CAPITOLO 4 Il welfare generativo per la grave marginalità:
4.1. Progetti che generano domande (e ricercano risposte)
4.1.2. Sugli sconfinamenti di ruolo: una professionalità riflessiva
Entrando nello specifico delle relazioni e interazioni che avvengono all’interno del progetto, è stata già affrontata la necessità che spesso hanno gli operatori e assistenti sociali di sconfinare oltre il proprio mandato istituzionale per poter adempiere al proprio compito relazionale (Ferrari, Galimberti 2012; Ferrari 2010, 2015). Molte delle interviste raccolte durante la ricerca testimoniano le difficoltà che possono portare con sé tali
132
sconfinamenti, in particolare quando a superare la soglia dei servizi (Vitale 2003) sono gli utenti. Questi spostamenti richiedono al professionista flessibilità e la capacità di abbassare le barriere costruite, alle volte, dal ruolo. Tornare al cuore dell’assistente sociale, come enunciato da Responsabile 3 in una intervista. Infatti, il servizio sociale, fin dalla sua nascita dopo la seconda guerra mondiale, ha sempre cercato di definirsi con criteri professionali, rispettando allo stesso tempo la propria identità come assistente sociale (Fargion 2013) «Il servizio sociale, proprio perché si muove su terreni nuovi e di
confine, può essere definito come la professione dell’incertezza» (Fargion 2013, p.30). Nel
dibattito internazionale si discute sull’esigenza di porre l’attenzione sulla professionalizzazione degli operatori (van Berkel e van der Aa, 2012, Nothdurfter 2016, in Nothdurfter 2017). In particolar modo si sottolinea come vi sia ancora poca chiarezza rispetto ai profili professionali che dovrebbero operare nel campo della marginalità, caratterizzato da una complessità di situazioni che richiedono, spesso, una risposta multidimensionale (Nothdurfter 2017). All’assistente sociale viene richiesto di saper districarsi in situazioni molto variegate e difficili, che spesso non vengono affrontate (o solo accennate) nel percorso di studi. Per questo motivo il loro operato richiederà un’alta dose di creatività e capacità di sconfinare.
Mauro Ferrari, nei suoi lavori, raccoglie alcuni esempi di “sconfinamento” da parte di assistenti sociali che dimostrano tale professionalità multidimensionale (2010, 2015; Ferrari, Galimberti 2012; Ferrari, Paini 2013). Nel suo lavoro La frontiera Interna (2010), attraverso una ricerca empirica effettuata su quattro distretti, due in Emilia Romagna e due in Lombardia, analizza i processi di costruzione di politiche sociali locali e affronta i vari temi di welfare, dalle politiche migratorie alle dinamiche organizzative. Nelle varie interviste ci mostra come sconfinare sia necessario e, spesso, positivo per l’efficacia degli interventi, ma allo stesso tempo richiede grandi sforzi ed energie personali, che non sempre un operatore sociale è in grado di dare. Gli esempi riportano principalmente dinamiche di relazione con l’utente il quale viene presentato come bisognoso all’interno dei servizi sociali, mentre, se visto in altri contesti, possono emergere anche le capacità e risorse che porta con sé. «Nella scena dell’incontro, nella cornice dei servizi sociali,
all’operatore viene presentata solo la facciata bisognosa, ed invece le risorse personali vengono lasciate fuori. L’operatore le scopre solo uscendo dal servizio» (Ferrari 2012, p. 97),
per questo motivo uscire dall’ambiente istituzionale e vedere le persone in un contesto diverso, aiuta a ripensare il rapporto non più solo in chiave di bisogno, ma di scambio di
133
esperienze e risorse. Come avviene nel progetto Hope, nei momenti di condivisione dall’Hope Day alle uscite (sono stati a Venezia o al Lago di Resia), ma anche nelle occasioni di lavoro insieme come ai tavoli, riunioni ecc. dove emergono le varie risorse e capacità delle persone. Anche Ferrari racconta, invece, di un’assistente sociale che aveva in carico un signore bengalese e lo riteneva “abbastanza assistenziale” finché non vide una foto del soggetto in questione per strada, in un phone center, come candidato rappresentante della comunità bengalese. «Ho rivisto A. e scherzando gli ho detto “come vanno le elezioni?”;
