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Scritti a Leopoli nel 1941 i due racconti brevi Józefów e Koń244 di Adolf

Rudnicki non appartengono cronologicamente all’ambito di questo studio ma è utile un breve riferimento ad essi, anche a paragone con le successive opere di questo autore. I racconti presentano due figure di proletari ebrei

comunisti, idealisti, puri, sventurati. Joel Filut, protagonista del racconto

Józefów, tornato dalla guerra di Spagna muore divorato dalla tisi. Unico

testimone della sua fine è il narratore, una conoscenza casuale. Le ultime parole di Filut sono di saluto ai compagni che ancora combattono in Spa- gna: “– io, ascoltami… io, è arrivata la fine… io, mi senti, saluto… mando il mio saluto al proletariato spagnolo in lotta… l’ultimo saluto dal com- pagno polacco Joel Filut”. “Quella notte nessun soldato a Madrid morì in maniera più bella”, è il commento del narratore, che definisce Filut “un uomo che davanti ai miei occhi aveva messo piede nella Terra Promessa” dove la “Terra Promessa” è quella dell’internazionalismo comunista245.

Koń, Cavallo, nel racconto omonimo, è il soprannome di Zachariasz Ka- gan, figlio unico di un povero sarto di provincia: militante comunista, vie- ne ucciso a Varsavia dalla polizia segreta. Il padre, che “con la sua palan- drana nera e l’ampio cappello di velluto sembrava un essere minaccioso e ignoto”, raggiunge la capitale e durante il funerale (un funerale notturno: forse perché, in quanto comunista, il ragazzo è considerato un reprobo; o forse per timore di aggressioni da parte dei nazionalisti polacchi) rimane accanto alla tomba del figlio, disperato e muto: “Il sarto Kagan aveva gli occhi prosciugati, la gola secca, come vi avessero versato la pece. Stava in piedi, e udiva sempre meno, vedeva sempre meno, uno stelo umano inari- dito, una roccia ricoperta di muschio”. Poco dopo però:

uno sciame di giovani si riunì sulla tomba fresca e circondò stretto l’uomo annegato nella sofferenza. […] Giovani teste ardenti attornia- rono la testa del padre […]. Le orecchie del sarto Kagan cominciarono di nuovo a percepire i suoni della vita. Intorno a lui […] gli uomini parlavano nuovamente la lingua degli uomini. […] Poi risuonò una canzone. Il sarto Kagan non la conosceva, l’ascoltava per la prima volta. Ma quel canto gli restituì la capacità di commuoversi. E solo allora, al ritmo di quel canto […] il vecchio sarto Kagan scoppiò a piangere246.

Il canto è ovviamente l’Internazionale, e i giovani ebrei comunisti intor- no al vecchio sarto sembrano sostituire la collettività ebraica tradizionale, il quorum necessario a osservare pienamente i rituali del lutto. In que- sti brevi racconti, che non nascondono il loro carattere propagandistico,

Rudnicki sembrerebbe infatti indicare, in un periodo in cui i riferimenti alla tradizione ebraica non erano ancora identificati univocamente con la reazione, come gli ebrei comunisti assumessero i nuovi ideali accanto agli antichi valori, conservandone in parte terminologia e comportamenti. Vorrebbe invece tracciare una demarcazione netta che lo separi per sem- pre dal passato Emanuel Krakowski, l’eroe del racconto real-socialista

żywe i martwe morze [Il mare vivo e il mare morto], pubblicato nel 1952

e successivamente ristampato con il titolo Regina, Regina Borkowska247.

Benché significativo per il tema di questo capitolo, Il mare vivo e il mare

morto non rientra certo fra le opere di Rudnicki meglio riuscite; ciò nono-

stante era altamente valutato dal suo autore, che lo ha riscritto più volte e lo ha scelto come titolo per la sua maggiore antologia di racconti. Emanuel Krakowski è il figlio di una famiglia ebraica polonizzata (il padre però, come il narratore annota con qualche disprezzo, durante l’occupazione è vittima della “mania religiosa” e viene fucilato mentre prega avvolto nel talled sulle spoglie del figlio minore assassinato, p. 647); rinchiuso nel ghetto di Varsavia fin dai primi giorni della sua creazione, è abbastanza adulto per rendersi conto con assoluta, crudele chiarezza di ciò che vi av- viene. Assiste allo sterminio della sua famiglia; fra i pochi a sopravvivere all’Insurrezione del ghetto, riesce quindi a fuggire da un trasporto per Treblinka:

Nascondendosi nelle cantine capì che vuol dire casa. Osservando la polizia [ebraica, n.d.a.] capì che vuol dire traditore. E ora, camminan- do lungo il margine del bosco, capì cos’è la patria. Gli era estraneo quel bosco, estranei i prati, ma più di tutto temeva la gente. “Ecco – pensava – dalla prima baracca uscirà un uomo che dovrebbe essermi amico, e che sarà il mio assassino. Dove sono vissuto finora? Com’è possibile che non ci abbia ancora pensato? Come ho potuto vivere senza sapere cosa è la patria?”248.

