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Già si è accennato nel capitolo precedente ad alcune peculiarità dell’esperienza ebraica in Italia: una comunità piccola, non diversificata dal resto della popolazione da caratteristiche fisiche o da un dialetto o una lingua comuni, eccezionalmente integrata con la società circostante, il cui destino ricalca per diversi aspetti quello del paese nel suo comples- so: frammentazione politica e culturale, particolarismo a volte esasperato e, in epoca moderna, un certo provincialismo e distacco dalle correnti principali del pensiero ebraico. È l’italianità degli ebrei italiani la carat- teristica generale che viene più spesso sottolineata. In una celebre recen- sione alla Storia degli ebrei in Venezia di Cecil Roth, il grande linguista e storico Arnaldo Momigliano scriveva, negli anni Trenta del secolo appena trascorso:

La storia degli Ebrei di Venezia, come la storia degli Ebrei di qual- siasi città italiana in genere, è essenzialmente appunto la storia della formazione della loro coscienza nazionale italiana. Né, si badi, que- sta formazione è posteriore alla formazione della coscienza nazionale italiana in genere, in modo che gli Ebrei si sarebbero venuti a inserire in una coscienza nazionale già precostituita. La formazione della co-

scienza nazionale italiana negli Ebrei è parallela alla formazione della coscienza nazionale nei Piemontesi o nei Napoletani o nei Siciliani: è un momento dello stesso processo e vale a caratterizzarlo […]. Il che ovviamente non ha impedito che essi nella loro fondamentale italia- nità conservassero in misura maggiore o minore peculiarità ebraiche, come ai Piemontesi o ai Napoletani il diventare Italiani non ha impe- dito di conservare caratteristiche regionali. Quando furono abbattuti i cancelli dei ghetti questo processo era nelle sue linee essenziali già compiuto316.

A questa analisi rispondeva dal carcere Antonio Gramsci, l’unico ad aver tentato una spiegazione politica complessiva della (relativa) mancanza di antisemitismo in Italia; concordando con l’analisi di Momigliano, Gram- sci sottolineava la conseguente disponibilità degli ebrei nell’Italia liberale a “disebraizzarsi”, identificandosi completamente con il destino nazionale.

Benché anche in Italia, almeno a partire dal caso Dreyfus e fino all’affermarsi del fascismo, vigesse lo stereotipo di una particolare affinità fra ebraismo e forze politiche di sinistra (spesso dovuta ri- sposta all’aperta ostilità dimostrata dagli schieramenti reazionari), e molti ebrei o discendenti di famiglie ebraiche militassero in questo campo, non è immaginabile nulla di paragonabile né alle potenti for- me di autorappresentazione politica ebraica né alla forza devastante e all’onnipresenza del mito del ‘giudocomunismo’ così come incontrate in Polonia. Persino dopo le Leggi razziali non esiste neanche, in Italia, la sensazione tanto diffusa fra gli ebrei polacchi di trovarsi con le spal- le al muro, costretti a scelte radicali e prive di ritorno perché estranei e avulsi dall’essenza nazionale. Per la maggior parte degli ebrei anti- fascisti, anche i numerosi che “dichiaravano ad alta voce” il proprio ebraismo, “la lotta contro la discriminazione razziale o religiosa si identificava con la lotta per il ripristino delle libertà e della democra- zia”: “L’assimilazione – ricorda nella sue memorie Vittorio Foa, uno dei padri della Costituzione italiana – era per noi un valore assoluto, il nostro modo di essere italiani”317.

In epoca recente l’idea che l’identità ebraica italiana fosse concepibile solo all’interno dei modelli culturali nazionali, una sorta di loro sotto- prodotto, è stata problematizzata da diversi storici318, fra cui Momigliano

stesso. In Gli Ebrei d’Italia, saggio scritto nel 1984 per un convegno alla Brandeis University in onore di Vito Volterra, lo storico indicava nella so- litudine il carattere principale degli scrittori ebrei italiani, una solitudine che avrebbe fatto sì che “gli Ebrei ebbero nella vita italiana parte molto minore di quanto essi non abbiano ritenuto”319 e terminava lamentando sia

l’estraneità degli ebrei alla loro cultura che il loro imprevisto e doloroso isolamento nella società italiana:

la cultura ebraica raramente viene trasmessa nel modo in cui noi Ebrei intendiamo che venga trasmessa. Se gli stessi Ebrei sanno così poco del loro giudaismo, non possono certo lamentarsi che gli altri lo capiscano ancor meno. Persino Benedetto Croce, che ci fu così vi- cino durante gli anni della persecuzione, poteva solo raccomandare che gli Ebrei cercassero di eliminare le loro peculiarità. Sarebbe fol- lia concludere su una nota di ottimismo quando accade che un bam- bino ebreo possa essere assassinato nella sinagoga di Roma, come avvenne nel 1982, senza che si manifesti un sollevamento dell’opi- nione pubblica320.

Negli oltre vent’anni trascorsi dal discorso di Momigliano il senso di isolamento degli ebrei italiani è certamente andato aumentando insieme alla sempre più difficile situazione dello Stato d’Israele sulla scena inter- nazionale e al concomitante venire alla luce, in maniera difficilmente con- futabile, del cosiddetto “antisemitismo di sinistra”. Sono però anche cre- sciute l’autocoscienza ebraica e il desiderio di affermarsi in quanto ebrei nell’agorà pubblica. Le autobiografie del piemontese Vittorio Dan Segre, del triestino Giorgio Voghera e l’autobiografia-romanzo familiare della romana Clara Sereni sono esempi diversi del modo in cui gli ebrei italiani hanno voluto dare testimonianza delle proprie scelte politiche e del loro modo di proporsi nel mondo in quanto soggetti attivi. Storia di un ebreo

fortunato, definito da Primo Levi “intenso e illuminante”, documenta, in

una costante tensione etica, il passaggio da un’italianità inquestionabile e assoluta all’impegno sionista; Quaderno d’Israele è “il pamphlet etico politico”321 di un solitario, incapace di identificazioni complete e signifi-

cativo non solo per la testimonianza di anni terribili, ma anche per la sua visione marginale e periferica, ostinatamente priva di ogni retorica e at-

tenta alla trasmissione veridica dell’esperienza vissuta. Il gioco dei regni, primo dei testi qui trattati per ambientazione e tematica, è al contempo l’ultimo, non solo per la data di pubblicazione ma anche perché, partendo dalla ribellione contro l’ingiustizia operata dalla generazione dei genitori, l’autrice ci traghetta in quella che possiamo definire una “nuova” identità ebraica in letteratura: un’identità caratterizzata da un intenso desiderio di appartenenza, ma che al contempo sempre più spesso si dichiara aper- tamente composita, e trova un rinnovato senso di sé nella sottolineatura postmoderna della propria insanabile frammentarietà.