e a lui gli si sono illuminati gli occhi, ha iniziato “come fai a saperlo?” E addirittura mi ha passato i volantini. […] praticamente il presidente è un po’ un social worker come noi; perché noi ci si riunisce in una commissione e si valuta come aiutare quella vedova, come quella famiglia. E quindi è anche bello ridare il ruolo di persone a chi ci viene a trovare”» (Ferrari,
2010, p. 176). Avvenimenti come questi, possono attivare la relazione e la fiducia tra operatore e utente, aprirsi un po’, senza raccontare necessariamente la propria vita privata, ma condividendo piccoli interessi, momenti di vita quotidiana. «Ecco il
meccanismo che può attivare la relazione: quando tra operatore ed utente scatta la fiducia, l’utente diventa persona, le pareti diventano porose, l’ascolto può diventare attivo (Sclavi: 2003), le storie diventano risorse generative, non solo impedimenti» (Ferrari, Galimberti
2012, p. 97). Allo stesso tempo non ci si può dimenticare dei rischi che, lo sconfinamento, può portare con se. Come è avvenuto con l’Operatore 6 e la pressione del dare risposte ai vari utenti che le si avvicinavano (riprendo le parole dal capitolo 3, paragrafo 3.4.2.):
Operatore 6: All'inizio la difficoltà più grande era quella di fare da contenitore per tutta una
serie di storie da una parte e richieste dall'altra. Storie di grandi difficoltà, delusioni, disastri, fallimenti, dolori di vario genere… le richieste mi mettevano in una situazione di dover rispondere…
Tipo di sconfinamento definito anche emotivo, il quale è il più delicato da affrontare e che maggiormente può provocare stress nell’operatore che rischia di portarsi “il caso a casa” (Ferrari, Paini 2013). Cercare di adottare un ruolo fluido, flessibile e portato al cambiamento, non significa dover perdere la propria professionalità. Tale concetto deve essere tenuto presente prendendo in considerazione il contesto e il lavoro di cui stiamo parlando, ovvero quello dell’assistente sociale che, come abbiamo visto, opera in un vasto campo di complessità e, spesso, confusione. Come sostenuto da Responsabile 2:
[…] ma la confusione è una delle robe più belle del mondo perché è quella cosa che toglie sicurezza rispetto a delle dinamiche che delle volte replichiamo perché siamo abituati a
134 replicare. Sì, crea confusione, l'importante però è il non permanere nella confusione ma lavorarci e credo che sia importante. […] La confusione c'è, non bisogna spaventarsi, va abitata.
Per poter avere delle linea guida, Donald Schön (1999), anticipando questi dibattiti, ha enunciato, nel 1983, delle alternative ai modelli tradizionali di professionalità, quella che potremmo chiamare come professionalità riflessiva. L’idea dell’autore è che, molti lavori, tra cui gli operatori nel sociale, non hanno la possibilità di operare in condizioni ben definite, con situazioni normate e prevedibili. Per far fronte alle complessità che si creano in questi contesti, i professionisti dovrebbero cercare di classificare il problema, rapportarlo a categorie teoriche e cercare di identificare diversi scenari possibili (Fargion 2013). L’operatore riflessivo, in questi casi, si avvale della capacità di deutero apprendimento, ovvero “dell’apprendere ad apprendere” (Bateson 1990, Colangelo 2009), termine che è già stato analizzato nel capitolo 3.2. Learning by doing. Schön paragona gli operatori a dei musicisti jazz, i quali improvvisano sulla base di strutture acquisite, rispondendo in tempo reale ai cambiamenti lanciati dagli altri musicisti e creando, così, qualcosa di nuovo e inaspettato (Colangelo 2009).
