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Italia Giorgio Bassani e l’enigma del reduce

Così dunque Geo Josz […] ricomparve fra noi. Veniva da molto lontano, da assai più lontano di quanto non venisse realmente. Tornato quando nessuno più l’aspettava, cosa voleva, adesso?121.

Giorgio Bassani (1916-2000) è, insieme a Primo Levi e forse ancor più di lui, l’unico scrittore italiano ormai stabilmente entrato nel canone nazio- nale, letterario e scolastico, ad aver fatto dell’esperienza ebraica il nucleo fondamentale della propria opera. È dunque bizzarro notare quanto pochi

dei numerosi studi di autori italiani dedicatigli approfondiscano l’aspetto ebraico della sua narrativa, prediligendo generalmente la tormentata re- lazione con la città di Ferrara, costruita come “luogo mentale” e “spazio letterario” più che geografico122, le questioni linguistiche, il rapporto con

il canone e con l’insegnamento del suo maestro Benedetto Croce123. In

realtà, pur con una certa approssimazione, è possibile sostenere che in Italia lo studio della letteratura ebraica occupi uno spazio tuttora margi- nale. Ancora nel 2006, Alberto Cavaglion, uno dei più sottili indagatori della cultura ebraica contemporanea nel nostro paese, così ne scriveva: “Se nella ricerca storiografica […] le cose sono molto mutate, quanto alla italianistica si continua a vagare piuttosto nel buio, con grande sorpresa soprattutto degli studiosi stranieri, specialmente quelli di area anglosasso- ne, increduli davanti a tanto silenzio”124. Il recente moltiplicarsi di conve-

gni e di studi su singoli aspetti della letteratura ebraica italiana lascia però sperare in una futura elaborazione complessiva e nell’ingresso definitivo di questa tematica all’interno del discorso culturale nazionale. Uno dei risultati di questa acquisizione potrebbe essere, come auspicato dall’italia- nista dell’Università di New York Fabio Girelli-Carasi, la “riconnessione” dell’ebraismo italiano con le esperienze del resto d’Europa125.

Come brillantemente riassunto da Marylin Schneider126, Bassani oc-

cupa nella letteratura italiana una posizione al contempo periferica e centrale. Lo scrittore di Ferrara è marginale in quanto ebreo in un paese profondamente plasmato dal cattolicesimo; in quanto la sua narrativa li- rica è radicalmente estranea alle mode del dopoguerra, a neorealismo e a sperimentalismo (è nota l’aspra polemica che, negli anni Sessanta, gli intentò contro il Gruppo 63, di cui facevano parte scrittori come Edoardo Sanguineti, Luigi Malerba, Giorgio Manganelli e Umberto Eco, e che fece sì che Bassani, definito “la Liala della letteratura italiana”, venisse per lungo tempo relegato nel novero degli autori superficiali e di successo127);

è marginale infine anche all’interno della comunità ebraica, di cui ha sempre fatto parte ma prendendone apertamente le distanze. Ma Bassani è ben lungi dall’essere stato un outsider o un fautore dell’arte per l’arte. Mi- litante antifascista durante la guerra, nell’Italia repubblicana il suo impe- gno civico e politico lo portò a partecipare direttamente alle vicende della nazione e anzi ad occuparvi posizioni di rilievo: fondatore e presidente di Italia Nostra128, è stato consigliere comunale a Ferrara, direttore editoriale

della Feltrinelli, e, dal ’64 al ’67, vicepresidente della RAI come candidato socialista. Le opere di Bassani hanno ricevuto i massimi riconoscimenti letterari italiani e, in particolare Il giardino dei Finzi-Contini (1962), sono state tradotte in decine di lingue129.

Il profondo legame irrisolto fra ebrei e fascismo è uno dei temi cen- trali della produzione letteraria di Bassani e della sua riflessione politica. “Anche gli ebrei, che erano quasi tutti borghesi, commercianti, proprietari di terre, eccetera, anche gli ebrei erano quasi tutti fascisti”130, ha detto lo

scrittore riferendosi alla ricca borghesia ebraica di Ferrara; giudizi altret- tanto perentori vengono ribaditi in numerose interviste. È su questo punto che si articola la critica di Bassani al mondo ebraico italiano e si proble- matizza la sua identificazione con esso. Il suo sguardo non è però mai giudicante ed esterno; nella sua scrittura si riflette piuttosto il tentativo di una sofferta resa dei conti con la propria ascendenza e il proprio ambiente. È in particolare il periodo antecedente le leggi razziali131 quello su cui

si appunta la critica dello scrittore, così come risulta anche dalla dichiara- zione resa, agli inizi degli anni Sessanta, per una Storia dell’antifascismo

italiano. La lunga citazione ben rende il senso della distanza fra Italia e

Polonia, laddove anche per quest’ultimo paese è lecito supporre che gli ebrei avrebbero con piacere tentato la strada del “conformismo” e della “beata normalità”, se solo questa fosse stata loro consentita.

