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Infanzia e adolescenza nella Polonia comunista

Possono essere affiancati, per motivi generazionali e anche per la so- miglianza dell’eroe letterario, i testi di Henryk Grynberg e di Wilhelm Dichter, che spesso hanno descritto il destino di chi aveva fatto dell’in- ternazionalismo il proprio motto. Quasi coetanei (del ‘35 Dichter, di un anno più giovane Grynberg), durante l’occupazione nazista si salvarono entrambi in Polonia, insieme alla madre: in precari rifugi (sotto un letto, o addirittura, per mesi, nascosto dentro un pozzo), il primo; nei boschi, e quindi con i ‘documenti ariani’, l’altro. I padri di entrambi perirono di morti anomale per i tempi: abbiamo già letto della fine di Abram Grynberg, ucciso da un compaesano; Bronek Rubinowicz, il padre di Wilhelm, tubercolotico, morì suicida nel suo rifugio. Infine, le madri di entrambi si risposarono subito dopo la guerra con due ebrei comunisti. Dunque due storie eccezionali di salvezza che sembrano paradossal- mente ripetersi persino nei dettagli più improbabili e potenzialmente mortiferi: come i capelli e gli occhi molto neri di entrambi i protagonisti e delle loro madri.

Si è già detto del peculiare intreccio fra finzione e testimonianza ca- ratteristico della scrittura di Grynberg. La problematica si presenta con

grande chiarezza anche in La vittoria, che, nella prima edizione del 1969, riporta come epigrafe una frase firmata “L’autore”: “A nessuno importe- rebbe più che a me che gli eventi riportati in questo libro si fossero svolti diversamente”278, in cui si previene l’ipotizzata incredulità del lettore e si

riafferma la veridicità degli eventi narrati. Anche Il cavallo del buon Dio e La scuola dei miscredenti di Dichter sottolineano l’intento di riferire in maniera veridica di fatti realmente accaduti. Uguale il periodo descritto in questi romanzi: gli anni torbidi del primo dopoguerra, il faticoso avanzare dell’Armata Rossa verso occidente, quindi il graduale imporsi del regime filosovietico, la diffidenza degli ebrei verso i polacchi, l’odio e la para- dossale paura dei polacchi verso gli ebrei, visti come gli alfieri del nuovo detestato regime. L’io narrante è in entrambi i casi un ragazzino di circa dieci anni, che porta marchiato a fuoco il terrore provato costantemente durante l’occupazione e che nel terrore e nello spaesamento continua a vivere anche a conflitto finito.

Le assonanze fra i due terminano qui: perché Grynberg è scrittore proli- fico e considerato fra i massimi esponenti della letteratura dell’Olocausto, mentre Dichter è, al momento, autore di due soli libri, scritti a sessant’anni passati. Inoltre il villaggio di Dobre, a est di Varsavia, dove risiedeva la famiglia Grynberg, e la cittadina di Borysław nei dintorni di Leopoli dove abitava Wilek, hanno avuto esperienza di due occupazioni diverse, quella nazista e quella sovietica. E se i polacchi hanno forse sofferto in maniera simile da entrambi gli occupanti, per gli ebrei in quei due anni spesso la differenza è stata incalcolabile.

Unica figura di La vittoria le cui azioni siano dettate da puro e ingenuo idealismo, Uszer (Asher), padre adottivo del protagonista autobiografico Henio, ha seguito il classico percorso di formazione dei comunisti d’ante- guerra, terminando la sua educazione in galera. Quando fa il suo ingresso nel romanzo Uszer ha le gambe gonfie avvolte negli stracci e il viso tume- fatto. È la fine dell’estate del 1945; Henio ha nove anni, e Uszer è arrivato a piedi a Łódź da Mauthausen.

Quando aveva 14 anni, suo padre, che faceva il calzolaio, lo mandava a Varsavia a prendere le ordinazioni e la pelle. Uszer leggeva libri. Suo padre non sospettava che da Varsavia insieme alla pelle portasse anche libretti comunisti.

Dopo l’esercito Uszer finì direttamente nel carcere politico, dove per quattro anni completò la sua educazione, non solo in economia poli- tica e basi della rivoluzione, ma anche in storia generale, geografia, e persino matematica. Infatti in carcere c’erano insegnanti e professori che in libertà Uszer non si sarebbe potuto neanche sognare […]. [Qui] regnavano veramente uguaglianza e giustizia.

