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CAPITOLO 3 La ricerca: analisi di un’esperienza di welfare generativo

3.6. Ostacoli e criticità emerse sul Fareassieme

3.6.3. Diffusione e dimensione della partecipazione

La questione della partecipazione dei cittadini ai processi politici e sociali è stata ampiamente dibattuta29 e non mi soffermerò su un approfondimento di tale termine. È

importante, però, sottolineare come, spesso, quando si parla di partecipazione alle attività politiche ci si riferisce ad una cerchia ristretta di cittadini, ovvero coloro che vengono considerati “attivi”, definiti come persone consapevoli e organizzate che possono concorrere e impegnarsi al bene comune (Magnaghi 2006, in Bobbio e Pomatto 2007), o ancora la così detta “cittadinanza competente” (Biocca 2005, in Bobbio e Pomatto 2007), ovvero coloro che

29 Un approfondimento interessante può essere fatto con la scala della partecipazione descritta da Sherry Arnstein nel

1969, che proponeva 8 livelli di partecipazione: dalla manipolazione (definita non partecipazione) al controllo dei cittadini (partecipazione attiva).

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hanno raggiunto un livello di istruzione elevato, si informano, leggono i giornali e hanno un’inclinazione ad occuparsi e interessarsi dei problemi inerenti la propria comunità. Allo stesso tempo, però, una posizione contraria sostiene come il coinvolgimento dovrebbe sostenere l’obiettivo di arrivare ai soggetti più deboli ed emarginati (Bobbio e Pomatto 2007), sebbene questo risulti più complicato. L’obiettivo del progetto Fareassieme è stato immediatamente quest’ultimo, abbandonare la visione per cui i professionisti o cittadini attivi debbano rappresentare i soggetti definiti più deboli, e cercare di coinvolgere quest’ultimi nel concorrere al bene comune. Anche all’interno di questa visione, però, emergono alcune criticità e punti di domanda su quali siano i soggetti da coinvolgere. Se è vero che la partecipazione dovrebbe puntare all’abbassamento della disuguaglianza dell’accesso ai servizi e alla promozione delle pari opportunità, una delle domande/criticità che è emersa dalla ricerca è stata: “è reale partecipazione?” (Dall’intervista a Responsabile 1). Altre due domande che ho posto agli intervistati (che sapevo già essere delle critiche che spesso erano mossa loro dall’esterno) sono state sulla dimensione del progetto, quindi: può il Fareassieme rivolgersi a tutti? E, inoltre, come si diffonde questo modello di partecipazione?

La risposte mi sono state date principalmente da operatori e responsabili, mentre gli Hope hanno identificato il problema all’interno del gruppo. Molti hanno riconosciuto come non sempre le persone senza dimora possano accettare il loro modo di operare, alcuni, abituati probabilmente anche dall’assistenza classica, si sentono a disagio e ricercano la gestione canonica dei servizi, con la presenza degli operatori, ai quali ripongono maggior fiducia.

Hope 4: Non tutti possono abituarsi perché ci sono delle persone che a loro piacciono le

regole, sono abituatati alle regole perché hanno sempre frequentano le strutture e venire da noi e capire che non ci sono regole... all’inizio è difficile, ma poi si abituano! Il problema è che noi continuiamo a cambiare le persone... quando arrivano persone nuove noi ci dimentichiamo che loro non sono la da due anni, da quando abbiamo cominciato, quindi dobbiamo rispiegare e ri-educare su come funziona la casa e questo non riusciamo a farlo perché pensiamo che sanno già tutto, come funziona! È uno sbaglio... sarebbe una cosa da migliorare! […] All’inizio ci sono delle persone che non ci accettano… c’erano delle persone, soprattutto italiane, non ci volevano... dicevano: “voi extracomunitari venite qua volete comandare”, abbiamo sentito di tutto!

Operatore 6: Uno di loro (degli Hope) mi ha detto: “io non vado bene per questo lavoro

121 meritano questo... io non riesco a venire a parlare di me! Io verrei a rivendicare i servizi, non riuscirei a parlare solo di me!”

Quello che spesso emerge è che non è giusto coinvolgere una persona che non vuole essere coinvolta. Per questo motivo la partecipazione ai servizi viene vista come un processo, al quale si accede principalmente lavorando su se stessi, per non rischiare, come l’Hope descritto dall’operatore 6, di essere rivendicativo o di partecipare al progetto cercando solo un proprio tornaconto.