Uscivo da una famiglia di questo tipo: ebraica e fascista. Ma sia ben chiaro: infinite altre famiglie ebraiche erano a quell’epoca come la no- stra, normali (e banali) come la nostra. Eravamo dei piccoli borghesi, caratterizzati, anche noi, dagli stessi difetti, dalle stesse colpe, dalle stesse insufficienze della contemporanea piccola borghesia moderata cattolica. Sembrerà strano: eppure erano pochissimi, prima del 1938, gli ebrei italiani che non fossero devoti alla Casa Savoia, mentre il duce, che aveva conquistato l’impero, rappresentava per molte delle nostre madri, zie e sorelle una specie di idolo […]. La comunità israeli- tica di Ferrara, in cui sono nato e cresciuto, era una piccola città dentro la città: così conformista e normale, anche essa, da fornire all’am- ministrazione comunale, per dodici lunghi anni, nientemeno che il podestà. È possibile essere più conformisti, più normali, più fedeli? Eravamo così conformisti, così normali, così beatamente normali, da sentirci allargare il petto di fierezza e di commozione se le maggiori

autorità cittadine accettavano di intervenire alla solenne celebrazione della ricorrenza dello Statuto che si teneva ogni anno nella sinago- ga di rito italiano (la celebrazione di quello Statuto albertino, badate bene, che dichiarava religione dello Stato la religione cattolica, rele- gando le altre confessioni al rango di “tollerate”). Era, ogni anno, uno spettacolo grottesco: funebre, a ripensarci adesso, dopo Auschwitz e Buchenwald. Ma al tempo stesso normale, dovete convenirne, il più normale che si potesse immaginare. […] Li rivedo là, schierati uno vicino all’altro […] uniti, tutti quanti, in perfetta unanimità di spirito, cattolici ed ebrei, a celebrare i fasti della classe dirigente132.

Secondo Bassani l’adesione al fascismo, spesso anche entusiastica, da parte del ceto medio e dell’alta borghesia ebraica non fu dunque, come starebbe a indicare una vulgata romantica impostasi già al ter- mine della guerra, un fenomeno marginale e magari sostanzialmen- te limitato agli eccessi della fascistissima rivista torinese «La nostra bandiera» ma coinvolse una parte significativa dell’ebraismo italiano. Come ammesso anche dallo storico Guido Valabrega, è possibile par- lare di:

appoggio della stragrande maggioranza dei dirigenti israeliti al regi- me; di passiva acquiescenza di quasi tutti gli altri. Né, d’altro canto, in una comunità idealmente guidata e controllata dalle tendenze della media borghesia sembra potersi immaginare che l’andamento potesse essere diverso133.

Ai rapporti, più spesso studiati, fra ebraismo e movimenti socialisti e ri- voluzionari è dedicato il capitolo che segue, ma non va dimenticato, come anche ribadito dal rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni, che in Italia molti ebrei “pensavano che istanze ebraiche messianiche, di giustizia e nuovo ordine sociale si realizzassero proprio con il fascismo”134. Come

dimostrato dal libro di Luca Ventura Ebrei con il duce, si trattava di figure spesso tutt’altro che marginali nella compagine sociale ebraica, trovando- si fra essi scrittori di gran successo come Arturo Foà, secondo cui

gli ebrei non sono secondi a nessuno nel sentire che la legge mussoliniana è la più alta legge di fraternità e giustizia promulgata nel mondo. Molti fra

noi, e io per il primo, diciamo che questa legge era già scritta nel libro dei Profeti; e proclamiamo che chi tradisce il fascismo non tradisce solo la patria italiana, ma la sua coscienza millenaria e contemporanea135.

