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Giacoma Limentani e la critica della violenza

Il cronotopo dell’incontro di agnizione con un ex persecutore ricorre an- che nel romanzo di Giacoma Limentani (nata nel 1927) La spirale della

tigre176. Ma mentre l’incontro di Geo e Scocca avviene sul palcoscenico di

Ferrara, e la città intera divide con il protagonista “le luci della ribalta”177

quello fra Mina, personaggio autobiografico di Limentani, e “l’uomo con le basette”, ha per spettatori solo il figlio adolescente di lui, beatamente ignaro delle colpe del padre. Così come la narrativa di Bassani è strettamente cor- relata alla borghese e aristocratica Ferrara e al suo “labirinto semantico”178

quella di Limentani è una scrittura autobiografica profondamente radica- ta nella realtà romana e nella cornice culturale e umana del suo vecchio ghetto, da cui spesso l’autrice prende in prestito soprannomi ed espressioni dialettali. L’esperienza di una violenza sessuale subita è la sfida con cui si

confronta la sua scrittura179. Prima ancora dello scoppio della guerra, in una

casa del quartiere romano di Prati, Limentani, allora bambina solo undi- cenne, venne violentata da 4 membri della vicina Casa del Fascio, in segno di avvertimento nei confronti del padre, attivo antifascista. Gli aggresso- ri guidati da “l’uomo con le basette” uscirono poi di casa minacciando la bambina insanguinata con un termine per lei incomprensibile e terrificante: tuo padre, le dissero, se non ci dici dov’è lo condanniamo “in contumacia”. La minaccia incombente sul padre diventa dunque la colpa della figlia. E

In contumacia180 appunto si intitola il primo romanzo autobiografico di Li-

mentani del 1967, con cui la scrittrice inizia un lungo lavoro di riparazio- ne del trauma subito. Nel testo si racconta come, in accordo con la nonna presente all’insulto, la bambina decidesse di non rivelare nulla alla madre, già sufficientemente provata dall’ansia per il marito. “Mio padre non deve sapere che mi hanno messo dentro un nastro di sangue. Potrebbe fare una pazzia. La mamma farebbe una tragedia. Lo direbbe a tutti” (p. 20); così sostiene il discorso interiore dell’Io narrante, che non arriva mai a mettere in discussione quella prima decisione. L’umiliazione subita dalla bambina sul proprio corpo si confonde con quella del padre, malmenato e oltraggiato nella Casa del Fascio. L’impossibilità di condivisione anche con le persone più care partecipa alla creazione di un senso di solitudine e isolamento che non sarà interrotto, ma anzi paradossalmente aumenta alla fine della guerra. Nel già citato articolo sull’uscita degli ebrei di Roma dalla clandestinità, la scrittrice testimonia:

Quella notte è come se si fosse rotto qualcosa dentro di me. Dopo anni di paure, guai, violenze che avevo sempre subito con un certo controllo, da quel momento non ce l’ho fatta più. Tutti, intorno a me, vivevano la fine di un incubo, per me, invece, è come se si fosse im- provvisamente materializzato, è avvenuto esattamente il processo in- verso. È stata una presa di coscienza immediata che mi ha procurato una solitudine spaventosa, non riuscivo a condividere la gioia della liberazione con gli altri, mentre tutti contavano i vivi io prendevo atto di colpo della morte di tante persone. Mi guardavo intorno e non mi fidavo più di nessuno, sapevo che i veri amici, quelli che veramente avevano rischiato la vita per noi contro delle leggi violente e assurde, erano pochissimi e non mi bastava che avessero vinto i buoni per ave- re una fiducia consapevole nel futuro181.

In In contumacia la liberazione di Roma è raffigurata da un Io narran- te già adolescente come il seguito tetramente carnevalesco alla violenza del fascismo. La grande orgia ubriaca dei soldati americani a Piazza del Popolo riconferma alla ragazza di essere ormai per sempre “contaminata” e virtualmente esclusa da qualsiasi consesso sociale (“È un soldato ameri- cano ubriaco a fermarmi in via della Croce […]. Ho terrore perché capisco di essere segnata: i violenti mi vedono e mi riconoscono. Mi scelgono, non per uccidermi del tutto: per continuare a uccidermi”, p. 77).

La liberazione si trasforma immediatamente in un “altro insulto” dove “tutto può diventare violenza” (p. 137).

