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CAPITOLO 2: LE VARIE FASI DELLA PROCEDURA FALLIMENTARE

2.9 Gli effetti processuali

Relativamente agli effetti sui giudizi che pendono alla data della dichiarazione di fallimento, la legge dispone, in via generale, che l’apertura del fallimento determina l’interruzione del processo, il quale potrà essere riassunto su iniziativa

11Abriani, Calvosa, Ferri jr, Giannelli, “Diritto fallimentare, manuale breve”, Giuffrè Editore,

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del curatore o della controparte: l’interruzione avviene automaticamente senza che l’evento interruttivo debba essere dichiarato in udienza dal difensore del fallito. Non possono, inoltre, proseguire le azioni esecutive o cautelari sui beni compresi nel fallimento, ancorché per crediti maturati nel corso dello stesso, che risultino già promosse al momento della sua dichiarazione, fatte salve le ipotesi espressamente stabilite dalla legge, come ad esempio, quella prevista dall’art. 41 del T.U.B.

Tuttavia, se sono presenti procedure esecutive individuali, salvo deroghe previste dall’art. 51, il curatore può subentrare al creditore che le ha promosse nel rispetto delle regole dettate dal codice di procedura civile; in alternativa, il curatore può decidere che la vendita coattiva avvenga in sede fallimentare ed allora l’esecuzione individuale sarà dichiarata improcedibile su istanza del curatore. Se l’improcedibilità delle azioni esecutive si comprende alla luce della neutralizzazione delle prerogative dei rimedi creditori, l’effetto processuale della interruzione dei giudizi in corso si ricollega piuttosto alla circostanza che il fallito perde la capacità processuale e sarà sostituito dal curatore in tutti i giudizi attivi e passivi, da promuovere o già iniziati, relativi a rapporti di diritto patrimoniale compresi nel fallimento; ciò che è conseguenza dello

spossessamento. Va in ogni modo precisato che anche nei giudizi aventi carattere

patrimoniale il fallito può conservare un interessa alla difesa se dalla questione possa dipendere una sua responsabilità penale per fatti di bancarotta. In questo caso, la legge individua un punto di equilibrio, riconoscendo al curatore la legittimazione di stare in giudizio e consentendo però al fallito, a tutela del suo diritto alla difesa, di intervenire nel giudizio, ma non di coltivarlo o gestirlo in proprio. Quanto invece ai procedimenti arbitrali, la legge ne permette la prosecuzione solo qualora la clausola compromissoria in forza della quale sono stati promossi sia contenuta in un contratto che continua nonostante l’avvenuta dichiarazione di fallimento di una delle parti, nel qual caso il curatore subentrerà al fallito nel giudizio previa autorizzazione del giudice delegato, non può invece essere proseguito il procedimento arbitrale promosso sulla base di una clausola di un contratto scioltosi per effetto del fallimento. Le ragioni di tale

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differenziazione sono di carattere sostanziale e non processuale, e discendono dalla considerazione che la clausola arbitrale segue le sorti dell’intero regolamento negoziale: il che allora permette di estendere tale soluzione anche ai giudizi arbitrali ancora da promuovere, riconoscendo al curatore, debitamente autorizzato dal giudice delegato, la legittimazione ad attivarli, avvalendosi della clausola compromissoria, solo qualora essa sia contenuta in un contratto destinato a continuare anche dopo la dichiarazione di fallimento. Tali conclusioni devono riferirsi, oltre che all’arbitrato rituale, anche ed a maggior ragione all’arbitrato irrituale: la natura negoziale di quest’ultimo induce soltanto a precisare che il curatore dovrà essere autorizzato ad avvalersene non già dal giudice delegato, ma dal comitato dei creditori ai sensi dell’art. 35.

La sentenza dichiarativa, poi, incide sensibilmente sui giudizi promossi al fine di far valere azioni derivanti dal fallimento e che cioè si pongono, per così dire, all’esterno della procedura fallimentare: essi infatti rientrano, a prescindere dal loro valore, nella competenza del tribunale che ha dichiarato il fallimento, e dall’altro si svolgono secondo le regole di cognizione ordinaria e non secondo il procedimento camerale disciplinato dall’art. 26. Questa disciplina riguarda i giudizi relativi alle azioni che derivano dal fallimento, o meglio fondate su di un titolo previsto da norme che operano solo a seguito della apertura della relativa procedura (es. azioni revocatorie fallimentari) o, ancora , le azioni nelle quali la disciplina del rapporto sostanziale, in conseguenza del fallimento, subisce una deviazione dallo schema tipico e che vanno decise in base a norme o principi del concorso ( es. le controversie sul diritto del curatore di provare lo scioglimento di un contratto pendente), e che proprio per ciò non possono essere proseguite dopo la chiusura del fallimento e sempre che si tratti di azioni promosse dagli organi del fallimento nei confronti di terzi, e non viceversa: i terzi infatti, non possono far valere le proprie pretese ( personali o reali, su beni mobili o immobili) nei confronti del fallimento instaurando autonomi giudizi estranei alla procedura, del tipo di quelli in esame, ma solo nell’ambito di uno specifico procedimento, quello regolato dagli art, 92 e ss, che si svolge all’interno della stessa procedura.

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fallimento non possono dirsi da questo derivanti e quindi non sono attratti alla competenza del tribunale fallimentare e continuano con la sostituzione processuale del curatore. Ugualmente non possono ritenersi derivanti dal

fallimento le azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori e sindaci delle società fallite, la cui disciplina non è modificata dall’apertura del concorso ( fatta salva la legittimazione esclusiva del curatore) rispetto a quella applicabile alle società in bonis. Le regole sopra descritte si applicano anche ai giudizi di lavoro con la conseguenza che: nell’accertamento dei crediti di lavoro nei confronti dell’imprenditore fallito è assoggettato alla disciplina dell’accertamento di crediti ai fini del concorso; le controversie nelle quali si discuta sull’effetto del fallimento sul rapporto di lavoro sono attratte nella competenza del tribunale fallimentare; così anche le controversie promosse dai lavoratori a seguito dell’esercizio provvisorio dell’impresa; tutte le altre controversie continuano a rimanere di competenza del giudice del lavoro. Quanto alla competenza, appare sufficiente osservare che si tratta di una competenza funzionale, e perciò inderogabile, il cui difetto risulta rilevabile d’ufficio: essa del resto riguarda il tribunale complessivamente considerato e, non anche la singola sezione che ha dichiarato il fallimento12.