Fra i sostenitori del fascismo si trovarono, almeno per un certo periodo, leader religiosi come i rabbini di Torino Giacomo Bolaffio e Dario Dise- gni, il rabbino di Abbazia Stern, quello di Casale Monferrato Ferruccio Servi e diversi altri, fra cui addirittura il rabbino di Genova Riccardo Pa- cifici, poi martire dei nazisti136. Sembra dunque possibile convenire con

Ventura, secondo cui non solo gli ebrei fascisti in genere, ma persino la cerchia dei fedelissimi al Duce de «La nostra bandiera», non fossero “un manipolo di fanatici tagliati fuori dalla propria comunità ma individui che ne costituivano parte integrante e che in molti casi praticavano la propria ebraicità con scrupolo”137. La lettura dei Profeti e l’attesa messianica rice-

vono ovviamente altre interpretazioni dagli ebrei comunisti. Gli uni e gli altri hanno a volte sentito di non poter conciliare le due fedeltà (anche in Italia alcuni ebrei fascisti si cancellarono dagli elenchi comunitari negli anni appena precedenti la Seconda Guerra Mondiale138); agli uni e agli

altri la Storia ha generalmente riservato una fine catastrofica. Ovviamente non è questa la sede per un’analisi storica di questi fenomeni; basti qui aggiungere che ogni paragone meccanico sarebbe ingiustificato e fallace e che molto spesso, come riflesso anche nelle pagine di Bassani, l’adesio- ne al fascismo aveva coinciso con una posizione sociale privilegiata e il convincimento, risibile guardandovi a ritroso, che questa sarebbe bastata a garantire una completa accettazione sociale.

Le leggi razziali del 1938, umilianti e disumane per tutti, rappresen- tarono inoltre per la maggior parte degli ebrei italiani l’imprevista la- cerazione di un idillio (un idillio che, come nota Kroha, Bassani consi- dera sostanzialmente un mito139); il risveglio dal sogno di integrazione

e dall’idea di essere “una cosa sola col popolo italiano”140 fu, per tutti,

inaspettato e crudele. L’integrazione degli ebrei in Italia aveva infatti avuto generalmente maggior successo che in altri paesi. Piccola se non irrisoria dal punto di vista numerico, la presenza ebraica nella peniso- la ha sempre goduto, così come gode tuttora, di una rappresentatività non proporzionale alle sue dimensioni. Gli ebrei italiani risaltano, su scala europea, anzitutto per la loro esiguità numerica, un fenomeno

che poco sembra accordarsi con una situazione generale in sostanza favorevole e con il relativamente basso tasso di antisemitismo tradizio- nalmente dimostrato dagli italiani. Gli iscritti alle Comunità ebraiche della penisola sono, nel momento in cui scriviamo, meno di 30.000; anche nel periodo fra le due guerre le cifre di questa presenza non erano drammaticamente differenti; in sostanza nell’arco di 160 anni il numero della popolazione ebraica in Italia ha ondeggiato fra i 30.000 e i 50.000 membri141. Il censimento del 1931 riportava 47.825 “israeliti”,

prevalentemente impegnati nel settore del commercio (34,3%) e del pubblico impiego (25,2 %). Questi dati, che saranno poi confermati dal censimento razzista del 1938 (il censimento del ’31 richiedeva una di- chiarazione relativa alla religione professata), rilevano anche come nel settore del commercio, e in particolare nell’Italia centrale, “la percen- tuale dei semplici e miseri ambulanti fosse tutt’altro che trascurabi- le”142. Queste cifre, così come quelle, assai basse, dei proprietari terrie-

ri e degli impiegati in lavori connessi all’agricoltura, non si discostano dal panorama generale del mondo ebraico europeo. Analogo è anche il forte tasso di inurbamento (oltre il 90% degli ebrei italiani viveva in 9 città, e quasi la metà del totale risiedeva a Roma e Milano143). È forse

caratteristica più “italiana”, soprattutto se confrontata con la situazio- ne polacca e in genere dell’Europa centro-orientale, l’altissimo numero di matrimoni misti (quasi il 50% negli anni Trenta) e delle conversioni al cattolicesimo144. Quella fra le due guerre mondiali era dunque una

fase che, più che di “piena integrazione con la società circostante”145, si

potrebbe certamente definire di tentata omologazione e possibile dis- solvimento. Un’altra caratteristica italiana è forse riscontrabile nella presenza di alcune figure di grande rilievo in vari campi dell’economia e della vita pubblica italiana, che “affiancavano all’impegno diretto nei rispettivi settori, una certa familiarità e frequenza con gli ambienti governativi fascisti, ricoprendo spesso cariche importanti all’interno della struttura corporativa del regime”146.

