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Il motivo dell’appartenenza, alla base di tutte queste narrative, è espli- cito e quasi ossessivo in A Dream of Belonging267, libro autobiografico di

Janina Bauman (nata nel 1926), moglie del sociologo Zygmunt, pubblicato in Inghilterra, in inglese, nel 1988. È singolare il fatto che questo tema

scompaia in buona parte dall’edizione polacca del volume, tradotta e cu- rata dalla stessa autrice e sensibilmente abbreviata rispetto alla versione inglese. Come anche altri passaggi, l’edizione polacca è priva di molte delle numerose frasi e situazioni costruite intorno al termine di apparte-

nenza. La questione vi resta comunque centrale ed è sottolineata nella pre-

sentazione del volume: “Oggi, dopo dieci anni, mi accingo nuovamente a scrivere la storia della mia corsa alla ricerca di una collettività a cui mi sentivo unita in modo indissolubile. In polacco”268. Il problema dell’appar-

tenenza sembra qui venir risolto implicitamente dalla scelta stessa della lingua materna, da una conferma di appartenenza alla lingua. O forse la risposta è contenuta nel titolo stesso: Nigdzie na ziemi [In nessun luogo della terra; è questo il titolo del libro in polacco], che suona come una riposta al “sogno” della versione inglese.

Dopo l’esperienza del ghetto, raccontata nel romanzo Inverno nel mat-

tino269, il primo colpo a un fragile senso di radicamento arrivò per Janina

insieme alla fine della guerra:

Che non ci volessero me ne resi conto subito dopo essere tornata dal vagabondaggio a Varsavia, nella mia città natale. In un camion af- follato che trasportava la gente oltre la Vistola su un ponte di barche, sentii dire: “Guarda un po’, quei cialtroni dei tedeschi non li hanno gasati tutti”. Allora non riuscivo a capire perché ciò accadesse. Vivevo dunque in uno stato confusionale270.

Non stupisce che l’unica strada possibile per liberarsi da questa “con- fusione” sia quella della partecipazione. Una scelta dettata forse non solo dal senso di minaccia fisica incombente; potremmo vedervi il peso della peculiare situazione sociale ed emotiva dell’intellettuale ebreo, e forse an- che l’influsso di modelli culturali ebraici, in cui la collettività e la condi- visione hanno un ruolo centrale. Ne aveva scritto Jan Błoński nel saggio

Autoportret żydowski [Autoritratto ebraico]:

[Quello di alcuni scrittori e intellettuali] è un modo di essere co- munisti che a volte appariva come paura della solitudine, come il desiderio di trovarsi uniti, di sentirsi solidali […]. Rudnicki par- la in modo molto chiaro dell’“eterno sogno dei solitari”: “essere

con qualcuno, essere insieme, essere inseriti nella vita, non farsi cacciar via, trovare il proprio collettivo, essere nel centro, essere impegnati”271.

Più che la storia di un’iniziazione politica, il libro di Bauman è un percorso di fuga dal senso di emarginazione e isolamento che conti- nuava a perseguitare la ragazza in maniera forse ancora più violenta a guerra finita: “nei primi anni dopo la guerra volevo lasciare la Polo- nia, andarmene da un paese dove ero vista come una sgradita presenza straniera. Mi sentivo sola a scuola, sola tra i vicini di casa, isolata ed emarginata proprio nel luogo a cui credevo di appartenere”272. Dopo una

breve esperienza sionista conoscerà Konrad/Zygmunt, giovane ufficiale e membro del Partito, salvatosi con la famiglia in URSS. Si sarebbero sposati dopo poco; la narratrice, che lavora con successo nella neonata industria del cinema della Polonia Popolare, si lascia in breve sedurre dal nuovo regime: “Feci rapidamente amicizia con le mie nuove colle- ghe e sentii che finalmente avevo trovato il mondo a cui appartenevo”273.

Nel 1961, membro della delegazione polacca al festival del cinema di Locarno, fra i “capitalisti” svizzeri, ricchi, vecchi e annoiati, si sente giovane, forte, piena di vita e di dedizione: “Lottando contro l’impene- trabile guscio dell’astice mi sentivo profondamente legata ai miei com- pagni contro le ricchezze del mondo occidentale. Ero al settimo cielo. APPARTENEVO!”274.

Il senso di condivisione è così centrale nella sua percezione della felici- tà che la scrittrice lo sottolinea anche a ritroso, guardando con amarezza al passato: “nei primi anni Settanta non ci sarebbe mai venuto in mente che presto avremmo dovuto separarci da tutto ciò che era nostro: la casa, il paese, la lingua, gli amici. Vivevamo felici, sentivamo di appartenere”275.

Il sogno di non venire ancora una volta esclusa dalla collettività vale an- che la rinuncia alla propria libertà di scelta:

Così ora ero una comunista nel vero senso della parola. Non comuni- sta per istinto morale, per fede o circostanze, ma un membro tesserato del Partito. Il mio senso morale e le mie convinzioni personali diven- nero all’improvviso irrilevanti. Accettai di sottoscrivere le decisioni del partito in maniera di giusto e sbagliato e di demandare al Partito

la scelta degli articoli di fede da propagare e di quelli a cui non bada- re […]. Il Partito non chiese mai di essere giudicato sulla base della moralità delle sue azioni. Il suo regno non era di questo mondo. Esso puntava al futuro. E il futuro era un paradiso, senza odi o pregiudizi, razze o nazioni. Non era forse questo il mondo che avevo sognato fin dagli anni trascorsi chiusa dietro le mura del ghetto? Non era forse questo il mondo in cui, una volta per tutte, il mio sogno di appartenen- za si sarebbe realizzato?276.

Janina lasciò la Polonia con il marito e le due bambine nel ’68, dopo che la campagna antisemita si era appuntata in particolare contro Zygmunt, allora docente all’Università di Varsavia, additato fra i sobillatori della rivolta. “Ora non appartengo più a nessun luogo”277: è una delle ultime

frasi dell’edizione inglese del libro.