L’operatore del servizio nominato ufficiale di polizia giudiziaria con provvedimento del Prefetto, non cessa di essere un funzionario del servizio di prevenzione della ASL. E’ chiaro perciò che continuano ad incombere su di lui i doveri e i compiti diretti al perseguimento delle finalità istituzionali attribuite all’organo amministrativo cui appartiene.
Vi sono degli atti di natura spiccatamente amministrativa, che nei luoghi di lavoro possono essere compiuti “solo” da chi sia U.P.G. all’interno dei servizi. Come sostiene la Cassazione l’ispezione e la vigilanza nelle aziende sono compiti che appartengono all’attività di polizia amministrativa e cioè ai controlli amministrativi, e devono essere compiuti da coloro che hanno qualifica di U.P.G. e hanno natura di polizia amministrativa tutti gli atti che l’U.P.G. compie nel corso dell’ispezione, finalizzati all’accertamento dello stato dei luoghi ( rilievi, misurazioni, prelievi ambientali, visione di registri, sommarie informazioni presso il datore di lavoro od i lavoratori, ecc.).
Di fronte al manifestarsi più o meno esplicito di certe tendenze
rivolte ad individuare e ad accentuare una sorta di
contrapposizione, nella stessa legge di riforma sanitaria, fra attività di prevenzione e attività ispettiva o di vigilanza, con il conseguente privilegio della prima e la degradazione della seconda a mero strumento poliziesco di repressione, c'è chi ha giustamente
sostenuto e difeso l'unità e complementarità di tutte le funzioni e dei compiti attribuiti alle USL, rilevando che: «Le attività ricognitive e
conoscitive, accertative, elaborative di giudizi, dispositive,
diffidatorie, repressive e di verifica dei risultati si fondono in un'azione unica che è quella di vigilanza, la quale non va concettualmente ristretta all'attività repressiva, ma deve essere intesa nel senso più ampio, come azione globale che, ancorché svolgente si attraverso fasi successive, mira ad un unico obiettivo ed un unico risultato».
Tale impostazione è più corretta ed equilibrata nell'affrontare il delicato e complesso problema della definizione delle funzioni dei nuovi organi del decentramento regionale cui è stata attribuita la competenza in materia di prevenzione e sicurezza sul lavoro. Ed emerge, inoltre, una precisa linea di continuità storica con la precedente situazione degli Ispettorati del lavoro, linea che non vi era alcuna ragione di interrompere, per tornare a posizioni di separatezza, fortemente criticate in passato e causa di non poche disfunzioni del servizio.
Probabilmente, a favorire l'opposto indirizzo ha concorso in misura determinante il fatto che la legge, a differenza del passato, ha limitato l'attribuzione dei poteri di p.g. solo ad alcuni funzionari dell'USL, così mostrando di volere quasi concretizzare a livello soggettivo la separazione delle funzioni e delle attività anche nell'ambito dello stesso organo. Ma, se non ci si lascia trarre in inganno da certe suggestioni immediate, è facile accorgersi che, in
effetti, tutte le attività non solo tendono ad un unico risultato, ma sono fra loro strettamente collegate ed interdipendenti.
Un intervento di natura prevenzionale, che voglia articolarsi in forma sistematica e razionale, non può, infatti, prescindere da una fase conoscitiva, da una fase propositiva, da una fase di controllo e da una fase eventualmente repressiva, se ed in quanto vengano accertate delle inadempienze costituenti reato.
D'altra parte, tranne casi tutto sommato abbastanza limitati in cui l'USL agisce su delega espressa del magistrato o dietro segnalazione di una precisa notitia criminis, il più delle volte le visite di ispezione presso le aziende o gli ambienti di lavoro dovrebbero
essere promosse nell'ambito di un programma di attività rientrante nelle tipiche funzioni amministrative dell'organo locale di prevenzione. L'iniziativa, dunque, dovrebbe scattare con
queste caratteristiche e mantenerle fino a quando gli addetti non si trovino di fronte a fatti costituenti ipotesi di reato. È allora che si verifica l'inevitabile passaggio dai compiti amministrativi a quelli di polizia giudiziaria.