Piazza del Popolo è chiazzata di vomito. L’orina in pozze si mescola al vino. Lungo le pareti del Babuino soldati americani aspettano non si sa che accovacciati in terra. Bevono a garganella da fiaschi panciuti. I liberatori. Sulle gradinate delle due chiese gemelle, sotto i portici. Camion e jeep fanno gimkane intorno alla fontana. Ragazze scappa- no e si lasciano prendere. Un soldato orina vomitando. Beve. Orina. Vomita. Beve.

[…]

Entriamo in via della Croce. Qui è tranquillo. Calma imbottigliata fra il Corso e Piazza di Spagna. Proseguiamo più svelte. Un america- no esce sbandando da una traversa. Mi viene addosso. Mi abbraccia. Mi bacia. Alito di vino. Lingua sudicia. Lame di pulviscolo calano sciabolate lucenti. La paura è un carcere. L’angoscia è un carcere. La nausea è un carcere. L’angoscia è un carcere. Il disprezzo è un carcere amaro. Non c’è scampo nella liberazione (pp. 136-137, 139).

Pur trovando elementi di identificazione nel destino collettivo ebraico e ne- gli “amici”, la ragazza ancora una volta non riesce comunicare la propria sof- ferenza e il senso di estraneità neanche alla madre che le cammina accanto:

Anche i miei amici hanno appena smesso di combattere. Hanno com- battuto in silenzio. Con la fame. Con l’angoscia di un’attesa che si è arenata in questo vomito. Si vede che deve essere così. Un’accumularsi di flussi di maree senza scampo. Un susseguirsi di violenze diverse. – Non fare quella faccia. Invece di essere contenta che è finita (pp. 136-139).

Come anche nel successivo e già nominato La spirale della tigre, a oggi l’ultimo romanzo pubblicato da Limentani, la narrazione di In con-

tumacia è divisa in due parti disuguali o livelli tematici. La scrittura so-

stanzialmente monofonica di Limentani viene illuminata non tanto dalle numerose lingue e gerghi dei personaggi, come nella struttura romanze- sca polifonica descritta da Bachtin, ma da immagini e racconti relativi alla sfera della tradizione ebraica, all’esegesi e alla ritualità, presentati come antagonisti rispetto al discorso allora dominante di elogio della vio- lenza. A differenza del personaggio di Wojdowski, Alka, e di qualsiasi altro personaggio polacco, nei testi di Limentani l’Io narrato e l’Io nar- rante (ovvero il momento di intersezione fra l’Io del testo autobiografico e la Limentani insegnante e saggista) trovano un appiglio e una zattera di salvataggio nella tradizione ebraica e nella conferma dell’esistenza di una collettività comunque presente e viva nonostante le menomazioni della guerra. Insegnante di midrash, tema a cui ha dedicato numerosi libri, da decenni animatrice di gruppi di discussione su argomenti biblici, instan- cabile divulgatrice e particolarmente attiva nel dialogo interreligioso (è fra l’altro presidente dell’Associazione per l’amicizia ebraico-cristiana di Roma) anche per Limentani scrittrice di romanzi la spiegazione e la tra- smissione di concetti e storie del mondo ebraico è un compito di primaria importanza. Nel discorso interiore della protagonista di In contumacia i sentimenti di calda umanità e la sublimazione del dolore sono quasi esclusivamente collegati a immagini relative alla tradizione ebraica, e in particolare a come essa le veniva trasmessa dal padre, figura idealizzata e spesso ritratta come assente o in situazioni di pericolo. In maniera non giustificata dal plot narrativo, verso la fine del romanzo compare come una netta cesura un racconto ispirato alla storia di Giuseppe Flavio e la conquista romana di Gerusalemme, impaginato in maniera diversa dal resto182. Nella prosa in prima persona ansimante e spezzata, come modu-

lata sul respiro della protagonista (“Taccio. Se parlo mi scopro. Se gri- do mi lacero. Io sono l’intoccabile. Ho paura. Sudo. Ho fame. Ho paura. Sudo. Ho fame. Ho paura. Sudo. Mi gonfio. Taccio”, p. 155), la vicenda della distruzione del Secondo Tempio costituisce un momento di pausa e riflessione espresso in una lingua piana e letteraria. Lo stesso personag- gio e momento storico ritorneranno anche sotto un’angolatura lievemente diversa nella Spirale della tigre. Giuseppe Flavio, Joseph ben Mattathia,

