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”Io ti colmerò di benedizioni“

(Gn 22, 17)

Catechesi biblico-teologico-artistica

Abramo nell’atto di sacrificare Isacco, XIX sec.

olio su tela

Cattedrale Santa Maria Assunta, Andria.

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«O

ra so che tu temi Dio» (Gen 22,12): sono queste le parole che l’angelo del Signore rivolge ad Abramo, dopo aver messo a dura prova la sua fede. Nella nascita di Isacco, il figlio del sorriso di Dio, Abramo costata che Dio non gli ha mentito. Gioisce, mentre os-serva che Isacco cresce e si irrobustisce. Immagina di aver risolto i problemi personali e di poter vivere tranquillo. Dio invece sorprende ancora il patriarca: «Abramo, Abramo!». Rispose: «Eccomi!». Riprese:

«Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco, va’ nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò»

(Gn 22, 1-13). Abramo non ne comprende la ragione. Dilaniato in-teriormente, non si ribella, non si lamenta, nè si dispera. Nel totale silenzio continua a credere in Dio, quale protettore e diffusore della vita. Prepara l’occorrente per partire ed eseguire l’ordine ricevuto.

Prima dell’alba si alza, spacca la legna per l’olocausto, sella l’asino e chiede a due giovani servi, come anche al figlio, di accompagnar-lo. Cammina con loro per tre giorni (rievocazione del terzo giorno) e giunge ai piedi del monte Moria, dove i cananei offrono agli dèi i loro sacrifici. Avvicinatosi alla zona sacra, che Dio gli ha indicato per immolare Isacco, l’unico garante della discendenza, Abramo dispo-ne che i servi si fermino, mentre lui e il figlio unigenito continuano a salire da soli, portando la legna ed il necessario per il sacrificio. Isac-co, ragazzo intelligente, avverte l’inquietudine del padre. Intuita la causa del suo tomento interiore, ne attende una conferma: «Padre mio, ecco qui il fuoco e la legna, ma dov’è l›agnello per l’olocausto?»

(Gn 22,7). Abramo evita di assillare il figlio e gli dà una risposta evasiva, che diventerà profetica: «Dio stesso provvederà l’agnello per l’olocausto» (Gn 22,8). Vorrebbe tornare indietro o cambiare direzione. Tutto si ferma in quell’ora decisiva.

L’atto del sacrificio interrotto dalla voce dell’angelo è la scena che l’artista ha ritratto nella tela ottocentesca, collocata solo nel 2014

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sulla parete absidale sinistra del presbiterio, immediatamente so-pra il coro ligneo, della Cattedrale S. Maria Assunta di Andria. Di rimpetto ad un’altra tela raffigurante il sommo sacerdote Melchise-dec in atto di compiere il sacrificio del pane e del vino, le due scene assumono una connotazione eucaristica. Originariamente, entram-bi i quadri, adornavano la cappella ottocentesca del SS. Sacramen-to, nella navata destra della Cattedrale.

L’angelo disceso sulle nubi, con un drappo dorato, simbolo di eternità, è raffigurato nell’atto di trattenere tempestivamente la mano destra del patriarca, intento a sferrare il colpo mortale sull’in-nocente Isacco: con un dito indica il cielo, è il messaggero di Dio, con l’altro il sangue del sacrificio contenuto nel calice. La scena si svolge all’aperto, infatti è possibile notare la presenza di un vero e proprio paesaggio naturale alle spalle dei protagonisti: a sinistra un cespu-glio, al di sopra del quale appare l’angelo, ricorda quasi il roveto ar-dente dal quale Mosè udì la chiamata del Signore; a destra un alto e robusto albero, sembrerebbe una quercia, con le caratteristiche foglie lobate, riportandoci all’incontro di Abramo con la Trinità alle querce di Mamre.

Abramo ha appena ricevuto l’intimazione dell’angelo di Dio a fer-marsi, come sembra indicare il suo sguardo rivolto verso l’alto con stupore e gratitudine. Armato di fede per obbedire al comando, vie-ne disarmato dall’amore di un Dio, padre pure lui, che gli chiede di sacrificare il figlio. In realtà la Scrittura non descrive la reazione del patriarca, parlando invece di quella di Dio che, sorpreso dalla dispo-nibilità di Abramo a obbedire fino al tal punto, esclama: «perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio, il tuo unigenito, io ti colmerò di benedizioni» (Gn 22,16-17). Afferrato il coltello con pu-gno serrato, pronto a procedere, Abramo è vestito con un mantello

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rosso che simboleggia l’umanità da sacrificare, è a piedi nudi, ricor-dando il comando di Dio sull’Oreb in Es 3,5: “Mosè, Mosè”, rispon-de “Eccomi”, (anche qui abbiamo “Abramo, Abramo” che risponrispon-de