La collettività ebraica italiana, oltre a riflettere, così come spesso le comunità diasporiche, i modelli politici e sociali caratteristici della socie- tà ospitante, si caratterizza anche per l’influsso di una cultura umanisti- ca “per la quale era d’obbligo cercare di conciliare Dante con le mizvot, l’umanesimo fiorentino con la morale dei Pirké Avoth”147. Riconosciamo

uno dei suoi momenti fondativi nel periodo in cui si plasma la moder- na identità nazionale, ovvero, quando in virtù della forte partecipazione ebraica al Risorgimento e dell’alto livello di inclusività dimostrato dal gio- vane Stato piemontese, laico e liberale,

il processo di emancipazione assunse caratteristiche politiche, psi- cologiche, economiche e culturali uniche rispetto alla storia contem- poranea dell’ebraismo europeo. Di conseguenza, la comunità ebraica italiana, nonostante le sue dimensioni ridotte, sviluppò una coscienza di gruppo, un senso di sicurezza e un’immagine (peraltro inesatta) di se stessa che in seguito ebbero conseguenze importanti. Esse ad esem- pio impedirono agli ebrei italiani di comprendere la gravità dell’anti- semitismo fascista, ma per contro consentirono loro di reagirvi con sorprendente vigore ideologico e militare attraverso il sionismo e la resistenza armata all’occupazione tedesca148.

Il giudizio politico complessivo di Bassani sull’ebraismo italiano è mol- to più severo di quello di Vittorio Dan Segre qui proposto; in un’inter- vista egli aveva addirittura asserito: “Ho scelto mezzo secolo fa da che parte stare. Mi sono difeso dalla identificazione di me stesso come ebreo

entrando nell’antifascismo militante clandestino”149, dove, in un ribalta-

mento degli schemi correnti, l’identificazione ebraica sarebbe stata addi- rittura incompatibile con l’antifascismo.

Fra i più ferventi attivisti antifascisti di Ferrara, rinchiuso per tre mesi nel carcere cittadino dopo l’armistizio (le settimane di prigionia in attesa della pena capitale sono una delle esperienze centrali nella biografia dello scrittore), Bassani forse non avrebbe concordato neanche con il giudizio dello storico Michele Sarfatti, secondo cui “in estrema sintesi si può os- servare che gli ebrei italiani erano fascisti come gli altri italiani, più anti- fascisti degli altri italiani”150.

Posizioni più sfumate e ricche di contrasti sono ovviamente quelle espresse nella narrativa bassaniana, in cui la condanna politica e storica si mescola alla pietas per una generazione e una società ingenuamente, sto- lidamente convinte del proprio privilegio e della propria completa accet- tazione nel tessuto sociale italiano e finite “in fondo senza sapere perché […] nel nulla dei campi di sterminio nazisti”151. Nelle pagine di Bassani,

come ha scritto Marina Beer, “il ritratto del microcosmo dell’ebraismo italiano del primo Novecento [è] condotto con acume, perizia e passione poetica inimitabili” e vi raggiungono la loro massima rappresentazione “mito e romanzo dell’ebreo italiano in quanto prototipo dell’ebreo occi- dentale”152, dove, ancora una volta, il mito dell’ebreo italiano è quello della

vagheggiata integrazione nel rispetto della diversità.

Pubblicato per la prima volta nel 1952, nel decimo numero della rivista «Botteghe oscure» di cui Bassani era redattore, il racconto Una lapide in

via Mazzini descrive con un’incisività da parabola la vicenda di un reduce

da un campo di concentramento e l’ondivaga – ma comunque non solidale – accoglienza offertagli dai concittadini. Definito “Il racconto che meglio di ogni altro è riuscito a ricostruire il clima surreale di quei giorni”153, è

stato scelto da Guri Schwarz, autore di uno studio panoramico sugli ebrei nell’Italia postfascista, “per illustrare gli incerti passi con cui gli ebrei sopravvissuti riprendevano la propria esistenza nell’Italia che si diceva nuova, purificata dalla lotta antifascista”154. “Nonostante il moltiplicasi

