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CAPITOLO 4 Il welfare generativo per la grave marginalità:

4.1. Progetti che generano domande (e ricercano risposte)

4.1.3. Il valore aggiunto (l’Hope non è un lavoro a basso costo)

Dalle interviste effettuate, parlando di coinvolgimento degli utenti nei servizi, è emerso il timore sull’identificazione della figura dell’Hope. Esso non è un operatore in quanto non ha avuto le esperienze ne seguito il corso di studi necessario per poterlo diventare, ma non è nemmeno un semplice volontario in quanto inizialmente, ai servizi, è arrivato per necessità, più che per volere personale. Il percorso realizzato lo hanno poi portato a cominciare a far parte del progetto Hope e a mettersi in gioco per gli altri, ricoprendo un ruolo fondamentale, riconosciuto anche economicamente. Alcune persone si sono, dunque, chieste, se l’Hope non rischi di diventare un lavoro a basso costo, una sorta di operatore non qualificato e sotto pagato. La risposta ci arriva tanto dalle stesse testimonianze del progetto, quanto dalla teoria del WG.

Nel primo capitolo si è analizzata la proposta di legge della Fondazione Zancan inerente il Welfare Generativo. In tale legge, all’art.2, vengono delineate le definizioni del WG, tra cui le azioni a corrispettivo sociale, che riprendo: «Per azioni a corrispettivo sociale (ACS) si

intendono quelle attività che comportano il coinvolgimento attivo e responsabilizzante del soggetto destinatario di interventi di sostegno, definito Attore di ACS, finalizzato a rafforzare i legami sociali; a favorire le persone deboli e svantaggiate nella partecipazione alla vita sociale; a promuovere a vantaggio di tutti il patrimonio culturale e ambientale delle comunità; in generale, ad accrescere il capitale sociale locale e nazionale» (Fondazione

Emanuela Zancan 2015, p. 132). Possiamo, dunque, identificare gli Hope come attori di Azioni a Corrispettivo Sociale in quanto sono soggetti attivi e responsabili nel progetto in questione, il quale si rivolge ad altre persone in situazione di grave marginalità, come sono o sono stati loro, generando capitale sociale per loro e per la comunità locale. Le ACS, però, hanno anche un punto di debolezza, nelle teorie del welfare generativo, descritto da Emanuele Rossi (2016, Fondazione Emanuela Zancan 2012, pp. 107 – 110). L’autore si

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riferisce alla natura volontaria di tali azioni, in quanto la riflessione teorica esclude che l’ACS sia una sorta di corrispettivo della prestazione erogata dal servizio all’utente, come fosse un “pagamento” per l’aiuto ricevuto. Oltre ad essere un inghippo dal punto di vista etico, lo è anche sotto un profilo giuridico in quanto, se fosse considerata l’obbligatorietà di tali azioni, si dovrebbe far rispondere, a un loro mancato adempimento, con una sanzione. Allo stesso tempo queste attività non possono essere considerate solo come volontariato (disciplinato dalla legge 266/1991). Si ricerca, così, una strada intermedia dove la persona non è costretta ad adempiere ad azioni di corrispettivo sociale, ma è nella loro volontarietà che viene riposta la buona riuscita di un progetto generativo. Emanuele Rossi conclude il suo articolo per Studi Zancan sostenendo che ancora non è stata trovata una risposta univoca a tale domanda, ma riporta una riflessione dove si enuncia che il potenziale successo del welfare generativo è riposto nella “ricompensa sociale” che tali lavori a corrispettivo sociale possono generare. «In altri termini, se chi “restituisce” avverte

che la propria attività è positiva perché produce benessere e migliore qualità della vita in altre persone, non vi sarà bisogno di incentivarlo ulteriormente in tale impegno di restituzione: la motivazione sarà costituita infatti dalla soddisfazione personale, tale da superare ogni possibile altra valutazione» (Rossi 2016, p.11).

In parte, questo punto interrogativo, viene ripreso anche all’interno del progetto Hope, quando alcuni operatori e/o responsabili si chiedono “è lavoro a basso costo?”. L’Hope non è semplicemente un volontario e non è un operatore, è una strada intermedia, alternativa e, come sostenuto da Hope 4:

Operatori e Hope si completano. Il ruolo dell’operatore ci aiuta perché ha l’esperienza della scuola e delle cose che ha visto sul campo lavorando e mettendo insieme le varie cose ci aiuta come discutiamo qui… e cerchiamo il punto di vista giusto! Alla fine riusciamo a trovare il punto di vista giusto unendo tutti i punti di vista.

È un lavoro che mentre agisce crea valore personale e comunitario (Scaratti, Vecchiato 2016) rappresentando una nuova maniera di fare socialità, i cui potenziali ancora devono essere compresi e esplorati fino in fondo. Infatti, nonostante la tanta strada già percorsa, possiamo definire il progetto degli Hope ancora “giovane”. L’Hope non è considerabile semplice manovalanza in quanto, come scrive Gerolamo Spreafico in un suo articolo per Studi Zancan (2016): «rigenerare la persona che ha perso il lavoro è un risultato umano di

valore forse superiore alla resa economica» (Spreafico 2016, p. 45). Inoltre, come sostenuto

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Fareassieme, punta a generare lavoro ex novo trasformando i sussidi erogati in cultura del “bene comune”. Sarà, indubbiamente, compito anche degli operatori che li affiancano, assicurarsi che il progetto non rischi di concentrarsi solo sulle attività (rischio, per altro, spesso identificato dagli intervistati) e quindi sul lavoro pratico dell’Hope, ma che vi sia sempre la parte di percorso di crescita personale e di gruppo che essi fanno mentre lavorano per gli altri. Preservare, cioè, il valore aggiunto generato dal loro percorso. L’Hope è un lavoro ad alto impatto sociale. Impatto che parte dalla vita personale del soggetto e si espande a coloro che collaborano insieme a loro. È un lavorare diverso, lavorare insieme a chi, solitamente, viene considerato solo utente. È un capovolgimento molto forte, seppur nella teoria, o per chi scrive, possa sembrare quasi banale, nella pratica non lo è: richiede tempo, piccoli passi, capacità di mettersi in gioco e assumersi dei rischi. È un lavoro (tanto quello degli Hope, che operatori/assistenti sociali) che a livello economico è difficilmente quantificabile (indubbiamente sottopagato, ma non è questo il contesto per aprire tale dibattito) perché le ore non sono mai quelle stabilite, ma si allungano, i compiti non possono rispecchiare i progetti scritti e gli imprevisti sono all’ordine del giorno. È parere di chi scrive che il lavoro sociale è, in generale, poco riconosciuto e valorizzato e come tale visione ne limiti le potenzialità di cambiamento che potrebbe avere sull’intera società. Riprendendo il paragrafo precedente, anche per questo motivo è importante diffondere il progetto, perché la cittadinanza possa conoscere cosa realmente si potrebbe fare come comunità, invece che basare il rapporto di aiuto solo sul sussidio, far comprendere come l’aiuto passi dalle relazioni e dal coinvolgimento di tutti nel perseguimento del bene comune.

4.2. Oltre i confini: dal coinvolgimento degli utenti di Piazza Grande ad altri