nessuno li vedesse”422.

L’erotizzazione della polonità si unisce al silenzio sull’antisemitismo, tema che l’autore nomina solo casualmente o scientemente evita (ad esem- pio sostenendo, nella stessa intervista, che l’antisemitismo in Polonia fosse presente ma avesse “radici metafisiche”).

Sionista militante, poi comunista (e per comunismo trascorre anche diversi mesi in carcere, nel 1935-36), scampato alla guerra in Unione So- vietica dove lavora all’organo dei comunisti polacchi, «Wolna Polska», Stryjkowski da sempre si sente “uno scrittore che non scrive”. In realtà scrive, da sempre, ma senza successo423: all’inizio degli anni Trenta le sue

prime prose in ebraico non vengono accettate dalla rivista letteraria a cui le invia in Palestina (e con buona dose di autoironia lo scrittore ammette che questo è stato uno dei motivi del suo passaggio al polacco). Nel ’43, a Mosca, alla notizia dell’Insurrezione del ghetto di Varsavia e dello stermi- nio del suo popolo, Stryjkowski si sente “toccato dal dito di Dio” e, “come in trance” inizia a scrivere il suo primo romanzo, Voci nelle tenebre, da alcuni ritenuto il suo capolavoro, ambientato in uno shtetl galiziano nel periodo antecedente la Prima Guerra Mondiale. “La tragedia ebraica, la lingua polacca e l’ombrello sovietico: ecco le condizioni che fanno sponda all’opera di Stryjkowski”, scrive Borkowska, sottolineando che la distanza fosse l’unica posizione che gli consentisse di scrivere424. Una distanza au-

mentata dal senso di terrificante libertà che, viene da pensare, Stryjkowski deve aver avvertito man mano che le notizie sullo sterminio ebraico ac- quistavano corpo e misura. Comunque il romanzo, terminato di scrivere nel 1946, attenderà dieci anni prima di ottenere il visto della censura, e vedrà la luce solo con il disgelo. Nel frattempo lo scrittore era tornato in Polonia (nel ’46), aveva trascorso tre anni in Italia come inviato della PAP, l’agenzia di stampa polacca, aveva scritto e pubblicato nel 1951 il roman- zo social-realista Bieg do Fragalà [Corsa a Fragalà] che gli era costato l’espulsione dal nostro paese. Nella futura abbastanza prolifica produzione letteraria occupano un posto particolare i testi autobiografici che descri- vono il distacco e infine il totale ripudio del comunismo: Wielki strach [Il grande terrore, 1979] e Tak samo, ale inaczej [Lo stesso, ma in modo diverso, 1990]. A partire dagli anni Sessanta lo scrittore vive una profon- da trasformazione ideologica, al punto che nel periodo di Solidarność le sue apparizioni pubbliche avverranno quasi esclusivamente nelle chiese e nei Club degli Intellettuali Cattolici (KIK), e alcune sue opere verranno pubblicate dalla casa editrice dei domenicani. In quel periodo lo scrittore conia il fortunato slogan “un ebreo comunista smette di essere ebreo”425

e diventa uno dei punti di riferimento morale del paese. È un’altra delle molteplici maschere o incarnazioni di Stryjkowski che così ne racconta:

– Ero a Danzica alla fine dell’agosto 1980. Ho partecipato alle manife- stazioni sotto i cantieri. In mezzo alla folla mi sentivo uno di loro. Ho pianto quando hanno recitato il Padre Nostro e io, ebreo non credente, ho pregato insieme a loro.

– Era la prima volta che avvertiva questo senso di solidarietà? – No. Purtroppo. Mi succedeva lo stesso ai tempi di Stalin426.

Del 1994 sono lo scandaloso racconto Silenzio e dello stesso anno l’al- trettanto scandalosa intervista Sono uno scrittore e non un eroe con cui si chiude il cerchio delle lunghe peregrinazioni ideologiche e psicologiche dello scrittore.

– E allora [ossia al momento in cui ha restituito la tessera del Partito] riacquista la coscienza della sua identità ebraica, decide di non dover più nascondere di essere omosessuale e ha la sensazione di poter scri- vere quel che vuole?

– Sì. Così ho raggiunto la libertà. Sono finalmente un uomo libero. Alle soglie della morte427.

Tre studi amplificano e problematizzano la lettura delle opere di Stryj- kowski e a questi si farà particolare riferimento nelle pagine che seguono. Si tratta dei già citati To samo ale inaczej. Warianty biograficzne w prozie

Juliana Stryjkowskiego [Lo stesso ma in modo diverso. Varianti biografi-

che nella prosa di Julian Stryjkowski] di Grażyna Borkowska, pubblicato nel 2000, Rasa przeklęta. O prozie Juliana Stryjkowskiego, [Razza ma- ledetta. Sulla prosa di Julian Stryjkowski], di Małgorzata Sadowska, del 2001, e infine, di Eugenia Prokop-Janiec, Stryjkowski: sny i jawa [Stryj- kowski: sogni e veglia], del 1996. L’ultimo testo, opera di una delle più im- portanti studiose di letteratura ebraico-polacca, è un’approfondita analisi de Il sogno di Asril, mentre i primi due articoli riguardano la questione dell’identità sessuale dell’autore, tema finora evitato dalla critica o appena menzionato con frettoloso imbarazzo.

Il “sogno” di un uomo colpevole (Il sogno di Asril di