il giovane dotto ebreo e straordinario letterato autore de La guerra giu-

daica, cantore della casa dei Flavi e divulgatore della cultura e della storia

ebraica nel mondo romano, è un personaggio su cui il giudizio ebraico non è univoco: secondo alcuni ancor oggi, e secondo la maggior parte dei suoi contemporanei, semplice traditore venduto ai romani, viene però ritenuto da altri un profondo conoscitore della sua epoca, che vedeva l’unica possi- bilità per l’ebraismo nella sottomissione a Roma, e considerava la propria vita strumentale alla sopravvivenza culturale del popolo. La vicenda sto- rica di Giuseppe si intreccia a quella di Yochanan ben Zakkai, il Maestro che, uscito con uno stratagemma dalla Gerusalemme assediata, richiese a Vespasiano non concessioni per la capitale e il suo Tempio, ma la salvezza di “Yavne e dei suoi saggi, e la dinastia di Rabban Gamliel, e i dottori per curare rabbi Zadok [che aveva digiunato per salvare Gerusalemme]”183. La

sua scelta di una sopravvivenza patteggiata è ritenuta fondamentale nella continuità del popolo ebraico, di cui Yochanan ben Zakkai viene conside- rato uno dei più luminosi esempi. L’episodio, ovviamente centrale per la storia di Israele dal punto di vista culturale, lo è anche nella formazione e nel contrasto di opposti paradigmi culturali. A Roma aggressiva a trion- fante si contrappongono, ma solo formalmente, i difensori eroici di Geru- salemme, che preferiscono soccombere, donne e bambini insieme, pur di non arrendersi all’assalitore. Solo formalmente, perché essi sembrano aver assunto in pieno i codici di comportamento morale dell’assalitore. Questo almeno è il modo in cui ce li tramanda Giuseppe Flavio, che descrive i suoi ebrei filtrati dal canone romano, di quella Roma che disprezzava gli ebrei nella loro testardaggine, ma anzitutto nella loro “effeminatezza”, nel prediligere lo studio al combattimento e il compromesso alla ribellione, nel loro proporre insomma una ‘politica diasporica’ tesa alla sopravviven- za e al mantenimento dei valori specifici del gruppo. Una posizione dun- que non assimilabile dalla cultura romana la cui non questionabile virilità normativa considerava valori assoluti la forza e il dominio. Yochanan e Giuseppe sono uniti anche da un vaticinio politico. Il Talmud riferisce infatti al maestro Yochanan “dal cuore grande come il deserto e dolce come il miele” (p. 118) la nota profezia rivolta a Vespasiano non ancora imperatore che Giuseppe Flavio attribuisce a se stesso ne La Guerra Giu-

daica; quel “sarai re” che varrà a uno la grazia per l’accademia di Yavne,

della vita. Anche Giuseppe, seppure in maniera meno pura di Yochanan, propone una strada di sopravvivenza fisica e culturale che poco ha a che fare con i canoni della virilità e della ‘bella morte’ imperanti a Roma e fra i suoi emuli. Limentani non esamina le implicazioni politiche e culturali delle scelte dei protagonisti di questo momento tanto cruciale, e in appa- renza non sceglie fra i difensori a oltranza di Gerusalemme e gli studiosi che cercano compromessi con i vincitori, lasciando (pedagogicamente?) la scelta al lettore. Resta anche da indovinare l’analogia, inevitabile in un libro che parla della Shoah, fra i combattenti in difesa del Secondo Tempio e gli insorti del ghetto di Varsavia. Oppure fra Yochanan ben Zakkai e il rabbino polacco Isaak Nissenbaum, che nel ghetto di Varsavia insegnava agli ebrei che di fronte a Hitler il più grande merito non poteva più consistere nel kiddush ha-shem, ovvero nel martirio per la difesa della fede, ma nel kiddush ha-haim, nella santificazione e nella conservazione della vita. Forse immedesimandosi almeno un poco in Giuseppe, massi- mo divulgatore dell’ebraismo nel mondo classico184, Limentani con queste

figure attualizza però i modelli della tradizione ebraica non solo nella di- mensione politica ma anche in quella di genere. Una tradizione all’interno della quale è possibile rintracciare una corrente che, come sintetizzato da Daniel Boyarin “non privilegia la ‘mascolinità’ sulla ‘femminilità’, l’‘alto’ rispetto al ‘basso’, e non stigmatizza il ‘femminile’ in nulla che rassomigli ai modi della cultura egemonica in Europa”185. La definizione dei parame-

tri di una virilità alternativa alla sopraffazione del discorso dominante, una virilità che comprenda anche elementi del femminile, è infatti l’unica strada per riprendere a vivere dopo la Shoah, superando l’orrore di una violenza incessante, cui anche la liberazione non aveva posto rimedio.