degli studi”, sostiene lo storico, è proprio in queste pagine che si ritrova la migliore sintesi di quel periodo confuso. In realtà Una lapide forse meglio di ogni altro racconto illustra l’impossibilità dell’incontro fra le esigenze del reduce e quelle della società post-bellica e riconferma allo stesso tem- po la necessaria alleanza fra letteratura e verità storica. Un’alleanza con- traddittoria ma fondamentale per l’impegno etico di Bassani. “Intendevo essere uno storico, uno storicista, non già un raccontatore di balle”155, ha

affermato nel 1991, ricordando la sua posizione di contrasto nel panorama generale della letteratura italiana (“che non dava un contenuto storicistico alla realtà di cui si occupava”) e la sua distanza da scrittori comunque da lui ammirati come Cassola e gli Ermetici. In “Meritare” il tempo, un’im- portante intervista rilasciata ad Anna Dolfi nel 1979, Bassani così definiva il suo programma di scrittore:

Il problema mio, come narratore e come poeta, è quello della credibilità, e la credibilità è legata a dei fatti che non sono di tipo illusionistico, ma esattamente il contrario, cioè è legata alla moralità, all’avvenuto e al diritto di parlarne. Quanto poi alla ‘finzione’ dell’opera che lei mi ricor- da, certo, l’opera d’arte è ‘finzione’, ma è al tempo stesso verità: è una

finzione accettata per esorcizzarla, per lottarvi contro, necessariamente. È un rapporto dialettico disperato, come quello fra la morte e la vita. […] Non è possibile immaginare la vita senza la morte e non è possibile immaginare l’arte, che è il contrario della verità, senza la verità156.

La verità di questa narrativa è strettamente legata alla verità di Bu- chenwald. “The concentration camp image diffuses the Romanzo inter- testually” ha notato Marylin Schneider157. Per Bassani, che ha più volte

dichiarato essere stata l’esperienza di antifascismo militante la più impor- tante e la migliore della sua vita, quella senza la quale, probabilmente, non sarebbe mai diventato scrittore, l’immagine dei campi di concentramento e la responsabilità verso di essi sta alla base stessa del mestiere di scrivere. La necessaria finzione dell’arte diventa un elemento del tutto irrilevante quando si rivendica un rapporto di profondo impegno etico, l’unico in grado di attribuire all’autore “il diritto di parlare”, anche nei confronti dei personaggi letterari:

I personaggi non sono pupazzi, per me, sono persone vere, che abitano in una certa strada, che appartengono a una sfera sociale determinata

e che per giunta sono morte a Buchenwald, e che quindi meritano

d’essere trattate col pudore con cui è d’obbligo trattare ogni essere umano, vivente o vissuto158.

Va sottolineato che l’esperienza di Buchenwald non riguarda solamente gli ebrei. Come ben testimonia il suo impegno politico, la responsabilità etica dello scrittore è rivolta anche al di fuori del mondo ebraico. E ciò non solo per quanto riguarda i numerosi personaggi non ebrei (sia quelli positivi come ad esempio la popolana Lida Mantovani, la socialista Clelia Trotti, il comunista Giampiero Malnate, che quelli più ambigui ma a cui comunque va la simpatia e la compassione dell’autore, come il dottor Fa- digati), ma la cerchia dei fruitori delle sue opere:

Come Proust e come Joyce, io so di non avere il diritto di raccontare delle storie. A chi potrei raccontarle? L’ho fatto subito dopo la guerra, in un momento eccezionale, dopo che eravamo tutti, non solo io, usci-

giustificazione morale molto seria: narrare a un’assemblea di utenti in qualche modo uguali, vicini, in sintonia159.

La persecuzione, in queste parole, riguarda dunque ebrei e non ebrei in maniera quasi (“in qualche modo”) indifferenziata, coinvolge una colletti- vità la cui unione è cementata dalla funzione del narratore. È una colletti- vità solidale che manca nella Ferrara che accoglie il giovane reduce Josz nelle pagine di Una lapide, e che viene appena adombrata nel racconto Gli

ultimi anni di Clelia Trotti. Qui il giovane ebreo e l’anziana socialista agli

arresti domiciliari sembrano irrimediabilmente soli, ma la Ferrara fasci- sta coperta dalla neve e dal suo “silenzio opprimente” è definita “prigione e ghetto comune” (p. 165): prigionia ed esclusione sono dunque patrimo- nio collettivo di un’umanità umiliata. Allo stesso tempo, il riferimento alla comune esperienza di Buchenwald sta a indicare come il linguaggio di un’etica condivisa possa articolarsi solo a partire dalla presa in carico dell’azzeramento dell’umano dei campi di concentramento.