Tale momento di trapasso, facilmente individuabile in teoria, lo è molto meno nella pratica e rappresenta uno dei più delicati nodi del sistema, perché l'autonomia dell'attività amministrativa, finalizzata al perseguimento di obiettivi di tutela di interessi e beni generali, viene inevitabilmente a scontrarsi con l'esigenza di garantire i diritti di difesa del privato di fronte all'esercizio di un potere che,
attraverso il rapporto di denuncia all'A. G., mette in moto il meccanismo penale e tende, quindi, all'accertamento giudiziale della sussistenza di uno o più reati e di uno o più colpevoli.
Su questo, come su altre questioni cruciali, quali, ad esempio, il problema dell'alternatività o non della diffida rispetto all'obbligo della denuncia e della natura delle prescrizioni e delle disposizioni, la legge di riforma sanitaria e quelle di attuazione di essa, avrebbero dovuto fare estrema chiarezza, precisando, in modo netto, esplicito e definitivo, poteri, ruoli e limiti dei funzionari delle USL. Invece, purtroppo, non soltanto sono state perpetuate l'ambiguità e l'indeterminatezza di prima, ma si sono anzi aggiunte nuove ombre a rendere la situazione ancora più confusa ed incerta.
Per definire natura e finalità degli atti di P.G., è necessario porre attenzione a due aspetti importanti capaci di rappresentare l’intero ambito di attività:
• “ l’attività di polizia giudiziaria compiuta dai servizi di prevenzione è sempre destinata al processo penale. Il che equivale a dire che può ipotizzarsi attività di P.G. solo quando sia ipotizzabile un reato”.
• “l’attività di polizia giudiziaria svolta dai servizi di prevenzione ha come referente un altro organo esterno, la Magistratura, sotto la cui direzione gli U.P.G. svolgono i loro compiti”.
Tali assunti determinano una situazione del tutto insolita rispetto agli ordinari compiti dei servizi amministrativi e organi di polizia giudiziaria classici.
Essi infatti sono chiamati, da una parte a svolgere attività amministrativa finalizzata direttamente alla prevenzione, dall’altra devono obbligatoriamente svolgere le loro funzioni di P.G., dirette alla celebrazione del processo penale. In quest’ultima fase hanno come referente un altro organo appartenente all’ordine giudiziario con il quale collaborano e sono sottoposti, il pubblico ministero.
Ciò non facilita il perseguimento della necessaria unità di indirizzo del servizio di prevenzione che di fatto è un complesso organismo si impone per l’evidente intenzione del legislatore di garantire la complementarietà di tutte le funzioni e di tutti i compiti attribuiti ai servizi di prevenzione stessi. La legge vuole che le attività conoscitive, dispositive o repressive si articolino nell’azione unica di vigilanza che spesso è stata considerata sinonimo di attività repressiva.
In realtà il concetto di vigilanza è assai più ampio e sta ad indicare un’attività globale che pur svolgendosi attraverso fasi successive, mira ad una unico fine ed a un unico risultato, Un intervento di prevenzione sistematico e razionale non può prescindere da una fase conoscitiva, da una fase propositiva, da una fase di controllo e da una fase eventualmente repressiva, quando vengano accertate violazioni sanzionate penalmente.
L’intervento prevenzionale pertanto deve essere gestito superando i punti critici che vengono proposti dalla “doppia anima” del servizio la quale deriva appunto dalla duplicità delle funzioni istituzionali assegnate al servizio, doppia anima che nella vigilanza si manifesta con più evidenza.