Una funzione analoga è svolta dalla descrizione del rabbino Panzieri, una figura maschile fisicamente fragile e caratterizzata da azioni ‘mater- ne’ come il nutrimento, l’accudimento, il sostegno.

Intanto a Roma, Rabbi Panzieri, vecchio quasi cieco, coi tefillìn legati al braccio e il taléth nascosto sotto la giacca, mette in salvo i Sefarìm dal tempio occupato e sconsacrato. Va di casa in casa, di convento in convento. Trova rifugio a chi non ne ha. Cerca gli ebrei nascosti e li tiene in contatto fra loro. Procura notizie a chi è senza notizie. Porta medicine ai malati, pane a chi ha fame. Pane azzimo a chi celebra la

Pasqua in segreto. Benedice chi nasce e muore nascosto. Entra nelle carceri, porta fede e rassegnazione a chi non può sperare. Ne esce illeso. Riconsacra il Tempio con la sua presenza (p. 106).

Al termine dell’occupazione, durante la cerimonia di riapertura del Tem- pio di Roma, potrebbe addirittura ricordare la raffigurazione di una Madon- na cristiana il rabbino che raccoglie tutta la sua comunità sotto al suo manto da preghiera: “Rabbi Panzieri […] recita la Berachah. La sua voce sfibrata dagli anni non si sente. Siamo tutti avvolti nel suo taléth” (p. 151)186.

La fine dell’occupazione non porta a Limentani solo l’amaro conteggio degli assenti e la constatazione di ferite psichiche irreparabili, ma anche una possibilità di ritorno nella famiglia ebraica. Questo momento le regala an- che la sorpresa dell’incontro con ebrei di tradizioni diverse. Per la narratrice de La spirale della tigre187, già affascinata dal chassidismo grazie alla let-

tura di Buber, il primo Kippur del dopoguerra coincide anche con il primo contatto diretto con quel mondo vagheggiato, che nella pratica si rivela più complesso e incomprensibile, ma anche più umano ed emozionante di quan- to le letture le avessero suggerito. Per la cena di fine Kippur il padre riunisce venti persone, “venti anime erranti” raccolte su una camionetta nel percorso da Firenze a Roma. Il gruppo che comprende ebrei scampati, vedove ariane e disertori tedeschi offre il pretesto per la descrizione di un’umanità varie- gata e sofferente che faticosamente ritorna alla vita.

Ricordo tutti i loro visi, di cui nessun ladro di fotografie potrà mai de- fraudarmi. Ecco Mira, la fiumana cui hanno trucidato marito e geni- tori […]. Ecco i fratelli Rujishka, due giganti dal riso sonoro, temprati insieme dalla resistenza sulle montagne croate […]. Marika non ricor- dava né il luogo né la data della sua nascita e veniva da Buchenwald, dove aveva disimparato a parlare. Si prendeva cura di lei Margie, una scozzese che era stata sposata a un ebreo italiano […]. Kurt era un di- sertore tedesco che Nick e Sandy, due corrispondenti di guerra ameri- cani, avevano adottato per compensarlo della diserzione […]. Pauline era stata una kapò, il che la rendeva più disperata di tutti. Però, come ultimo atto da kapò e a rischio di una vita che non voleva ormai più, era riuscita a salvare i sette jazzisti polacchi a cui si accompagnava. A loro volta i jazzisti […] senza sapere neppure loro come, erano riusciti a far sopravvivere l’ultimo ospite della nostra cena di fine Qippùr. Reb

Maltke fu accolto con speciale calore da mio padre che presentandomi me lo affidò, quasi dovessi intendere la sua presenza come uno specia- le omaggio nei miei confronti (pp. 83-85).