La parte successiva del racconto è appunto dedicata alla ricostruzio- ne interiore operata da Emanuel del concetto di patria; un processo che, nonostante i suoi toni a volte francamente grotteschi, contiene anch’esso forse un “kernel of truth” ed è reso possibile grazie a un atto di solidarietà, a un ponte lanciato fra la società ebraica e quella ariana. Emanuel è infatti

salvato da un contadino comunista; anni dopo ne incontrerà casualmente la bellissima figlia, militante dell’Associazione giovanile comunista (lo ZMP), e quest’incontro deciderà della sua vita futura, della sua completa e riconoscente integrazione nel tessuto sociale della Polonia bierutiana. È con sempre maggiore entusiasmo che il giovane architetto partecipa alla ricostruzione di Varsavia; benché per un certo periodo continui ad avvertire, soprattutto negli incubi notturni, che destino terribile sia l’esse- re sopravvissuto al proprio popolo, Emanuel si immerge sempre più nel “nostro mare vasto e vivo, di cui siamo così fieri”, nel rifiorire di “strade, case, asili, spazi verdi, l’intero grande canto della nostra vita”249.

Il senso del racconto si gioca nella sua seconda parte, dove si descrive la visita a Emanuel di Regina Borkowska, donna già anziana, “una figura da Vecchio Testamento […], minacciosa e meschina”250, come Emanuel

sopravvissuta al ghetto; sposata a un polacco, durante la guerra non ave- va però ricevuto alcun aiuto dalla famiglia del marito; ora desidera solo partire (per Israele: forse un’allusione anche nel Mare Morto del titolo) insieme al figlio, innamorato però di una polacca bionda e bella; ed è pro- prio contro questo detestato matrimonio che la donna cerca la collabora- zione di Emanuel. L’improbabile trama copre una tesi rozza ma eloquente. Così come gli ebrei polacchi si sentono lacerati fra la doppia lealtà – alla tradizione ebraica e alla patria diasporica – Emanuel è simbolicamente conteso fra due donne: la moglie polacca Kasia, militante comunista sot- to la cui pelle si celava “l’intero sconfinato reame della femminilità”, e l’anziana sgradevole ebrea Regina, il cui viso “pallido e morto […] faceva l’effetto di un grido”, la cui voce, “un misto di singhiozzo e di rabbia”, era quasi impossibile da sopportare251; Regina, che lo aggredisce con ricordi

terribili di persecuzioni e umiliazioni, è un “Libro di Giobbe” che vuole ancorarlo a un retaggio da cui Emanuel brama solo fuggire. In questo caso dunque l’opzione comunista del protagonista – l’unica d’altronde che può consentirgli di restare in Polonia e di non scegliere l’emigrazione, come per la maggior parte degli ebrei –, si identifica interamente con il rifiuto e la degradazione del passato e dei valori ebraici.

Tutta la nostra storia [sbotta Emanuel contro Regina] è lacrime e san- gue, lacrime e sangue, e un’infinita, una disumana sofferenza […]. Perché lei si pone in modo che nulla possa cambiare? Perché vuol

far ritorno alle acque salate del mare morto? Perché si lancia armata di coltello contro una cosa che è chiara, e nuova, e per tutti gli esseri umani? Quei tempi orribili non le hanno dunque insegnato nulla252?

Fra l’ebrea e il comunista non è semplicemente possibile alcun dialo- go. Uscita la donna, Emanuel guarda dalla finestra della sua abitazione le luci lontane delle costruzioni a cui si lavora “senza sosta, con fanatismo e dedizione”.

Se non riesce a rinnovarsi qui [così riflette pensando a Borkowska, n.d.a.] se per lei è muta tutta questa nostra enorme realtà costruita con tanto sforzo, se il nostro mondo multicolore per lei è scialbo come uno steccato di periferia […], se è avvelenata, è meglio che lesini i suoi occhi malati per un altro paesaggio. È meglio che parta,

conclude crudelmente253.