Assistente Sociale 2: Non è che tutti in questa condizione (di senza dimora) ce li

immaginiamo nel gruppo degli Hope. Io credo che le caratteristiche sono: il rispetto, ovvero se nel tempo hanno mantenuto una relazione rispettosa verso se stessi e gli altri e verso di noi che magari li abbiamo accompagnati per un pezzettino del loro percorso… anche vederli semplicemente nella relazione con gli altri, non solo in termini di rispetto, ma anche osservarli in situazioni e dinamiche diverse... sul corridoio piuttosto che al recapito, ti dà l’idea se questa persona ha le caratteristiche per potersi avvicinare, al di là delle proprie fatiche personali, con positività ad un’altra persona… la motivazione, se sono motivati a cambiare prima se stessi e il proprio percorso di vita e dopo anche gli altri, ma soprattutto partono da loro stessi e anche la disponibilità di mettersi in gioco anche gratuitamente perché non tutti hanno questa pazienza di mettersi in gioco con dei tempi che alle volte sono anche lunghi, dove ti metti in gioco non solo in termini di tempo libero, ma anche in termini di persone, di storia di vita tua, di caratteristiche personali…

Operatore 2: Ma l’idea del Fareassieme può essere un riversarsi a cascata! Le modalità che

abbiamo sono modalità di coinvolgimento, è chiaro che innanzitutto è un progetto che c’è da poco e quindi in qualche modo questo tipo di partecipazione ancora deve crescere e in questo senso non è per pochi perché comunque qualche livello di partecipazione, anche se non è lo stesso degli Hope, c’è (parla di altri servizi)… chiaro che il progetto degli Hope è per pochi, se tu consideri il numero dei senza dimora a Trento saranno un migliaio... ecco, su tutto questo le 12 persone che ora abbiamo in gruppo sono sicuramente poche, ma rispetto al gestire gli stessi servizi con operatori a dei costi superiori mi vien da dire meglio poco che niente! Proprio perché c’è un livello di partecipazione a ricaduta e costringe i servizi ad interrogarsi sul come coinvolgere gli ospiti all’interno dei proprio servizi!

Responsabile 1: E se non lo facessimo neanche per questi dieci? Io penso che tutti possono

criticare, ma che sia uno, dieci, cento... noi stiamo facendo qualcosa. Madre Teresa diceva che ogni goccia ha il suo valore, il poco alle volte è figlio che porterà avanti un risultato grande. Io non mi preoccupo... è vero, stiamo lavorando per dieci persone, ma dobbiamo

122 vedere se il rapporto investimento e risorse a disposizione è tale che… se metto troppi soldi non è sostenibile, ma questi progetti costano meno di molti altri, quindi una goccia dopo l’atra, un Hope dopo l’altro, una situazione dopo l’altra... è sempre meglio che niente!

Ciò che riprenderò nel successivo capitolo e che qui anticipo, è che, indipendentemente dal numero di persone che il progetto sta attualmente coinvolgendo, ciò che potrebbe risultare saliente per la sua diffusione è cercare di riconoscerne l’impatto sociale, che in questo caso, come spiegato, si riscontra nell’effetto a cascata che può avere sulle altre persone coinvolte nei dormitori, sulla spinta all’interrogarsi sui propri modelli di

governance delle organizzazioni, sul risparmio di risorse economiche, sulla reale

emancipazione anche se solo di poche persone (siamo solo all’inizio).

L’ultima criticità presa in esame, mi riguardava personalmente. Uno dei motivi per cui ho deciso di intraprendere questa tesi è far conoscere come sia possibile la creazione di un progetto generativo con persone senza dimora. Volevo dare testimonianza di questa esperienza. Spesso, però, mi sentivo rispondere che è troppo difficile da spiegare, che la si può capire solo vivendola. Per quanto mi possa ritrovare d’accordo, sono altrettanto convinta che sia necessario puntare anche sulla divulgazione e comunicazione di un progetto (come sottolineato dal quinto punto delle sei fasi dell’innovazione sociale, capitolo 1), soprattutto quando esso funziona.

Responsabile 2: Per capirlo dovresti… viverla! (L’esperienza) Devi vivere il problema. È

inevitabile, certe cose devi viverle: è come diventare mamma, diventare papà, te la possono raccontare quanto ti pare, dopo lo devi vivere. Ma questo non vuol dire che tu non possa trovare il modo migliore per raccontarlo o per farlo vivere. Per continuare la metafora: raccontare a qualcuno cosa vuol dire essere mamma o papà, tu lo puoi fare facendo la cronistoria della gravidanza e del parto minuto per minuto... oppure lo puoi fare facendo un racconto che trasmette delle emozioni, lo puoi fare attraverso un'esperienza teatrale piuttosto che musicale... allora bisogna trovare il modo migliore possibile per far passare quello che tu vivi.

Responsabile 3: Dovrebbe essere la bussola! Insomma cercare sempre un coinvolgimenti,

sia sul singolo caso, sia nei momenti di gruppo... la vedo come una cosa assolutamente centrale… Noi sicuramente abbiamo avuto l’influenza del CSM, ma la critica che un po’ faccio è di come questa cosa appartenga ancora un po’ ad una nicchia! Al nostro interno alcuni colleghi sono propensi e la capiscono, altri quasi la criticano!