Prendendo in considerazione il progetto Hope si può notare come la dimensione riflessiva sia fondamentale da parte degli operatori, anche se sembra essere (attraverso le interviste raccolte) più cosciente nei responsabili di servizio. Molto spesso, questi ultimi, mi parlano con consapevolezza dalla confusione generata da questi tipi di progetti e di come tale debba essere vissuta. Questa consapevolezza viene riflessa anche negli operatori, i quali sembrano viverla, alle volte, con maggior difficoltà. Il che può risultare comprensibile considerando la criticità di operare in situazioni di quotidiana incertezza. Riprendendo le parole di Operatore 2 nel paragrafo 3.4.2.
Operatore 2: è una lavoro che mescola troppe cose, è una delle criticità secondo me, perché
noi siamo responsabili o coordinatori della casa, facilitatori all’interno del gruppo, supervisori rispetto alle dinamiche di gruppo e rispetto alle difficoltà che gli Hope hanno all’interno del gruppo e solo questi sono quattro ruoli diversi e questa sovrapposizione o ce l’abbiamo molto chiara e stiamo molto attenti o il rischio è che diventi una mania di grandezza… […] Ovvio che la complessità non è un fattore negativo, ma positivo… in questa complessità c’è molta potenzialità!
La potenzialità sta nell’essere riflessivo di fronte alle varie persone: ogni Hope o ospite ha la propria storia, le proprie esigenze, risorse ed è fondamentale cercare di riconoscerle
135
dando ad ognuna di esse la giusta importanza. Richiede di saper fare scelte differenti e di assumersene le responsabilità. Spesso, insieme agli intervistati, si è riflettuto su come sia ormai impossibile far corrispondere risposte standardizzate alle esigenze delle persone, ma allo stesso tempo differenziare le riposte può voler dire rischiare di sconfinare e essere fraintesi (per esempio di favorire una persona piuttosto che un’altra). Personalmente ho notato come, nonostante la difficoltà vissuta, sembra che gli operatori che lavorano a stretto contatto con gli Hope riescano ad assumere questo ruolo intercambiabile e flessibile, che permette la relazione di fiducia all’interno del gruppo. Ciò che, tra le altre cose, aiuta l’operatore a mantenere un ruolo fluido è la differenza con il ruolo dell’assistente sociale, che, seppur all’interno dell’Area Inclusione sociale stia assumendo sempre di più un professionalità riflessiva, non vive comunque la quotidianità nelle case insieme agli Hope. Progetti come questo suscitano cambiamenti molto forti che necessitano tempo. A lungo il ruolo dell’assistente sociale è rimasto rinchiuso all’interno dei confini del ruolo burocratico e sembra essere parere comune come questi muri dovrebbero essere smantellati, ma non si può non considerare come vi sia un bacino di utenza “educato” ormai a questo sistema e di come un cambiamento repentino potrebbe suscitare forti attriti verso di esso. Oggi il ruolo dell’Hope come senza dimora alla pari, o il ruolo dell’assistente sociale che entra nel dormitorio, è maggiormente accettato e compreso, ma c’è ancora chi richiede le vecchie certezze, i vecchi operatori più “normativi”. È un cammino che va percorso insieme: ospiti, Hope, assistenti sociali e operatori. Gli ospiti cominciano sempre più a riconoscere il ruolo degli Hope, facendo innescare un rapporto di fiducia che dalle parole degli Hope traspare molto, come quando mi sottolineano come spesso le persone li ringrazino e li fermino per strada a scambiar due chiacchiere anche dopo tempo, questo per loro è un grande riconoscimento. La fiducia è il perno sul quale ruota la relazione, come succede anche tra Hope e operatori, dove quest’ultimi imparano a fare un passo indietro e lasciare che siano gli Hope a gestire, proporre, fare. Fa tutto parte di quella “ristrutturazione dolorosa” di cui parla Responsabile 4 nel paragrafo 3.4.2. dove tutti, dai professionisti agli ospiti, cercano e hanno bisogno di quella relazione, di quell’incontro che li spinge a diventare fluidi e a tornare ad apprendere.