E non c’era neanche traccia di antisemitismo. Al contrario, i detenuti polacchi erano particolarmente calorosi nei confronti dei compagni ebrei. […] Sì, era semplice. Sia per i calzolai e i sarti ebrei che per i dottori e i professori. Il comunismo era la migliore via d’uscita per gli ebrei, se non l’unica. Era il loro migliore rifugio279.

Ma questo rifugio non lo salverà dalla catastrofe neanche nella Polonia Polare, dove finirà di nuovo in carcere in seguito all’inganno di un ex com- pagno di prigionia salvatosi in URSS e quindi entrato nella polizia segreta. Uscito di prigione per Uszer non sembra esistere alternativa all’emigrazio- ne. Per chi rimane in Polonia le strade sembrano essere solo due: la vendetta (ovvero, in questo caso, la collaborazione con il governo comunista) o l’as- similazione. Scelgono la seconda Biumek, Aron, Słoń, che si convertono e sposano le figlie dei contadini che li hanno nascosti durante l’occupazione:

Aron e Słoń non avevano nessun tipo di patrimonio di cui esigere la restituzione, ma i loro futuri parenti ritenevano che le ragazze che li sposavano avessero comunque trovato dei buoni partiti, perché gli ebrei, persino quelli convertiti, rimangono pur sempre ebrei, ovvero non si ubriacano, non picchiano le mogli e persino senza terra sono sempre in grado di mantenersi.

I contadini e gli abitanti di Dobre erano ben disposti verso Biumek, Aron e Słoń. Considerano il loro passo la logica conseguenza di quanto era successo. Alcuni sorridevano ironici, ma in sostanza erano soddisfatti280.

Bolek però sceglie la vendetta; la possibilità di vendicarsi con le proprie mani degli assassini di genitori e parenti sembra essere, in questo roman- zo, l’unica motivazione che spinge gli ebrei a collaborare con il regime:

Bolek, che aveva nella zona dei conti personali, entrò nella milizia per potere essere di nuovo armato […]. Andò alla NKVD, chiese dei

miliziani con le pistole automatiche e un’automobile. I miliziani gira- vano per i dintorni insieme a Bolek e sparavano a chiunque tentasse di fuggire. Si muovevano in pieno giorno. Bolek diceva loro dove an- dare e mostrava la strada. Spararono a Zduńczyk e Tomaszkiewicz in fuga. Tomaszkiewicz lo volle uccidere Bolek stesso, per vendicare sua madre. La gente diceva che gli aveva scaricato addosso un intero caricatore a sangue freddo281.

Uscendo dalla prospettiva strettamente autobiografica del suo primo romanzo, in La vittoria, con continui spostamenti di visuale dallo sguar- do ingenuo del protagonista ragazzino a quello del narratore onnisciente, Grynberg dilata le vicende della sua famiglia a delineare un panorama complessivo della storia ebraica nei primi anni della Polonia popolare282.

Senza timore di venire incontro al famigerato stereotipo dell’ebreo comu- nista servo dei sovietici e nemico dei polacchi, Grynberg ambisce presen- tare una visione obiettiva di quegli anni, senza concedere nessuna atte- nuante né a ebrei né a polacchi. I sopravvissuti ebrei litigano e si odiano come prima della guerra. Il reclutamento ebraico nelle file del partito è operato in maniera cinica e non consente repliche. A Nusen, già sprege- vole presidente dello Judenrat durante l’occupazione, viene assegnata la tessera del partito, che non aveva richiesto. Alla sua reazione sorpresa il segretario replica: “– E di chi dovremo fidarci? […] Di quelli che odiano l’Unione Sovietica, il nostro liberatore? O di quelli che vanno in chiesa a pregare per la nostra morte? O forse di quelli che odiano gli ebrei?…”283.

Nel giro di pochi anni però gli ebrei smettono di essere una preda allet- tante per i segretari di partiti. Il tempo della vendetta e del trionfo ebraico è di brevissima durata.

“A sense of triumph that dominated the members of the generation in the first Stalinist years was increasingly mixed with and clouded by fear and suspicion”284, scrive Jaff Schatz in The Generation. Il comunista

d’anteguerra Uszer di questa generazione è un membro così secondario e sventurato da non godere neanche per un attimo della sua affiliazione politica.