Da quanto sopra si possono evidenziare alcuni punti critici
a) Il primo punto deriva dal fatto che l’art. 21 della l. 833 “estende” il potere di accesso nei luoghi di lavoro che già spettava all’Ispettorato del Lavoro, ai funzionari delle ASL, specificando che l’estensione riguarda coloro che il Prefetto ha nominato U.P.G.. In una interpretazione letterale della norma si potrebbe ritenere che solo gli U.P.G. possono considerarsi disponibili per le attività che presuppongono l’ingresso nei luoghi di lavoro, mentre gli altri soggetti del servizio dovrebbero essere adibiti ad altri compiti ed attività. Non sembra che una simile interpretazione sia quella più opportuna, anche perché è necessario distinguere tra la “facoltà di ingresso” nel luogo di lavoro e il “potere di accesso”, espressione che costituisce la sostanza del potere ispettivo che spetta solo agli U.P.G. Si deve evidenziare che i pubblici ufficiali che non hanno la qualifica di U.P.G. devono, per esercitare le loro attribuzioni, entrare nei luoghi di lavoro. Sebbene la legge non lo dica esplicitamente, quando si attribuiscono ad un organo determinate funzioni, devono contemporaneamente assegnarsi anche i mezzi e i modi per poterle esercitare. Tra i compiti “amministrativi” dei servizi in materia di prevenzione e sicurezza ve ne sono certamente alcuni che
presuppongono per gli addetti la facoltà di accedere all’interno dei luoghi di lavoro, perché non sarebbe possibile, ad esempio, “provvedere alla individuazione, accertamento e controllo dei fattori di nocività, di pericolosità e di deterioramento negli ambienti di vita e di lavoro” (art. 20 lett.a) L. 833/78); oppure “alla comunicazione dei dati accertati e alla diffusione della loro conoscenza anche a livello del luogo di lavoro” (art. 20, lett. c), senza poter entrare nei luoghi di lavoro.Questi compiti certamente non richiedono di essere svolti da personale con la qualifica di U.P.G. e dunque tutti indistintamente gli addetti ai servizi possono essere impiegati ed impegnati in un programma di prevenzione diretto agli scopi sopra enunciati. Proprio per la carenza di potere ispettivo, i soggetti del servizio non muniti della qualifica di U.P.G. non potranno richiedere di visitare tutta la azienda, ciò che comunque non è necessario per assolvere l’incarico che è stato loro affidato; così come non potranno controllare e verificare se siano state rispettate le norme in materia di prevenzione nei luoghi di lavoro, che è un contenuto tipico dell’azione di vigilanza.
b) Altro problema assai controverso nel coordinamento tra
attività amministrativa e di P.G., all’interno dei servizi è quello relativo alla garanzia e alla tutela dei diritti di difesa, durante le visite ispettive. Non vi è dubbio che l’esercizio del potere ispettivo conferito agli U.P.G., così come il potere di accertamento spettante agli altri componenti del servizio delle ASL nell’espletamento dei loro compiti, debba esser considerato espressione di un’attività essenzialmente amministrativa, che non è soggetta all’osservanza delle norme di procedura, poste a salvaguardia del diritto di difesa.
Per pacifica ammissione giurisprudenziale, gli accertamenti compiuti in questa fase, i rilievi, le misurazioni, il controllo dei registri e della documentazione aziendale, i prelievi e le analisi di sostanze adoperate nella lavorazione, ecc., tendono solo alla verifica della corretta e puntuale osservanza della legge da parte dei soggetti tenuti all’obbligo della sicurezza e non alla ricerca e raccolta di prove per eventuali reati.
Già la Corte Costituzionale, con la notissima sentenza n.10 del 2.2.1971, nel riconoscere la legittimità dell’art. 8 DPR 520/55, ha stabilito che l’attività di vigilanza, anche se possa trarre origine dal sospetto di violazione di leggi penali, è espressione di un compito amministrativo, in quanto non è finalizzata alla raccolta di prove da
utilizzare in un successivo procedimento penale, ne è
necessariamente provocata dalla opportunità di verificare la fondatezza di una notizia criminis.
Può avvenire però che durante gli accessi in un luogo di lavoro, rientranti nella normale attività disposta nel quadro della programmazione del servizio, i funzionari del servizio si trovino di fronte a fatti che integrano gli estremi del reato. In questo caso se i funzionari non sono U.P.G. hanno l’obbligo di denuncia ma non possono procedere ad accertamenti di alcun tipo. Se invece si tratta di U.P.G., è chiaro che la percezione di un fatto-reato, segna il passaggio dalla funzione amministrativa di vigilanza a quella di polizia giudiziaria. L’U.P.G., dunque, procederà con le forme e con il
rispetto delle garanzie difensive previste dal codice di procedura penale.
E’ naturale, però, che quanto l’U.P.G. dei servizi si muove su delega del magistrato o in base a una notizia di reato e si trova nella necessità di compiere atti di coercizione penale (rilievi, sequestri, assunzione di sommarie informazioni, ecc.), avrà l’obbligo di procedere al compimento di tali atti con l’osservanza delle forme processuali.
Da ciò si evidenzia che l’attività dei servizi di prevenzione si articola nei diversi momenti, con valenza e rilievi diversi, e che i servizi, sicuramente configurabili come organi della P.A. cui sono assegnati compiti di prevenzione relativi all’igiene e alla sicurezza nei luoghi di lavoro, partecipano alternativamente all’attività amministrativa e all’attività processuale attraverso il compimento di atti di polizia giudiziaria.
