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CAPITOLO 4 Il welfare generativo per la grave marginalità:

4.1. Progetti che generano domande (e ricercano risposte)

4.1.1. Come passare da un welfare redistributivo a un welfare moltiplicativo?

Nel primo capitolo, paragrafo 1.3., viene esplicata la proposta della Fondazione Zancan nel tentativo di rispondere alla domanda posta come titolo di questo paragrafo. La soluzione che essi trovano si chiama Welfare Generativo ed è racchiusa all’interno di 5 fasi: raccogliere, redistribuire, rendere, rigenerare e responsabilizzare. R1 e R2 caratterizzano i welfare state che si adoperavano a raccogliere le risorse necessarie e ripartirle secondo una scala di valori e diritti individuali, ma è stato ampiamento

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dimostrato (Fondazione Zancan 2012, 2014, 2015, 2017) come questo modello, innovativo nel 1800 ai tempi di Otto Von Bismarck, attualmente sia «vecchio, costoso e

statico […] incapace di attivare capacità, è rendita passiva, privatizzata, basata su diritti individuali e senza rendimento sociale» (Fondazione Zancan 2014, p. 140). A questa critica

la Fonazione aggiunge come sia necessario puntare ad un nuovo welfare dove vengano coinvolti in prima persona gli “aiutati”, valorizzando le loro capacità di azione verso il bene comune. Non è possibile, sia da un punto di vista tecnico che etico, aiutare le persone senza di loro (Fonazione Zancan 2014, p,149), distribuendo soldi senza tener conto del corrispettivo sociale «mortificando l’azione professionale e riducendola a pratica

erogativa» (Fondazione Zancan 2014, p.150). L’azione professionale, invece, deve puntare

a generare aiuto, stimolare le persone a ri-capacitarsi della propria autonomia per diventare cittadini attivi per la comunità. La sfida, quindi, per passare da costo investimento è: rigenerare, rendere e responsabilizzare le risorse per dare di più, creare un’eccedenza (Vecchiato 2016a) che verrà rimessa in circolo per aiutare altre persone. Come abbiamo già visto, si tratta di passare da un welfare a dominanza istituzionale che raccoglie e redistribuisce nella forma di [Wr=f (r1, r2)] a una soluzione che valorizza le persone e le loro risorse nella forma [Wf=f (r1, r2, r3, r4, r5)] si tratterebbe, quindi di misurare l’esito leggendolo come un risultato dell’azione professionale e di «rigenerare le

risorse (r3), facendole rendere (r4), responsabilizzando le persone (r5), mettendo a dividendo solidale il corrispettivo sociale conseguito e destinabile a ulteriori investimenti»

(Fondazione Zancan 2014, p.162).

Il progetto degli Hope può essere incorniciato all’interno di questa chiave di lettura, passando per le 5R identificate dalla Fondazione Zancan per poter essere “generativi”. Attraverso la partecipazione degli utenti ai stessi servizi si è cercato di raccogliere le risorse, redistribuirle, ma, allo stesso tempo, rigenerarle (r3) chiedendo loro (sulla base del progetto delucidato nel capitolo 3) di restituire parte dell’aiuto ricevuto in azioni verso gli altri, gestendo due dormitori per persone senza dimora, oltre che alle attività di mediazione. Grazie a questo progetto le risorse hanno cominciato anche a rendere (r4) sia all’Hope in termini di soddisfazione personale, realizzazione del sé, emancipazione e riscatto sociale, sia verso le persone che hanno lavorato con loro (dagli ospiti delle strutture agli assistenti sociali) che ne hanno beneficiato in termini di apprendimento e capacità relazionali. Infine, la rendita avviene anche da un punto di vista economico. Infatti in questo caso, i soldi non vengono semplicemente distribuiti, ma tornano indietro

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sotto forma di valore aggiunto, di aiuto concreto per i servizi stessi che possono contare su un’altra figura, ormai diventata importante, oltre che all’operatore e assistente sociale: la figura dell’Hope. Questo progetto porta, come conseguenza, alla responsabilizzazione (r5) degli utenti verso gli altri, distaccandosi dalla prigione di utente=bisognoso, ma cominciando a vedersi (e ad essere considerato) come utente=risorsa, risorse non da sfruttare, ma da valorizzare.

Un aspetto importante, che rischia di diventare un punto di criticità per modelli di progetti generativi, è la possibilità di valutarne gli effetti. Gli esiti ti tali sperimentazioni sono difficilmente racchiudibili in criteri quantitativi di verifica, considerando che, spesso, i risultati più salienti si rispecchiano a lungo termine e in termini qualitativi. Si tratta di riuscire a misurare, oltre che il valore economico, anche quello sociale, o meglio l’impatto sociale che un determinato progetto ha sulla comunità. Infatti, quando parliamo di esiti si fa riferimento ai benefici diretti verso i destinatari, in cambio l’impatto sociale è beneficio che raggiunge la comunità, oltre che gli stessi destinatari (Vecchiato 2016b). «L’impatto

sociale è beneficio per la comunità conseguito con investimenti capaci di trasformare le azioni professionali, imprenditoriali ed economiche in una filiera generativa di valore sociale» (Vecchiato 2016b, p.8). Un gruppo di ricerca della Fondazione Zancan (2013)