Emanuel è una sorta di alter-ego di Abel, protagonista de La limpi-

da corrente. Entrambi sono architetti, professione altamente simbolica e

parallela a quella di scrittore; il significato ebraico dei loro nomi ricorda che Abel è la vittima innocente, ed Emanuel il redentore. Abel è circon- dato dal “mare morto” della Varsavia distrutta e della Polonia senza ebrei; per Emanuel, con bizzarro slittamento semantico, il mare morto è quello dell’emigrazione e della terra d’Israele. O forse ha ragione Józef Wróbel nell’indicare la possibilità di una doppia lettura di questo racconto: sarà Regina Borkowska a scegliere il mare vivo, mentre Emanuel desidererà solo continuare a sprofondare nel mare morto della patria distrutta.

Chissà se dopo la guerra l’avvocato comunista Wiktor Lewen, protagoni- sta del romanzo di Kazimierz Brandys Matka Królów [La madre dei Re]254

avrebbe ancora voglia di definirsi ebreo; fatto sta che durante l’occupazione nazista, dimenticato dal Partito, era entrato nel ghetto di Varsavia, dove era diventato uno degli organizzatori della resistenza e dove aveva desiderato morire. Scritta “tra il marzo 1956 e il marzo 1957, dodici mesi nei quali girò, assieme al sole, il modo dei comunisti di considerare se stessi”255, la

storia di Lewen e del suo atipico rapporto con la vedova proletaria Łucja Król (che egli cercherà invano di aiutare prima della guerra, e che gli sal-

verà la vita nascondendolo durante l’occupazione) fa parte del breve filone della cosiddetta “resa dei conti” con i meccanismi, anche letterari, imposti dallo stalinismo, iniziato dopo il XX congresso del PCUS.

Anche Lewen, come nella maggior parte delle biografie comuniste256,

è stato lungamente in prigione; in prigione ha appreso dell’espulsione dal Comintern del Partito Comunista Polacco ed ha imparato, per non impaz- zire, a non dubitare delle scelte di Mosca. Nel dopoguerra, pur vedendo “sorgere sempre più distintamente ai due lati i muri entro i quali doveva muoversi” (p. 158) rinvia “a tempo indeterminato” (Ibidem) il suo conteg- gio con la coscienza. Sfiora o osserva da vicino la rovina del movimento operaio e del suo paese senza restarne però “mai del tutto annientato”257.

In tutto il corso del romanzo sembra restare convinto che “il XX secolo darà all’umanità ciò che le appartiene: la terra, le macchine e la libertà; per lui la fedeltà e il coraggio valgono più di ogni altra qualità umana; umiliare i più deboli è un delitto” (p. 10).

Lewen è in sostanza descritto come un uomo onesto e interamente dedito a una causa cui ha sacrificato l’intera esistenza; ammetterne il fallimento, se non addirittura il carattere criminoso, significherebbe vanificare le enormi sofferenze e privazioni di cui si è volontariamente fatto carico. A differenza di altri personaggi analoghi, Lewen non cerca vantaggi personali, non è avi- do di potere né di vendetta. La sua ricompensa è quando “il primo maggio […] stava sulla tribuna delle autorità e, agitando in aria il vecchio berretto consunto, salutava le bandiere rosse” (p. 104). A una lettura attuale, la sua figura, benché fortemente idealizzata, sembra essere almeno parzialmen- te verosimile, e le descrizioni dei processi autofagocitanti dello stalinismo sono vivide e sconvolgenti. Dalle pagine di Brandys emergono i pregi del suo protagonista ma anche la colpa, una colpa condivisa forse da milioni di compagni che può essere definita come un rifiuto a riconoscere la realtà, una mancata presa di responsabilità di fronte al reale258.

