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CAPITOLO 3 La ricerca: analisi di un’esperienza di welfare generativo

3.2. Learning by doing: il percorso esperienziale verso il Fareassieme nel sociale

3.2.2. Progetti “fuori dall’ordinario” nel sociale Fareassieme con gli Hope

Il progetto Fareassieme all’interno dei servizi sociali, comincia a prender forma all’incirca nel 2011 sulla spinta di quelli che possiamo considerare due movimenti molto influenti: il primo, quello già citato, del Fareassieme nato all’interno del Centro di Salute Mentale di Trento, e un secondo movimento era quello richiesto da operatori e assistenti sociali. Da tempo, ormai, si percepiva un senso di immobilità all’interno delle attività sociali, come se il lavoro prodotto ristagnasse tra le varie problematiche e non riuscisse ad uscirne: «I nostri servizi non valorizzano sufficientemente le risorse delle persone, ma viceversa producono omologazione assistenziale» aveva dichiarato Nicola Pedergnana, Capo Ufficio

dei Poli Sociali, all’interno di un articolo scritto per Animazione Sociale (Andrighettoni et

al 2014, p.52). Sempre in questo pezzo si parla di come le organizzazioni non riescano a

produrre il cambiamento, fondamentalmente, perché non lo si crede possibile: «…dovremmo credere che il cambiamento è sempre possibile e che noi non ci crediamo abbastanza. O, quantomeno, diciamo di crederci, ma in realtà, alla prova dei fatti non attiviamo le conseguenti azioni possibili e necessarie in questa direzione» (Andrighettoni et al 2014, p.52).

Da tutto ciò nasce, in maniera molto spontanea, l’esigenza di coinvolgere coloro che vengono chiamati “utenti” all’interno dei servizi. Fare insieme, quindi, a tutte quelle persone, che per un motivo o per l’altro, vivono i servizi sociali. Per rendere questo processo più comprensibile e per aiutare la sua concretizzazione nelle azioni, si decise di dargli un nome (Il Fareassieme nel sociale per l’appunto) e di dotarlo di alcune linee guida o principi che potessero aiutare l’ideazione e realizzazione di progetti. Lo si potrebbe definire quasi come una filosofia da seguire, o meglio, da vivere, per progettare nuovi percorsi di welfare, dove l’incontro tra utente e professionista assume un valore di potenza generativa. Dalle slide utilizzate dal gruppo di operatori per presentare il progetto del FA, riprendo i principi guida:

- Credere che tutti posseggano un sapere

- Credere nel valore della responsabilità personale - Credere nelle risorse di ciascuno

- Valorizzare i diversi punti di vista - Costruire capitale sociale

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Gli ambiti in cui si può sperimentare questo metodo di lavoro, sono molteplici: dal campo del policy-making, dalla gestione di progetti e attività all’interno del servizio, alla collaborazione in interventi specifici promossi dai servizi sociali, sia che essi siano rivolti a singole persone o alla comunità. Questo approccio punta anche a rafforzare la cittadinanza sociale costruendo capitale sociale e cercando di ridurre, così, il rischio di de- responsabilizzazione delle persone nei confronti del bene pubblico. Si tratta di esercitare forme di democrazia partecipata coinvolgendo anche coloro che vivono nei confini più nascosti della società.

La partecipazione attiva di quei stessi soggetti che richiedono il soddisfacimento di un bisogno cambia la percezione dell’utente stesso: non più una persona problematica, ma una persona con un problema, con delle risorse e capacità. Solo da questo semplice concetto, la reazione a catena avviene spontanea: il cambiamento non si può fermare e coinvolge anche il modo di lavorare di operatori e assistenti sociali. La logica di prestazione dei servizi in maniera rigida e controllata non si adegua più a questa visuale, l’assistente sociale è invitato a rivalutare il suo lavoro, a scavalcare il tavolo/barriera che li divide dagli utenti e vivere l’incontro con essi. Richiede di dare e saper ricevere fiducia, di sconfinare, anche solo di poco, dalle barriere del proprio ruolo e porsi alla pari tra operatori e utenti. Ovviamente le differenze rimangono, implicite e necessarie allo svolgimento di mansioni diverse all’interno del percorso di una persona, ma ciò che cambia è l’approccio e il modo di pensare.

Un paragone che trovo particolarmente calzante è quello utilizzato da Elisa Larcher nel suo articolo all’interno dell’inserto per Animazione Sociale (Andrighettoni et al 2014, p.63) con la poesia L’inviato di Stefano Benni (1991):

“Visitai paesi lontani per trovare la rabbia

ma fui sempre un ricco tra i poveri e tornavo a parlarne

un po’ abbronzato. Fui abbastanza sincero

e mai troppo bugiardo ma il coraggio,

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non lo trovai mai. Ora dirigo un prestigioso giornale

i miei amici dicono che non ho più amici ma ho una grande collezione

di cappelli esotici di liquori forti di foto di morti.”

L’assistente sociale, con questa poesia, voleva sollecitare il bisogno di trovare quel coraggio che l’Inviato non trovò per smettere di essere un ricco tra i poveri. Così anche nel Fareassieme l’invito è quello di togliersi la maschera per cercare di vivere l’autenticità dell’incontro e della relazione con le persone fragili. «Diventare abitanti di quei Paesi

Lontani. E sentire che la crisi comincia a insinuarsi tra le nostre crepe. Dare spazio al cambiamento può essere una bella opportunità professionale e umana» (Andrighettoni et al 2014, p.65).

Gli operatori sociali hanno cominciato a credere veramente nel cambiamento ed esso è avvenuto ed è in continuo movimento.

Fu così che da «piccole sperimentazioni che ne generano altre» (Andrighettoni et al 2014,

p.39) cominciò a delinearsi l’idea di un nuovo progetto che richiedeva la partecipazione delle persone senza dimora all’interno dei vari servizi. Prende forma il cuore del Fareassieme nel sociale: il progetto Hope, come la speranza che le persone ripongono in se stessi e negli operatori sociali per uscire da condizioni di forte marginalità.