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Il tema del sogno unifica la trama del romanzo e ne mette in comunica- zione i tre livelli (il rapporto con il sesso, la tradizione, la colpa). Nell’im- magine sognata Asril sembra leggere l’ordine del padre di “andare e mol- tiplicarsi”, ossia l’assenso alla sua smania erotica e al desiderio di una moglie giovane che possa dargli una numerosa figliolanza; ma allo stesso tempo il sogno lo colma di angoscia e di paura.

Pur senza riuscire a decifrarne in maniera univoca il messaggio, Asril crede che il suo sogno abbia una capacità profetica. Lo crede o piuttosto lo teme? Perché la sua ansia nell’interrogare vecchi folli o moribondi, come Mendel, come lo shames Chil, nel ricercare improbabili vie esegetiche, come il “libricino che spiega i sogni” (p. 31) che chiede, facendosi deride- re, al libraio ambulante? Perché una volta attribuisce al sogno e alla sua interpretazione un significato vitale, e nell’episodio seguente fa spallucce definendolo “sciocchezze” (p. 40)?

Le Scritture ebraiche, come ben esemplifica Prokop-Janiec, in sostanziale consonanza con le credenze di altri popoli coevi, attribuiscono ai sogni una certa forza profetica. Una delle massime autorità del mondo ebraico, Maimo- nide, sosteneva che il sogno riflette ciò che, in modo conscio o meno, ha attrat- to l’attenzione del dormiente durante la veglia; può avere tracce di profetismo però solo il sogno dell’uomo che goda di un assenza di bassi desideri e appe- titi. Non è questo il caso di Asril, che delle passioni è succube. Della passione per il denaro: senza neanche un parola di commiato, come apprendiamo nel corso del racconto, ha abbandonato la fidanzata per sposare una donna ricca e storpia, che non ama. Della passione sensuale: ha un’amante ucraina, “dai seni larghi come pagnotte”, con cui ha un figlio; con la moglie morta da cin- que mesi, intende scacciarla insieme al bambino. Sogna e progetta di sposare una ragazza giovane, figlia della sua ex fidanzata, che gli appare a una finestra come una lasciva bambola meccanica, dipinta nelle tonalità del fuoco.

Liza alzò il lume al di sopra della testa. Il suo volto ardeva di un fuoco arancione. Dischiuse le grandi labbra rosse. I capelli brillavano come fossero d’oro. Era vestita di piume arancione e dorate.

– Voleva qualcosa, signore?… Voleva qualcosa, signore? Voleva qual- cosa… (p. 47).

In una delle interpretazioni proposte da Prokop-Janiec, Asril non è in grado di decifrare il messaggio consegnatogli in sogno dal padre perché non ha seguito gli insegnamenti ricevuti, non conosce più la dirittura mo- rale dei genitori, ed è uscito dalla tradizione spezzando la catena delle generazioni. Ma cosa sappiamo in realtà del padre di Asril, cosa sappiamo del “pio reb Pinchas lo scriba”? Di lui conosciamo l’attenzione meticolosa alle regole; e sappiamo anche che era contrario al matrimonio di Asril con la donna ricca, ma che non ha fatto nulla per impedirlo. Reb Pinchas predica la separatezza fra ebrei e gentili:

L’orologio del campanile della chiesa suonò le ore. Suo padre gli aveva insegnato che era meglio non contare le ore cristiane. Un ebreo non doveva farne uso. Come non si deve mescolare kasher e treyf, così non bisogna confondere il loro tempo con il nostro (p. 39).

E spaventa il piccolo Asril con tormentose minacce: “Possa tu perdere la lingua, se dimenticherai il gemito dei martiri arsi sul rogo, se seguirai i dettami della tentazione, se farai della carne la tua ragione. L’uomo è spirito, e lo spirito ti sia guida” (p. 153).

L’insegnamento etico trasmesso dalla vita di Pinchas è quantomeno dubbio. Rimasto vedovo, ha sposato una donna molto più giovane di lui, che non si occupa della casa e del figlio. Suo fedele amico è reb Mendel, ladro di cavalli e peccatore con cui, possiamo immaginare, Pinchas si accompagna anche per poterne sfruttare l’eccezionale forza fisica: malato alle gambe, è Mendel che lo porta in spalle in sinagoga. Nella scena finale al cimitero Asril ha un’illuminazione: indovina di colpo chi sia stato, tanti anni addietro, a dar fuoco alla sinagoga della cittadina. È stato reb Men- del, che ancora vive fra di loro. E il padre, il santo reb Pinchas? Possiamo presumere che sapesse, o almeno intuisse, il peccato dell’amico. Eppure allora si era trovato fra la folla inferocita che voleva lapidare una donna innocente, colpevole solo di essere moglie di un “ebreo rinnegato” accu- sato di aver causato l’incendio lasciando cadere, di sabato, una sigaretta ancora accesa (p. 43). Solo l’intervento del rabbino aveva salvato la donna. “«E tu, padre, cosa facevi?». «Io ero con tutti gli altri»” (Ibidem)462. La let-

tera del sogno di Asril forse era vuota perché non esisteva alcun contenuto etico in ciò che gli era stato trasmesso dal padre.