Il chassid polacco Maltke si dimostra però freddo e estraneo, indiffe- rente alla fascinazione esercitata sulla ragazzina; “ridotto a pura intransi- genza” non ha alcun desiderio di partecipare alla festa costata tanta fatica e sacrifici alla famiglia di Mina: “Non parlò, non benedì il pane e non benedì il vino, il suo pallore era un rimprovero rivolto al mondo intero e a noi che in quel mondo ci sforzavamo di ricominciare a esistere” (p. 86).

Ma alla fine del pasto, ispirato dalla musica del pianoforte della madre di Mina e dei jazzisti polacchi, Maltke

andò a mettersi in mezzo alla stanza. Batté i piedi, intonò un canto che era insieme di lamento e di gioia, e non si mise proprio a ballare – non credo che ne avrebbe avuto la forza – ma in quella che mi sembrò una danza mistica, sempre battendo i piedi al ritmo del canto, levò le braccia al cielo con un roteare di mani e un oscillare del capo che si propagò all’intero corpo.

I nostri jazzisti piangevano. Piangeva mio padre. Pianse mia madre. Pianse Allegra fra le braccia del piccolo Rujishka, e piansi anche io. Alla luce di tante altre esperienze vissute, e tali da ridimensionare la mia adolescenziale passione per il chassidismo, non credo che avrei dedicato tanto tempo al suo studio senza l’insegnamento di quel ballo, che dispiacque soltanto alla zia Egle (p. 87).

Il riferimento alla zia, vero anticlimax narrativo, non è casuale. Nono- stante la sua critica agli stereotipi di genere o forse coerentemente ad essa, la scrittrice non riserva infatti alcun trattamento di favore ai personaggi femminili. In particolare ne La spirale della tigre la descrizione delle fi- gure meschine della zia e di sua figlia raggiunge dei toni quasi grotteschi. La narrazione dei loro comportamenti si accompagna al timore ansioso di una loro generalizzazione da parte degli ‘altri’ che potrebbero imputarne difetti e inaffidabilità a tutto il popolo d’Israele. È proprio la rabbia susci- tata dalle congiunte che, paradossalmente, fa nascere nella protagonista il desiderio di confrontarsi con il suo violentatore, l’“uomo col viso segnato dalle sciabolate di due basette” (p. 147) da lei riconosciuto mentre si di-

rigeva “verso la parrocchia a un passo da casa nostra” (p. 148). Ma il suo desiderio di giustizia si scontra con la vergogna profondamente interioriz- zata che così spesso caratterizza le vittime di abusi sessuali, ovvero chi, nelle parole della scrittrice, “è stato insultato nel corpo”. La breve caccia che la ragazza mette in atto, limitandosi a mostrarsi all’uomo sotto casa, o in chiesa, o in un bar, suscita in lei immediati paragoni fra il “dramma fa- miliare” del fascista e quello affrontato da lei, “quando la mia famiglia si era trovata dalla parte degli spiati e dei perseguitati”, e le instilla addirittu- ra la certezza “del ruolo che mi spettava: dovevo annoverarmi fra i perse- cutori” (p. 150). Il pedinamento dell’ex fascista dalle basette ormai rasate la porta a spiare una vita quotidiana delle più meschine, tutta svolta in spaventosa vicinanza a quella di Mina, alla sua casa, alla sua scuola; una vita divisa fra la domenicale frequentazione della parrocchia e gli incontri settimanali, anche quelli “in un palazzo adiacente a quello dove abitavo” (p. 151), con l’amante, una “non più fresca signorina” (p. 150) in cui Mina riconosce un’insegnante del liceo Mamiani da lei già frequentato.

La denuncia che erompe infine dalle labbra della ragazza quasi contro la sua volontà prevedibilmente non le porta alcuna catarsi: “Il viso dell’uo- mo che mi guarda con terrore implorante, è per me più tremendo del viso dello stesso uomo mentre mi stupra” (p. 155).

Subito dopo la guerra in Italia, e forse in particolare a Roma, sede del- la comunità che, con circa 15.000 iscritti resta a tutt’oggi la più grande e la più coesa della penisola, fra gli ebrei ci fu un desiderio diffuso di resa dei conti; molti andarono direttamente a cercare i loro delatori, scon- trandosi però con una risposta delle autorità e della politica di governo generalmente fiacca o indifferente. Così come esemplificato dal proces- so a Celeste Di Porto, la ‘Spia di Piazza Giudìa’188, o la catarsi avveniva

immediatamente (con condanne dimostrative, a volte anche a morte, che generalmente non venivano eseguite) oppure non succedeva nulla. Una