cerca continuamente di affinare le tecniche di valutazione, così da poter testimoniare i benefici sociali diretti e indiretti del WG. Ha proposto, così, delle metriche che cercano di rappresentare gli esiti e l’impatto sociale nel modo più affidabile possibile. Uno strumento che si basa su tre fasi a generatività crescente: α, β, γ. La fase di tipo alfa misura l’esito diretto sui destinatari attraverso le buone prassi di erogazione, definito anche “l’esito del curare”. Si tratta di benefici di tipo prestazionale erogati sulla base di pratiche raccomandate da procedure approvate dalla comunità professionale, ovvero si tratta anche di assistenza standardizzata (Fondazione Emanuela Zancan 2014). La seconda fase di tipo beta riconosce e ottimizza l’esito aggiuntivo dato dalla personalizzazione dell’azione, evitando così la standardizzazione degli aiuti. Gli interventi vengono misurati sulla condizione della persona e sulle sue potenzialità. Infine, la fase gamma, rileva il valore aggiunto conseguito con il concorso al risultato dei vari soggetti coinvolti, avviene quando l'incontro delle responsabilità (tra operatori, aiutati e familiari) permette di fare la differenza, di rafforzare gli esiti, «di generare valore personale e sociale» (Vecchiato 2016b, welfaregenerativo.it). Questa fase è possibile grazie al coinvolgimento delle persone nel loro stesso percorso di aiuto, ovvero tramite la gestione innovativa del

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potenziale delle persone ed è chiamata anche esito generativo (Fondazione Emanuela Zancan 2014). In questo modo sarà possibile valutare gli esiti sia a livello personale che della comunità, associando le misure di esito a quelle di impatto sociale rapportandole con il costo sorretto.

Sia il WG che l’innovazione sociale, vanno analizzate per la loro capacità di creare impatto sociale, ma il rischio è che ci si soffermi solo sui dati quantitativi che non potrebbero misurare, invece, il valore aggiunto dato dalle relazioni sociali all’interno di un progetto innovativo. A livello europeo, le sfide per la misurazione dell’impatto sociale sono state definite dal GECES nel 2014, chiamate CESE nel 2013 (Venturi, Zandonai 2016), ovvero le Linee guida per la misurazione dell’impatto sociale, rivolto principalmente alle imprese sociali. Tali linee dovrebbero trovare un equilibrio tra dati quantitativi e qualitativi «nella

consapevolezza che la narrazione è centrale per misurare il successo» (Venturi, Zandonai

2016, p.30). Le linee guida possono essere utilizzate, dalle organizzazioni che vogliono intraprendere un percorso di tipo innovativo, come un vademecum per misurare l’impatto sociale del proprio progetto. Perché è importante valutare? Per vari motivi, tra cui: giustificare e testimoniare come l’utilizzo di risorse generi ulteriore aiuto e che, quindi, valga la pena investire in quel determinato piano di lavoro, ma, fondamentale, per poterlo diffondere. Dar una dimostrazione di come un progetto stia riuscendo a creare valore aggiunto, moltiplicando le risorse e riscattando persone emarginate socialmente, può scaturire la nascita di progetti simili e, quindi, il cambiamento. Dalla sua nascita, il progetto Hope, cerca di dedicare dei momenti di ritrovo dove “ricapitolare” ciò che si ha vissuto e fatto fino a quel momento. Sono stati organizzati quattro Hope Day dove partecipano tanto gli Hope, quanto operatori, assistenti sociali e responsabili, ed è stata affrontata anche una supervisione in un momento di cambiamento/difficoltà per il gruppo di regia. Tali momenti possono aiutare a fare il punto della situazione e comprendere come andare avanti, ma forse manca (mancava al momento della raccolta delle interviste) una vera e propria valutazione attenta degli effetti che sta avendo il progetto su tutti i coinvolti. Per quanto le valutazioni siano difficili e rischino di essere fuorvianti, il tentativo di capire quale sia la misura del valore aggiunto di questo progetto traducendolo in termini accademici potrebbe aiutarne la diffusione, oltre che consolidare il progetto permettendogli di crescere.

Nelle sei fasi dell’Innovazione Sociale (Murray et al 2010), descritte nel capitolo 1 paragrafo 1.2.2. si è analizzato come un progetto nasca da delle “scintille” che fanno

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scaturire l’idea innovativa sulla quale potrà nascere un progetto. Ma queste ispirazioni nascono dal contagio scaturito da altri progetti, che sono diventati “seduttivi” (Andrighettoni et al 2014 p. 54), dove per seduzione intendiamo la sua etimologia latina, ovvero seductio – onis: condurre via, ma dove? Non in un’accezione negativa, ma condurre verso una nuova strada, come motore del processo di cambiamento (cambiamento inteso, come ci insegna Bateson (1990), al livello 2, ovvero deutero apprendimento). Si è visto nel capitolo 3 paragrafo 3.6.3. come i partecipanti al progetto Hope siano scettici nel pensare di poter diffondere questo tipo di esperienza, perché essa è compresa solo tramite l’esperienza diretta.

Responsabile 2: Per capirlo dovresti… viverla! (L’esperienza) Devi vivere il problema. È

inevitabile, certe cose devi viverle: è come diventare mamma, diventare papà, te la possono raccontare quanto ti pare, dopo lo devi vivere. Ma questo non vuol dire che tu non possa trovare il modo migliore per raccontarlo o per farlo vivere.

Il libro di Murray e colleghi, ci mostra, però come tale diffusione possa avvenire, simile a come avviene la diffusione di un reagente chimico liquido, attraverso una fissione, quindi, un contagio (Murray et al 2010). «Noi ci riferiamo ad esso come “diffusione generativa”,

“generativa” perché l’adozione di una innovazione prenderà diverse forme invece di replicare un modello dato, “diffusione”, perché si espande, a volte in modo caotico, lungo molteplici sentieri» (Murray et al 2010, p. 81). Non si tratta di ricopiare l’idea, ma bensì di

emularla, prendere spunto, ma soprattutto, trarne l’entusiasmo che generano le innovazioni. Per questo motivo credo sia importante che vi sia almeno il tentativo di diffondere il progetto Hope, perché possa avvenire quel contagio che possa dar vita ad ulteriori sperimentazioni innovative.