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CAPITOLO 2: LE VARIE FASI DELLA PROCEDURA FALLIMENTARE

2.12 La chiusura della procedura

A differenza della revoca, che si verifica nel caso in cui si accerti che il fallimento è stato dichiarato in assenza dei presupposti richiesti dalla legge, la chiusura del fallimento si ricollega alla circostanza che non vi è più ragione per tenere aperta una procedura che abbia già integralmente svolto la sua funzione o non risulti più in grado di farlo. Non costituisce quindi ipotesi di chiusura la

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morte del fallito, perché in questo caso la funzione del fallimento non si è esaurita, sussistendo pur sempre un patrimonio da liquidare per soddisfare i creditori, infatti la procedura è destinata a proseguire nei confronti degli eredi o del curatore dell’eredità giacente. La individuazione di un rappresentante degli eredi è essenziale per la prosecuzione della procedura, infatti, se questi non è nominato entro quindici giorni dalla morte del fallito vi provvede il giudice delegato. Tuttavia, la morte del fallito non comporta la confusione dei patrimoni e l’attrazione del patrimonio degli eredi nell’ambito della procedura, stante la già avvenuta separazione del patrimonio fallimentare. Il fallimento si chiude, da un lato, nel caso in cui il passivo risulti completamente soddisfatto all’esito, a seconda dei casi, della ristrutturazione dei debiti conseguente l’omologazione del concordato fallimentare; del pagamento integrale o comunque della estinzione dei crediti, tanto concorsuali quanto prededucibili, nonché delle spese, avvenuta prima della ripartizione finale, e dunque in sede di ripartizioni parziali ovvero attraverso altri mezzi (pagamenti di terzi, rinunce).Dall’altro lato, il fallimento si chiude quando tale soddisfazione risulti impossibile, come avviene nelle ipotesi di: mancata presentazione di domande tempestive di ammissione al passivo, sempre che non vi siano creditori da soddisfare in prededuzione; ripartizione finale dell’attivo tra i creditori, e ciò quand’anche taluni degli accantonamenti in precedenza eseguiti non possano ancora essere distribuiti; insufficienza dell’attivo a soddisfare, anche solo parzialmente, i creditori prededucibili e concorsuali e a pagare le spese. Peraltro, nel caso in cui l’attivo, pur potendo soddisfare i titolari di crediti prededucibili e le spese di procedura, non consenta presumibilmente di soddisfare nemmeno in parte i creditori concorsuali che hanno chiesto l’ammissione al passivo, il fallimento non si chiude ma il tribunale su istanza del curatore, acquisito il parere del comitato dei creditori, sentito il fallito, potrà disporre il non luogo a procedere di accertamento dei crediti concorsuali. La chiusura del fallimento è pronunciata dal tribunale con decreto motivato, su istanza del curatore o del fallito ma anche d’ufficio, a differenza della dichiarazione di fallimento, nei casi previsti dalla legge: nel caso in cui l’attivo sia risultato insufficiente prima ancora della approvazione del programma

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di liquidazione, il tribunale può provvedere solo dopo aver sentito il comitato dei creditori e il fallito.

Il decreto di chiusura del fallimento deve contenere le disposizioni esecutive volte ad attuare gli effetti della decisione, analogamente a quanto accade a proposito della revoca del fallimento. La previsione ha un contenuto indeterminato e demanda al tribunale la definizione degli aspetti conclusivi dell’attività di gestione del patrimonio del fallito: modalità di restituzione di eventuali beni residui al fallito (mobili e denaro); il pagamento dei crediti prededucibili; ecc. Il decreto deve inoltre essere pubblicato con le medesime forme previste per la sentenza dichiarativa di fallimento. Nei confronti del decreto di chiusura del fallimento, può essere opposto reclamo alla corte d’appello, che provvede in camera di consiglio, ai sensi dell’art.26. Contro il decreto della corte d’appello che decide sul reclamo può essere proposto ricorso in cassazione nel termine perentorio di trenta giorni decorrenti dalla notificazione o dalla comunicazione del provvedimento per il curatore, il fallito, il comitato dei creditori, per chi abbia proposto il reclamo o sia intervenuto nel procedimento; dalla pubblicazione del provvedimento per tutti gli altri interessati.

Il decreto di chiusura acquista efficacia solo quando è decorso il termine per il reclamo o questo è stato definitivamente rigettato. La chiusura della procedura comporta la cessazione degli effetti sul patrimonio del fallito e delle conseguenti incapacità personali, nonché la decadenza degli organi preposti al fallimento; i creditori riacquistano il libero esercizio delle azioni verso il debitore per la parte non soddisfatta dei loro crediti per il capital e interessi, salva l’ammissione del fallito al beneficio della esdebitazione e , le azioni derivanti dal fallimento, non possono essere proseguite.

Una specifica disciplina è prevista dall’art 118, comma 2, per la ipotesi di chiusura del fallimento di società. La legge prescrive al curatore di chiedere la cancellazione della società dal registro delle imprese nelle ipotesi in cui la chiusura sia stata determinata dalla ripartizione finale dell’attivo o dalla sua insufficienza a pagare, almeno, in parte, i creditori e le spese: una regola questa,

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che si applica a tutte le società, sebbene solo quelle di persone commerciali il fallimento costituisca una causa autonoma di scioglimento. In secondo luogo deve ricordarsi come la chiusura della procedura nei confronti della società nei casi previsti dall’art 118, comma 1 ( cioè nei casi di mancata tempestiva domanda di ammissione al passivo o di integrale soddisfacimento dei creditori) determina, con un meccanismo automatico analogo a quello che si ha in sede di apertura, quella delle procedure relative ai suoi soci illimitatamente responsabili, a meno che nei confronti del socio non sia stata aperta una procedura in qualità di imprenditore individuale.