Non solo reb Pinchas è ambivalente: in realtà nessuno dei personaggi di questo racconto è sincero, nessuno è portatore di qualche istanza morale, nessuno di essi è reale ma si rivela presto essere una sorta di caricatura, una vuota costruzione di parole. La cittadina in cui vaga Asril ricorda la realtà di second’ordine della Via dei Coccodrilli di Bruno Schulz, quar- tiere costruito in fretta e furia che mostra “una realtà sottile come carta [che] da tutti i pori tradisce il suo carattere imitativo”463 ed è abitato da

“creature senza carattere, senza spessore, da un vero e proprio ciarpame morale, da quella specie inferiore dell’uomo che nasce in simili ambienti effimeri”464. Anche lo shtetl di Asril è certamente, ai suoi occhi, una sorta

di “eldorado per i disertori morali”465, dove tutto indica la possibilità di

abissali perversioni sessuali. Qui, come scrive Stryjkowski, “ai crocicchi le meretrici adescavano i patriarchi” e il forno da pane diventava “il buco infuocato” di “una tal Maria” (p. 42). Nella sua cittadina, come nella via dei Coccodrilli, Asril può sentirsi “minacciato dalle possibilità, sconvolto dall’approssimarsi dell’adempimento, reso pavido e incerto dal voluttuoso sbigottimento dell’attuazione. Ma a questo punto finisce tutto”, perché “le nostre speranze erano un equivoco” e “una volta oltrepassato un certo grado di tensione, il flusso si ferma e s’arretra, l’atmosfera si spegne e sfiorisce, le possibilità sfumano e tornano nel nulla, i grigi, folli papaveri dell’eccitamento si riducono in cenere”466.

La cerimonia in sinagoga non ha portato la salvezza allo zaddik e non è servita a scalfire i problemi di Asril, che ha tentato, ma senza successo, di unirsi emotivamente alla folla degli oranti. Ha persino cercato di essere uno di coloro che portano il letto dell’uomo santo, ma il suo aiuto è stato rifiutato. Non ha trovato né una collettività in cui identificarsi e scom- parire come individuo (operazione che invece, come ricordato all’inizio di questo capitolo, era riuscita con successo a Stryjkowski “ai tempi di Stalin e di Solidarność”,) né una strada per la remissione dei suoi pecca- ti. Come nel resto del romanzo, neanche una parola descrive il suo stato d’animo; possiamo solo immaginarlo stremato e confuso, mentre ripete automaticamente le parole della preghiera: “Come sono belle le tue tende, o Giacobbe, le tue dimore, Israele…” (p. 115). In sinagoga Asril non ha conosciuto alcuna ascesi: all’uscita della sinagoga il suo primo pensiero è per Ojvedie, le prime persone in cui si imbatte sono l’ex fidanzata Tema, e la desiderata figlia Liza.

Al mattino la discesa di Asril si trasforma in una caduta vertiginosa. Ap- prende la vera natura di reb Mendel; rivela di aver ricevuto dal sensale una lettera ove gli veniva promessa una sposa; e si lascia trascinare da Ojvedie in un’ambigua osteria dove il mezzano lo fa ubriacare. Nell’aria caliginosa del locale Asril intravede il proprio volto a uno specchio butterato dalle mosche: “non riconobbe il proprio volto. Pallido, cadaverico, gli occhi pesti: non lui, ma un estraneo lo guardava: Attento Asril! Attento!” (p. 138). Dalla porta dell’osteria è scomparsa la scritta “Kasher”: forse non c’era mai stata? (cfr. p. 144). Il racconto è pieno di parole cancellate, volate via, mai scritte. E al funerale dello zaddik di Rajsza Asril ancora una volta, per l’ultima volta, si “allontana dal santo Gregge” (p. 157). Lasciando alle sue spalle gli ebrei in preghiera, vaga nel cimitero “come un cieco” alla ricerca della tomba dei genitori, inciampando fra le pietre e le erbacce:

Trovò. Una lastra di pietra. Golde-Zlate, donna virtuosa e schiva, mo- glie di Pinchas, figlia di Asriel, benedetta la sua memoria […]. La ca- tena è spezzata. Madre! Corona del mio capo. Corri innanzi al Trono Supremo, davanti all’Eccelsa Famiglia, davanti al Tribunale di Dio, di tutti gli angeli, di tutti i santi ebrei: Mosè nostro maestro, i patriarchi, Abramo, Isacco, Giacobbe. Implora il perdono per il gran peccatore che è tuo figlio! Sciogliti in lacrime e dì loro che ho paura, che tremo, se appena una foglia batte contro l’altra. Un terrore immenso quanto il Leviatano, quanto Shor-Habor mi fiacca le ossa. Imploro, piango, singhiozzo, mi struggo: che Dio mi perdoni, che abbia pietà, che non allontani la mia mano (pp. 158-9).