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Operatore 6: Io la vedo espandersi, perché è una cosa di buon senso! Non necessita di

grandi strutture o cosa... Ecco, non nasce sulla carta, ma nasce da qualcuno... se qualcuno rimane contagiato! Ci vuole questa cosa qui, questo essere contagiati e avviene quando lo sperimenti.

Per un operatore o un assistente sociale, o ancora, maggiormente, per un responsabile di servizio, è più immediato notare certi tipi di complessità, come il rischio dell’irrigidimento dei confini o la difficoltà del dover rispondere alle critiche provenienti dall’esterno, mentre per un Hope sono più immediati i rischi inerenti la salvaguardia e benessere del gruppo stesso. Ciò che, personalmente, ho maggiormente percepito come una difficoltà (durante il periodo del mio tirocinio) è stata la paura di perdere quel entusiasmo e dinamicità iniziale, correndo il rischio di concentrarsi solo sulle cose da fare e non più sul vero cuore del Fareassieme: la relazione e il percorso/incontro con le persone. Tornado dopo quasi due anni a far visita agli Hope, ho percepito che, in parte, questo problema sembrava superato o, quanto meno, lo stavano affrontando. Il gruppo sembra aver trovato un proprio equilibrio e c’è una continua attenzione e cura per quelli che sono i valori e principi del Fareassieme. È un lavoro continuo, ridefinire continuamente i confini, cercare nuova linfa, allargare il gruppo con il rischio, anche, di perdere per un istante l’equilibrio trovato, crescere insieme. E per quanto alle volte gli stessi operatori si chiedano “per quanto durerà?” credo che, una volta che il cambiamento avviene, sia difficile tornare indietro, soprattutto avendo vissuto la possibilità concreta di poter fare welfare in un modo diverso, efficace e più dignitoso per tutti i coinvolti.

3.7. Conclusione

Riprendendo le domande di apertura di questo capitolo: cosa può comportare a livello professionale e personale? Come si opera all’interno di un progetto innovativo? La prima risposta può essere introdotta con l’affermazione che in questo progetto, spesso, il livello professionale e personale si mescolano tra loro e, con la giusta attenzione, può essere considerato come elemento positivo, invece che come criticità, come spesso si sostiene nei servizi sociali. Questa esperienza comporta un forte cambiamento tanto a livello professionale, nella relazione con gli utenti, quanto a livello personale, nel valorizzare la giusta vicinanza con le persone, invece che la giusta distanza. Riprendendo le parole

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dell’Operatore 1: «Per me il focus non è l’utente, il focus è me insieme a te, o me insieme

all’utente. Quindi è noi due e quindi nel focus ci sono anche io. Per me (bisogna) spostare questo maledetto centro dall'utente che è un falso centro. Siamo noi il centro, la relazione, le due persone che sono in relazione...». In queste parole possiamo ritrovare il forte

mutamento che può portare questo tipo di lavoro a livello professionale, ma anche personale, dove l’operatore sociale o l’assistente sociale, l’educatore, il responsabile… si concepisce in una relazione di cui anche lui ha bisogno e dove non può chiudersi dietro il ruolo professionale, ma deve (se sceglie questo percorso) provare a mettersi in gioco considerando l’utente una persona da cui apprendere e innescare uno scambio. Per quanto riguarda l’Hope, l’impatto che può avere nella sua vita il far parte di questo progetto è difficilmente misurabile, ma il riscatto sociale, la crescita personale, cominciare a raggiungere un’autonomia propria, sono tutti traguardi che si auspicano per le persone in situazione di grave marginalità, ma che spesso fanno fatica a raggiungere. Come sostiene Hope 3: «Per me diventare Hope mi ha dato la possibilità di non raccattare più le

cose per terra e piano piano riscattarmi un po’ della dignità che avevo perduto… risalire è dura […] ma intanto in tre anni hai fatto qualcosa e ti sei tirato fuori da… se in questi tre anni (di attività come Hope) ti sei fatto valere… forse Dio esiste anche per te!».

Come si opera all’interno di un progetto innovativo? Anche in questo caso le interviste riportano molte risposte: «La confusione c'è, non bisogna spaventarsi, va abitata, non

bisogna pensare che tutto sarà chiaro» (Responsabile 2), ci si assume le responsabilità

delle proprie scelte correndo dei rischi, cercando di mantenere un ruolo fluido e il più possibile elastico, disintossicandosi dalla visione assistenzialistica dell’utente/cliente e ricercando una relazione autentica dove ci si possa aiutare per far fronte alle richieste delle nostra società.

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CAPITOLO 4 – Il welfare generativo per la grave marginalità: lezioni dal