In quarant’anni di vita, quattro ne aveva passati nel carcere duro di Wronki, tre nel ghetto di Varsavia, due e mezzo in campo di concen-

tramento. Aveva superato la selezione a Treblinka, era sopravvissuto a Mauthausen. Non bastava per un uomo solo?285

si chiede l’autore di questo romanzo violento e struggente. Il ragazzino Henio può ancora continuare a sognare di non essere mai più ebreo e a cercare modelli di nascondimento nella lettura dei classici polacchi, in Konrad Wallenrod e padre Robak, eroi che hanno agito sotto false spoglie per il bene collettivo; ma con il padre in prigione e bollato come “figlio di speculatore” Henio è inchiodato senza scampo alla sua ‘razza’. “Dunque, come è veramente finita questa guerra?”286 è la domanda conclusiva del

romanzo. “The war for Jewish life that Grynberg prosecutes in literature has only won the freedom to record his losses”, risponde a questa doman- da Ruth Wisse, che ha definito Grynberg “the most complicated example of the Jew who writes about the war in his native non-Jewish language”287.

Nei libri di Dichter (che formano una sorta di unicum essendo uno la diretta continuazione dell’altro), i personaggi comunisti adulti sono due: Michał, il padre adottivo del ragazzo, e l’anziano signor Rosenthal, apparatčik in pensione, che “lavorava part time nel Dipartimento di Storia del Comitato Centrale a ripulire la storia del movimento operaio polacco dalle menzogne trockiste”288. Rosenthal, che poi sarà mentore del ragazzo

nel periodo della sua intensa infatuazione e militanza comunista, si pre- senta con un aneddoto infarcito di termini russi, una sorta di sogno o di tetra fantasticheria alla Babel’, in cui l’autore gioca e sovrappone identità contrastanti: il russo e il polacco, il prete e l’ebreo.

Correva l’anno 1944. Rosenthal seguiva l’Armata Rossa che si avvicina- va a Varsavia distribuendo propaganda.

La sera si fermarono davanti a una chiesa bruciata, nei cui pressi si trovava un frutteto […]. Accesero il fuoco. Mangiavano pane e mele, bevevano vodka. Il comandante del battaglione trovò fra gli alberi un giovane prete.

– Che ci fa qui? – sbadigliò Rosenthal.

– Aspetto che tornino i nostri. Sono un parroco militare. Controllo la chiesa.

– Špion? È una spia? – chiese a Rosenthal il comandante. – Durak! È uno scemo! – rispose Rosenthal ridendo.

– Vsie popy vragi sovestkoj vlasti!! Tutti i popi sono nemici del potere

sovietico! – esclamò il comandante.

Gettarono dei rametti nel falò. Si alzò una fiammata. – È ebreo? – chiese Rosenthal sottovoce.

– Sono convertito – disse il prete. – Anche Lei è ebreo, signore? – No.

– Polacco?

– No. Comunista. – rispose Rosenthal. La mattina i cosacchi fucilarono il prete289.

Definito da Antony Polonsky “uno delle posizioni più raffinate nell’in- tero dibattito sul tema degli ebrei comunisti”290, il libro di Dichter è un

romanzo di formazione. Il bambino ebreo sopravvissuto, tormentato dagli incubi, dai compagni di scuola e dagli sguardi minacciosi degli adulti (che subito dopo l’Olocausto l’antisemitismo sembra aver acquistato anco- ra maggior vigore) si sente “come un sasso lanciato in aria” e sogna “una mano che mi afferri in volo”291. Come il caricaturale Rosenthal, anche

l’adolescente ebreo, che non riesce più a camminare dopo i mesi passati nascosto sotto un letto, sogna di potersi definire in maniera altrettanto semplice e inconfutabile. Né polacco né ebreo: comunista. Perché, come è stato notato, il comunismo offriva agli ebrei “the unique opportunity of quitting Judaism not through defection (conversion to another religion) and not through assimilation (conversion to another nationality) but through

national self-transcendence”292. E perché il comunismo, se pur il ragazzi-

no ne teme il dogmatismo e la violenza, era pur sempre una cosa grande, “che aveva mutato l’aspetto del mondo”293. Ed era inoltre – vale la pena

ricordarlo ancora una volta forse l’unica forma di partecipazione sociale consentita allora agli ebrei. Ciò nonostante, la Polonia per il ragazzo resta seppur in maniera alterna e conflittuale l’identificazione più semplice e spontanea. Pur temendo i suoi concittadini, e i coetanei in particolare, per vincere la paura a scuola Wilek ricorre a espedienti (“quando qualcuno si affacciava in classe fingevo di star raccogliendo qualcosa da terra”) per potersi sussurrare come una formula magica di salvezza “versi che si avvi- luppavano come la treccia rossa di Andzia Katz: «Oh primavera di guerra, primavera di raccolti!»”294. I versi sono ancora una volta quelli di Adam

Mickiewicz, che non disprezzava gli ebrei e che gli ebrei ricambiavano di amore indiscusso e che, in diverse testimonianze personali e letterarie,

costituisce il primo, e a volte l’unico, legame fra il protagonista ebreo e la collettività nazionale polacca.