“Eccomi”), “togliti i calzari dai piedi, perchè il luogo sul quale stai è suolo sacro”. Da sempre, l’altura è il luogo di rivelazione divina (Sinai, Moria, Tabor) infatti, in basso a sinistra, sono ammucchiati sul suolo due drappi, uno blu indicante la celestiale trascendenza, l’altro do-rato simboleggiante la luce divina. L’espressione decisa di Abramo può far capire che è pronto a tutto pur di eseguire la volontà del Si-gnore, mettendo la fede al di sopra di tutti. L’artista ha trasferito sul volto del patriarca la reazione di Dio, forse pensando al parallelismo suggerito da San Paolo tra l’eterno Padre che risparmiò il figlio di Abramo ma non il proprio (Rm 8,32). In primo piano, sulla destra, Isacco si presenta con le braccia incrociate, infatti nella tradizione ebraica questo episodio è ricordato come aqedah, la legatura di Isacco, nella sua nudità è cinto con un lenzuolo bianco che rievoca Gesù sulla croce, appare genuflesso su un altare costruito in pie-tra, rammentando sia la stele in pietra eretta da Abramo in segno di preghiera, sia la pietra sepolcrale sulla quale giacque esanime il Messia. Isacco è posto sulla pira di legna ordinatamente dispo-sta, destinata alla propria immolazione, di cui si era caricato lun-go il cammino, prefigurando Cristo oberatosi del legno della croce.

Padre e figlio sono coinvolti nel medesimo vortice, ma se il dramma del genitore si intuisce dall’espressione smarrita, il figlio nella sua nudità appare inerme e addormentato. L’artista, con tocco genia-le e delicato, sovrappone a Isacco la figura di Adamo inanimato al momento della creazione: quando Dio agisce, l’uomo dorme, avvolto dal torpore. Dio pone un limite alla conoscenza umana e questo per-mette la totale libertà della sua azione. Dunque Isacco è inconsape-vole e contemporaneamente il centro di quella prova che il Signore

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Dio chiede a suo padre. In secondo piano, sulla sinistra, impigliato nel cespuglio, compare l’ariete da sacrificare al posto del figlio. Un particolare rilevante è la disposizione piramidale dei protagonisti al cui vertice vi è l’angelo, sullo stesso lato si trovano Abramo (l’amico di Dio) pronto a rispettare il volere divino e suo figlio Isacco (il sorriso di Dio) con un’espressione impaurita, fortemente umana, l’immola-tore e l’immolato, per poi chiudersi, dal lato opposto, con l’ariete, passando per il calice zampillante di sangue, simbolo del sacrificio sostitutivo gradito a Dio.

Anche se il sacrificio dei primogeniti non è affatto così astruso nelle società di quel tempo, la sostituzione del figlio con il capro, apre alla comprensione di un Dio che non è più il padre che divora i propri figli, come nelle visioni mitologiche, ma colui che apre una storia, che offre un futuro; il Dio della relazione che, riprendendo il messaggio dell’alleanza con Noè, rassicura l’uomo che non ha nulla da temere da lui.

Come può Dio chiedere ad Abramo di offrire in sacrificio la vita del figlio Isacco ed essere considerato capostipite dei “credenti” per aver accettato di programmare un omicidio? A questa logica si può collegare il sacrificio redentore della croce di Cristo accettato in ob-bedienza al Padre?

Gesù Cristo è il nuovo Isacco. San Paolo nella seconda lettura (Rm 8,31-34), proposta dalla liturgia per la II domenica di Quaresi-ma, rilegge nel Cristo, figlio immolato, il vero senso di questo brano:

Dio non prende, ma dona se stesso.

Allora anche la salita sul Tabor (Mc 9,2-10) rievoca in qualche modo quella sul monte Moria. È solo un’anticipazione, ma lo sguardo è già orientato verso Gerusalemme, dove Cristo donerà definitiva-mente se stesso fino alla fine, proprio a pochi passi da quel luogo

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dove Abramo ha riavuto in dono il figlio, indicato dalla tradizione sulla spianata del Tempio. Il messaggio della liturgia più che sulla fede di Abramo, o nostra, è allora incentrato sul dono di Dio.

Il rifiuto di quel padre di pensare alla fede come a qualcosa di mortifero per la nostra vita non è quindi dovuto solo alla tiepidezza spirituale che viene a volte rimproverata al cristiano medio, ma è ben fondato sulla condiscendenza di Dio manifestata in Cristo. Colui che, caricato dei peccati del mondo, vive l’obbedienza al Padre come l’espressione più alta della libertà. E noi, figli suoi, siamo chiamati alla sua sequela.

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“Non parlate a nessuno