Stanisław Krajewski ha così sintetizzato l’avventura comunista: “All’inizio, i comunisti fremevano di indignazione per l’ingiustizia e lot- tavano per una società migliore. Prima della conquista del potere erano una setta idealistica. Dopo la conquista del potere hanno assunto dei go- verni dittatoriali e hanno commesso dei crimini”259. Alla sintesi inecce-

pibile di Krajewski si può forse aggiungere che una delle peculiarità del movimento comunista – o forse di ogni concezione globale del mondo

– è stata, per molti, la capacità bizzarra di continuare ad essere idealisti, e, allo stesso tempo, commettere dei crimini. Dunque, una straordinaria capacità di conservare una doppia coscienza, unita a una tensione ideale che, paradossalmente, per alcuni sembra non essere mai venuta a manca- re. Una doppia coscienza guida forse anche la mano dello scrittore nello scegliere, in questo romanzo, immagini e riferimenti culturali. L’elemento ebraico, molto presente nella biografia di Lewen in tutta la prima parte del romanzo, affiora inaspettato anche in altri strati della narrazione. Łucja Król, una molto evidente personificazione dell’immortale madre polacca, ha quattro figli, che portano alla mente i quattro figli del racconto ebraico pasquale, dell’Haggadah che si ripete nella festa di Pesach (i quattro figli haggadici sono modelli esemplari del popolo ebraico o dei tipi umani in genere: il malvagio, rashà; il saggio, chacham; colui che non sa chiede- re, veshenò jodea lishal, perché troppo giovane o ingenuo; infine tam, lo sciocco. I figli di Łucja Roman, Klemens, Stani e Zenon ne sembrano una perfetta trasposizione in parametri polacchi).

Kazimierz Brandys è fra gli autori accusati da Artur Sandauer con la consueta implacabile ironia di agire “con opportunismo eroico”, recitando “il mea culpa sul petto altrui”. La sua autocritica – insinuava Sandauer – si differenzia ben poco da un’autoglorificazione260. Lewen è in effetti proba-

bilmente anche un alter ego dell’autore che, redimendo il personaggio, al tempo stesso si autoassolve dalla colpa di adesione al socialismo reale. Al termine del romanzo, Lewen è un uomo già anziano, stanco, che “non ha nulla da addurre a sua difesa, a sua giustificazione, tranne una cosa sola che è difesa e giustificazione: vuole ricominciare da capo” (p. 220).

È l’ottobre polacco. Forse neanche Lewen si rendeva conto che nelle alte sfere del POUP e dell’esercito stava per essere messa in atto una se- conda fase di “degiudeizzazione”261.

La prospettiva cambia ancora in testi successivi, scritti e pubblicati dopo la campagna antisemita del 1968. Nel racconto Bliźniak [Il gemello]262, Jó-

zef Hen (nato nel 1923), sfruttando anche il proprio bagaglio di esperienze personali di ex comunista, ex membro dell’Armata Rossa e dell’Esercito Popolare Polacco, presenta un personaggio di dignitario caduto in disgra- zia la cui unica e forse non trascurabile attenuante è di essere arrivato al comunismo “per nobili impulsi”. “Per questo – lo dileggia un amico, lo scrittore ebreo Kaminski, – staccarsene diventa una sofferenza”263.

È lo scrittore a porre il comunista Leopold Piński di fronte a una pressante richiesta di assunzione di responsabilità. L’ironia del testo (e della storia) sta nel fatto che proprio l’intellettuale che inizialmente si fa campione dell’istanza etica, figura ispirata probabilmente ad Adolf Rudnicki, poco dopo, per ritor- nare nelle grazie del regime, ammette senza vergogna: “Modifico i miei vec- chi racconti, li epuro senza misericordia da ogni ebraismo”264.

– Allora dovevo ricordarmi ad ogni ora del giorno e della notte che sono anche ebreo? – [Leopold] grida fino a rompere le corde vocali. – Che il mio è uno status particolare?

– Certo che dovevi – Kaminski è inesorabile. – Tu e quelli come te. Perché hai intelletto ed esperienza, poiché sapevi che cosa era succes- so a Mosca nel trentasette, nel quarantotto, nel cinquantadue. Avresti dovuto rendertene conto, e farti da parte. […] [Ma voi] vi siete buttati allegramente nel precipizio, come dei ciechi. Siete rimasti costante- mente a portata di mano. Comodi. Poi, alla fine, è accaduto quel che doveva accadere265.

In termini più lirici e trasfigurando la specificità ebraica lo scrittore russo Izrail’ Metter aveva così sintetizzato l’esperienza disastrosa della “generazione” e le sue colpe:

Chi siamo noi – quelli della mia generazione? Sognatori negli anni Venti, decimati e torturati negli anni Trenta, sbaragliati negli anni Quaranta, indeboliti dalla fede cieca e incapaci di recuperare le forze insieme con la vista, vaghiamo in solitudine. È difficile metterci in- sieme. Guardandoci l’un l’altro, come in uno specchio, ci colpisce la nostra bruttezza. Ma volevamo il meglio266.