Anche nelle narrazioni italiane è spesso evocato l’amore per il grande poeta nazionale, Dante. Ho già nominato il ruolo svolto dal Canto d’Ulis-

se in Se questo è un uomo, libro che è stato definito un inno alla formazio-

ne classica dei Licei italiani. Giorgio Voghera nel suo Quaderno d’Israele dichiara di aver “prediletto Dante sopra ogni altra lettura” e ricorda che il poeta fiorentino lo aveva “salvato tante volte dalla disperazione”295. Come

già accennato, lo scrittore fiorentino Roberto Vigevani afferma che il sen- so di comunità nazionale, basato sulla conoscenza dei classici, è venuto meno durante la Shoah; eppure è proprio a tali letture che fanno ritorno gli autori del dopoguerra, come ad un minimo comune denominatore che consenta la ricostruzione di un’idea di cittadinanza condivisa.

Nonostante le sue letture, Wilek si sente però sempre più estraneo e di- verso; una situazione che non cambierà con il matrimonio della madre con il comunista Michał, e l’improvvisa ascesa nella scala sociale di cui godo- no il ragazzo e la famiglia. Dall’abisso di impotenza sperimentato durante l’occupazione nazista, Wilek si trova di colpo a partecipare della classe dei potenti. Nella Polonia affamata e ridotta in macerie, il ragazzo pasteggia a sardine, di cui i suoi compagni di classe hanno sentito parlare solo durante una lezione sul Portogallo, e viaggia in macchina con autista. Il padre adot- tivo porta regali costosi dalla Germania comunista, dalla Russia, dalla Cina. Anche una volta trasferitisi nella capitale, non sembra diminuire il baratro che separa i sopravvissuti ebrei dalla società circostante.

“Servo dei russi!” “Comunista!” “In Palestina!”296, gli gridano i com-

pagni, finché Michał non riesce a farlo trasferire in una delle poche scuole senza insegnamento religioso della Varsavia del dopoguerra, appunto la “scuola dei miscredenti”, come la definisce sprezzante un parroco. Qui an- che Wilek comincia a pensare che “i comunisti hanno sempre ragione. In- fatti sono guidati dall’intelletto e non dai sentimenti, e perciò sanno cosa è stato e cosa sarà giusto”297. Perché la nuova scuola, dove viene educata

la futura classe dirigente polacca, rappresenta veramente una “goccia di socialismo”298, dove la questione ebraica sembra per miracolo scomparire

e gli ebrei sono trattati alla pari degli altri studenti. Qui Wilek, nonostante le argomentazioni scettiche della madre e del religioso zio Julek scampa- to a Mauthausen, può convincersi che la società polacca possa cambia-

re, e l’antisemitismo scomparire insieme alle altre distorsioni sociali. È d’altronde quello in cui crede sinceramente Michał, in rapida carriera ai vertici del partito: “La storia ricomincerà da capo […]. Sarà la fine dell’in- giustizia sociale”299. In Il cavallo del buon Dio Michał sostiene in termini

analoghi: “lo Stato difende tutte le nazionalità. È ora di liberarsi dalla paura […]. Il fiume della storia spazzerà via l’antisemitismo”300.

Il comunismo non è ancora per il ragazzino un’opzione coscien- te, ma la mano che protegge dalla caduta, il “recipiente” che evita la dispersione, la disgregazione interiore: “Aspettando il the […] diedi uno sguardo al pianoforte. Se non ci fosse il barattolo, le palline si sparpaglierebbero sul pavimento e si disperderebbero sotto ai mobili. E noi? Anche noi stiamo dentro un qualche recipiente, che garantisce la nostra esistenza?”301.