Il riconoscimento di queste particolari caratteristiche del servizio, impone di considerarlo nel suo insieme (e non solo i singoli U.P.G.) come interlocutore del PM, specie per quanto riguarda l’attività delegata.
Pare perciò corretto che il dirigente si ponga come il rappresentante e il coordinatore del servizio per quanto riguarda l’attività di Polizia Giudiziaria, anche se non potrà svolgerla personalmente nel caso che non sia munito della nomina di U.P.G..
Questo schema di rapporti del resto non è sconosciuto nel nostro ordinamento. L’esempio più significativo è fornito dal Questore, soggetto non munito della qualifica di U.P.G., ma sicuramente tenuto a garantire e organizzare i servizi di P.G.
A tal proposito il rapporto interno che lega il dirigente del servizio a coloro che ne fanno parte e i profili relativi ai rapporti tra servizi e magistratura determina un riflesso della “doppia anima” del servizio di cui si è parlato.
Infatti l’attività di P.G. propone un referente esterno al servizio: il Pubblico Ministero. Il dirigente del servizio si trova nei confronti dell’attività di P.G., ad essere nella delicata situazione di chi deve garantire le prestazioni degli U.P.G. (sia nell’attività delegata che in quella di iniziativa) senza peraltro esserne né il coordinatore, né colui che esercita un controllo gerarchico sul merito di tale attività.
Un tempo esistevano quei pittoreschi U.P.G. nei servizi (e, chissà, forse in qualche parte esistono ancora) che erano soliti affermare: “io rispondo solo al PM”. In realtà, le cose non stanno così, anche se l’equivoco spesso ha trovato alimento in due atteggiamenti egualmente censurabili: da una parte alcuni Pubblici Ministeri che pretendevano di disporre degli organi di P.G. appartenenti alla Pubblica Amministrazione come se vi fosse un rapporto di dipendenza organica; dall’altra alcuni dirigenti dei servizi di prevenzione i quali accettavano che gli U.P.G. avessero un sostanziale distacco dal programma di lavoro del servizio o che,
comunque, rinunciavano a incardinare le funzioni di P.G. nel complessivo programma di lavoro del servizio.
Sotto il profilo teorico l’effettiva separazione dei poteri accolta nel nostro ordinamento, impedisce lo sconfinamento del magistrato negli ambiti di competenza della Pubblica Amministrazione, così come l’indipendenza dei giudici è garantita contro l’invadenza della Pubblica amministrazione. Dall’altro evidentemente gli atti di P.G., per quanto riferibili al servizio, impegnano direttamente la responsabilità di chi li compie e non del superiore gerarchico. Si è già detto che per l’attività di P.G. si configura una dipendenza “funzionale” del magistrato che è il dominus dell’indagine.
Un particolare aspetto del rapporto tra il dirigente del servizio e gli U.P.G. è quello relativo alla segretezza degli atti di indagine. Qualcuno lo chiama ancora “il segreto istruttorio”.
In realtà il codice dispone il segreto d’ufficio sugli atti di indagine preliminare, nel senso che essi non sono destinati alla pubblicità (art. 329 cpp), fino alla conclusione delle indagini preliminari o fino a che la persona su cui si indaga non abbia conosciuto l’atto.
A tutti è chiaro che la riservatezza degli atti impegna gli uffici e le persone che li compiono e non va fatta valere nei confronti degli uffici medesimi.E’ chiaro, per esempio, che la dattilografa che scrivendo al computer viene a conoscenza di un delicato provvedimento del PM è impegnata al segreto.
E’ evidente inoltre che nei servizi di prevenzione nei luoghi di lavoro, costruiti sulla base di competenze pluridisciplinari, può ben accadere che l’indagine abbia bisogno di più competenze specialistiche (si pensi all’indagine di laboratorio, alle misurazioni del rumore, alla quantificazione delle polveri o delle fibre, ecc.); ebbene, tutti coloro che partecipano all’indagine anche solo con un ruolo specialistico, sono tenuti al segreto d’ufficio sugli atti destinati al procedimento penale.
Allo stesso modo il dirigente del servizio, a conoscenza di una delicata indagine di P.G. è vincolato al segreto né può pensarsi che egli possa o debba ignorare l’attività dei suoi subordinati, anche se si tratti di persona non munita della qualifica di U.P.G. Spetta al dirigente di coordinare le varie attività del servizio, ivi compresa quella di polizia giudiziaria che egli è tenuto ad assicurare allo stesso modo delle altre attività.