Anche Elisabetta Neve affronta il tema della professionalità in un articolo per Studi Zancan (2016), ribadendo come l’assistente sociale dovrebbe essere quella professione che accompagna il soggetto nel suo percorso di emancipazione, o di “concorso al risultato” in
136
termini generativi. «L’azione professionale è accompagnamento a produrre benefici per la
comunità da parte di chi sa cosa significa sofferenza, povertà, calore della solidarietà» (Neve
2016, p. 14). Sottolinea, inoltre, l’esigenza di cercare un professionista rinnovato, che sappia ascoltare, dare valore e potenziare il capitale umano degli aiutati (Neve 2016). Un professionista che sappia ricercare le risorse manifeste e/o latenti della persona che sta chiedendo aiuto, tra le quali vanno comprese anche «l’avere un’intenzione, dei desideri, la
voglia di fare, la non rinuncia» (Braida 2017). Nello specifico del progetto (ma si potrebbe
allargare il discorso a qualsiasi altro progetto simile), anche se l’assistente sociale non può partecipare ad ogni momento della quotidianità degli Hope, il suo modo di vedere l’utente cambia molto perché la visione non è più solo come beneficiario portatore di bisogni, ma una persona con un problema e potenzialità. L’aria che si respira nel Fareassieme, di cui parla Assistente Sociale 1 nel paragrafo 3.5., non si ferma solo al progetto Hope, ma si diffonde in tutto il servizio.
Assistente Sociale 1: Io comunque li vedo gli effetti positivi, anche se non partecipo alle
attività. Le vedo sul lavoro della Area Inclusione perché di fatto siamo, viviamo in questo clima, lo respiriamo e ci siamo proprio immersi nel Fareassieme. […] Dopo le prime resistenze, in questo ultimo anno, ha cambiato tanto il modo di lavorare, quindi ho la fortuna di respirarlo comunque... questo modo di lavorare. E si è... è diventato parte integrante!
Per concludere questo punto, all’interno del welfare generativo, il ruolo dell’operatore e dell’assistente sociale dovrebbe fungere, come analizzato nel capitolo 1 paragrafo 1.4., da ponte (Zambello 2016) tra le istituzioni e le persone, essere un canale comunicativo aperto, che si presta ad adattarsi alle situazioni e a lasciarsi anche coinvolgere, quanto basta, per innescare quel meccanismo di fiducia che può dar valore alle relazione, rendendola generativa (proficua). Dovrebbe essere colui che accompagna la persona così definita utente, in questo lavoro la persona senza dimora, lungo il proprio percorso verso l’autonomia. Richiede, necessariamente, di cambiare il focus della relazione, non più solo “tu” come bisognoso, ma io e te, all’interno di una relazione dove si cerca l’incontro. Riprendendo le parole di Operatore 1 sul ruolo:
Io il ruolo lo vedo come facilitatore nel processo di empowerment e quindi lasciare gli spazi, le parole, o cogliere quello che non viene detto, o sollecitare uno piuttosto che non farlo. È un facilitatore e chi fa sintesi alla fine. […] Il mio ruolo è quello di stare attento al processo,
137 facilitare e dare, stare attento e essere molto bravo a capire le cose, a dare voce alle persone, o alle volte non darla… hai capito?
L’assistente sociale diventa quindi un “assistente di generatività sociale” che aiuta le persone a rimettersi in “campo”, riappropriandosi delle proprie risorse e lavorando insieme (azioni collettive) per il bene comune (Pirone 2012).