I resti, i frammenti della società ebraica scampata allo sterminio non possono bastare a fornire al narratore le coordinate della sicurezza e dell’inclusione. Ma la casa di Wilek, dove si incontrano per parlare senza sosta amici e parenti, il ventaglio del cui impegno sembra coprire tutto il panorama ebraico, dai comunisti ai religiosi, e dove ogni sera “per dol- ce c’era la questione ebraica”302, ha un’atmosfera che ricorda vagamente

quella di una shtibl, di una casa di studio e di preghiera, nel periodo ante- cedente la guerra:

Goldstein, the son of a Kotsker Hasid, remembered the shtibl of his youth this way: “Now all the people in a Hasidic shul look the same. But in my Kotsker shtibl there were old men with long beards, whose only decent clothes were the kapotes [long coats] they wore on Shab- bes; there were Communists, Bundists, Zionists, and other secular young people. Everyone got along except during community elec- tions303.

Anche nei libri di Dichter si riaffacciano tematiche già nominate in pre- cedenza: la vendetta (nelle prime pagine de La scuola la madre del prota- gonista seduce un ufficiale sovietico perché elimini l’assassino del padre); il senso di esclusione; il sogno di una società senza antisemitismo e l’amara presa di coscienza di essere non voluti ed estranei304. Dichter fa un passo in

più rispetto agli autori precedentemente trattati mettendo in maniera im- plicita a confronto l’etica ebraica, impersonata dallo zio Julek, che insegna al ragazzo a mettere i tefillin, con quella romana appresa a scuola, su cui si modella la polonità. L’atteggiamento dell’autore non è univoco, come d’al- tronde non è univoco il modo in cui l’ebraismo moderno si rapporta agli ide- ali romani di virilità, onore, prodezza in battaglia. La combattuta condivi- sione dei valori della latinità coincide nel romanzo con un processo di libe- razione del protagonista dal legame ormai soffocante con Rosenthal e con la militanza di Partito, in un momento in cui l’etica del comunismo reale gli appare in tutta la sua pochezza. Benché i comunisti stessi si modellino sulla romanità (“si vis pacem, para bellum”, dichiara Michał, sentenza a cui il fratello religioso replica ironicamente in yiddish: “Vus hot er gezogt?”, Che diavolo ha detto?305), l’assunzione di questi paradigmi culturali significa per

Wilek un difficile tentativo di inserimento nel discorso nazionale polacco. “Et facere et pati fortia Romanum est…” lo provoca in classe l’insegnante di latino. “Hoc tibi iuventus Romana indicimus bellum…”. “Perché conti- nuiamo a capire Tito Livio? […] Siamo cambiati così poco?” Chiede l’inse- gnante a bassa voce. E Wilek sente di avere “le orecchie in fiamme”306. Ma

la bellicosa gioventù romana, il cui destino virile è determinato da “azione e sofferenza”, può costituire veramente un esempio per il bambino ebreo sopravvissuto alla guerra nascondendosi “sotto il letto”, “nel sottotetto”, “in soffitta”, “nel pozzo”, come suonano i titoli dei capitoli del Cavallo del Buon

Dio307? È questo un modello praticabile per il ragazzo ebreo, che legge in

filigrana nelle pagine di Livio il modello culturale dell’Insurrezione di Var- savia, ma assai meno quello della disperata rivolta del ghetto?

Ricordai che dal macellaio al piano terra veniva spesso una donna anziana a prendere delle ossa per il cane. Suo marito un tempo faceva il portinaio nella palazzina accanto alla chiesa di San Michele (era morto di tifo a Miechów, dove li avevano deportati dopo l’Insurre- zione. Lei era tornata a Varsavia e abitava in cantina, sotto le macerie della sua casa).

Una volta mi guardò fissandomi negli occhi.

– La nostra gente non ha gli occhi di quel colore, – disse al macellaio. Prima della guerra conosceva molti “ebreuzzi” così. Hitler li aveva fatti fuori. Scrollò la testa. Si erano lasciati scannare come pecore […].

– Ma che va dicendo! – il signor Stankiewicz tolse una salsiccia dal gancio […]. Prese dal cesto un panino, lo tagliò a metà e posò sulla superficie porosa le fettine profumate.

La moglie del custode infilò le ossa nella borsa di plastica lacera e uscì ingobbita. – Non ce l’ha mica il cane –, la canzonò il macellaio. – Le ossa sono per lei. –

Mi diede il panino.

Salii al mezzanino e sedetti sul parapetto della finestra. Fissando la porta di casa nostra cominciai a mangiare.