Ma la tomba del padre, che doveva essere accanto a quella della ma- dre, non c’è. “Reb Pinchas lo scriba si era dissolto, come una parola in un sogno…” (p. 160). È stato notato che il ritorno di Asril alla cittadina natale potrebbe essere avvenuto dopo la Shoah. Il mondo fosco e incom- prensibile di queste pagine, il Dio assente e disinteressato alle sorti del Suo popolo, sarebbero dunque quelli del dopo lo sterminio. E in realtà lo stesso Asril più che una persona di carne e sangue ricorda un ectoplasma cui sia stata concessa solo una breve parvenza di vita. Asril, in fuga dal cimitero, batte la testa inciampando sulle traversine di un treno e muore: anche la sua fine enigmatica può contenere dunque un indizio alle depor- tazioni. Prokop-Janiec aveva notato che fin dall’inizio del racconto Asril

non nutre alcun dubbio riguardo al significato del suo sogno: “La chiave si cela infatti nell’unica parola che aveva udito e rammentato: Va’!”. Ciò starebbe a significare “che il padre in sogno gli aveva fatto capire che Dio avrebbe guidato i suoi passi, così come aveva fatto con Abramo”467.

Forse non aveva sbagliato Asril nell’interpretare il “Va’!” come un’eco dell’ingiunzione rivolta ad Abramo. Ma nel racconto biblico per due volte Abramo è incitato in identica maniera dal Signore. La prima chiamata è legata alla promessa della moltiplicazione: “Vattene dalla tua terra, dal tuo parentado, dalla casa di tuo padre, verso la terra che ti mostrerò. Io farò di te una grande nazione, ti benedirò e renderò glorioso il tuo nome e sarai una benedizione” (Genesi 12, 1-2). Ma la seconda chiamata è quella che costringe Abramo sul monte Moria, che gli nega la discendenza e con ciò la vita: “E gli disse: «Orsù, prendi tuo figlio, il tuo unico, quello che tu ami, Isacco; va’ nella terra di Moria e lì offrilo in olocausto sopra uno di quei monti che ti indicherò»” (Genesi 22, 2).

È questo forse il comando che Asril finge di non capire; per questo Asril teme il suo sogno e, nel tentativo di sviarne la condanna, ne sbaglia il racconto, ne confonde i dettagli468. La salvezza offerta in extremis a

Isacco e ad Abramo non è iscritta nel destino della modernità. La fiducia integra e assoluta di Abramo nel Dio d’Israele e nella Sua giustizia non è accessibile ad Asril, dilaniato dalla solitudine, dall’estraneità a se stesso, dal senso di colpa. L’unico sentimento che lo riempie è la paura: “un ter- rore immenso quanto il Leviatano” che gli fiacca le ossa (cfr. p. 159).

Il sacrificio di Isacco, ovvero, nella dizione ebraica, l’Akedah, il lega- mento, il sacrifico che non si è mai compiuto è, al pari della Crocifissione per il cristianesimo, uno dei motivi fondamentali dell’ebraismo. Secondo alcuni pensatori ebrei, come Ignaz Maybaum, il modello dell’Akedah si è rinnovato ad Auschwitz, che il filosofo viennese paragona a un sacrificio sul monte Moria non interrotto però dall’intervento divino. Stryjkowski poteva non conoscere Maybaum, ma aveva certamente idea delle possibili affinità teologiche fra i due ‘sacrifici’. Benché Sandauer gli rimproverasse alcune sviste filologiche469, la sua conoscenza della tradizione ebraica era

certamente profonda e profondamente vissuta. Una chiara prefigurazio- ne della Shoah è presente anche nella versione cinematografica di Auste-

ria470, dove i bianchi corpi nudi, ‘femminili’ e ‘degenerati’ dei chassidim

riferimento alla Shoah può essere legato a un senso di colpa esistenziale e anzitutto erotica, una colpa che, si potrebbe dire, verrà cancellata solo dalla Shoah. Neanche per Stryjkowski sembra essere ora possibile alcuna fuga, poiché la colpa irredimibile è componente costitutiva dell’identità etnica e sessuale.