L’Autorità Giudiziaria delega le indagini relative agli infortuni sul lavoro e alle malattie professionali al personale dell’AUSL - in particolare al personale dei settori di Prevenzione e Sicurezza degli Ambienti di Lavoro - al quale sono attribuite funzioni di Polizia Giudiziaria.
Con la delega di indagini l’A.G. richiede di svolgere tutti gli accertamenti necessari all’eventuale esercizio dell’azione penale e in particolare:
- di acquisire notizia di reati connessi alla dinamica incidentale o all’esposizione verificandone le condizioni di procedibilità;
- di individuare eventuali carenze in tema di sicurezza e/o violazioni a disposizioni di legge in materia;
- di individuare compiutamente i soggetti destinatari di tali disposizioni o comunque i soggetti responsabili in relazione al loro ruolo ed alla loro qualifica di fatto e di diritto;
- di assicurare le fonti di prova e quanto altro necessario all’applicazione della legge penale.
Nell’inchiesta delegata dall’Autorità Giudiziaria l’attività di indagine e gli atti ad essa collegati si affiancano o, sarebbe meglio dire, si compenetrano con gli altri compiti e funzioni che istituzionalmente fanno capo al personale delle AUSL che svolge attività di prevenzione e vigilanza in materia di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro.
2.5 INFORTUNI E MALATTIE PROFESSIONALI
Lo studio quantitativo e qualitativo degli infortuni e delle malattie sul lavoro risulta utile per numerose attività e inizialmente può contribuire alle scelte delle priorità e delle linee d'azione così come, a posteriori, per valutare i risultati delle misure e dei metodi attuati.
Dove iniziare e dove arrestarsi nell'analisi degli eventi e delle dinamiche? E’ sufficiente identificare i deficit umani, tecnici ambientali che determinano l’infortunio la malattia, o vanno indagate anche le condizioni generali con cui il lavoro è organizzato
e svolto dal momento che, anche queste ultime, isolatamente o in combinazione tra loro, influenzano la probabilità di accadimento degli infortuni e delle malattie professionali? E’ fuori discussione che questa scelta tra l'analisi delle sole circostanze immediate dell’infortunio piuttosto che del contesto organizzativo generale nel quale esse si producono non dipende solo da considerazioni di carattere scientifico. Le questioni relative all'organizzazione del lavoro conducono implicitamente anche all'organizzazione della produzione e riguardano non solo l'organizzazione aziendale ma anche quella della società. Ne consegue che considerazioni economiche, politiche e ideologiche delimitano e condizionano anche pesantemente il quadro analitico di cui ci si dota per lo studio degli infortuni e delle malattia professionali , con finalità di prevenzione.
Gli incidenti e le malattie professionali sul lavoro ogni anno fanno registrare un bilancio molto pesante; quindi il problema principale è lo studio delle cause che li determinano.
Nel corso degli anni lo studio e l’analisi degli infortuni e delle malattie professionali ha fatto registrare importanti progressi. Il quadro, il concetto e la definizione di infortunio e malattie professionali si è allargata e si sono sviluppati molti metodi di analisi. Sono stati suggeriti modelli e teorie per spiegarli e se persistono delle divisioni tra le varie discipline è importante rilevare i punti di contatto e far emergere un’integrazione tra di esse.
La riduzione degli infortuni mortali (in realtà di tutti gli infortuni sul lavoro) cui si è assistito negli ultimi decenni non è solo il risultato della scomparsa o della contrazione di vecchi mestieri pericolosi ma anche dal fatto che alcuni mestieri pericolosi, negli anni, lo sono diventati sempre meno.
Un decisivo “salto di qualità” è stato realizzato con il decreto legislativo 626/1994 e oggi con il decreto legislativo 81/2008 .
Tale decreto segna una svolta culturale rispetto alle altre metodologie d’intervento, perché passa da una logica di controllo ad una di partecipazione attiva. Gli interventi dovrebbero essere predisposti tenendo conto delle caratteristiche specifiche di ogni realtà lavorativa e non più, come accadeva precedentemente, senza considerare il contesto organizzativo. Affrontare le problematiche relative alla sicurezza significa puntare l’attenzione sulla relazione che intercorre tra le caratteristiche individuali e il comportamento sicuro, cercando di non definire l’infortunio come la