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Fare insieme — Le Galès individua per il contesto europeo tre “nozioni” che aiutano

nella lettura di quello che tiene assieme la società e regola i meccanismi del “fare insieme città”: “attore collettivo”, “società locale” e “governance”. La definizione di “attore collettivo” porta al centro delle decisioni una forte dimensione politica (intesa come scelta civica) che non tralascia i rapporti sociali; la decisioni vengono prese insieme, per soddisfare interessi comuni, attraverso innovazioni e integrazioni. Invece “le società locali sono fatte di interazioni di attori multipli che giocano su diverse scale […]. Le società locali sono stabilizzate da organizzazioni legate allo Stato: ospedali, scuole, università, porti, centri sociali e culturali. […] La città come società locale è analizzata in termini di aggregazione, di integrazione e di rappre-sentazione di gruppi e interessi” (Le Galés, 2006, p. 33). Il concetto di “governance” serve a interpretare le trasformazioni della città e del territorio in maniera integrata, “sul piano politico, economico e sociale a diverse scale”. La governance è “definita come un processo di coordinamento di attori, di gruppi sociali, di istituzioni, per raggiungere scopi discussi e definiti collettivamente.” (Le Galés, ivi, pp.37-38). La costruzione di una città democratica, “where the democracy lies in the democrati-zation of the terms of engagement” (Amin&Thrift, 2002, p. 131), deve essere basata sulla creazione di spazi civici e civili, per il consolidamento delle “società locali”. Tale questione inerisce quindi un “fare insieme” che non può limitarsi alla lettura dei movimenti indipendenti, neo-comunitari, “dal basso”, ma che deve inerire anche - e molto - una nuova interpretazione dei legami tra attori pubblici e tra i modelli e schemi di partnership che permettono la realizzazione di questi luoghi e il loro mantenimento in un tempo lungo attraverso un’interazione di attori a più livelli.

Condivisioni — Se all’inizio degli anni 2000 in “La società individualizzata”, Bauman

scriveva che il concetto di “comunità” si riferisce ad un “paradiso perduto” in un’epoca in cui dominano l’incertezza e l’insicurezza (Bauman, 2001), e si ragio-nava sulla mutata consistenza dello spazio pubblico a causa dell’indebolimento del senso del “comune” (Innerarity, 2009), oggi è sempre più evidente come ci sia una richiesta d’uso “condiviso” dello spazio, c’è “voglia di comunità” (Bauman, 2007). La collaborazione, il fare “insieme” (Sennett, 2012) vengono praticate a scala urbana

e a scala di vicinato, grazie ad iniziative lanciate sia dalle amministrazioni pubbliche sia da gruppi autonomamente creati di cittadini. Tali esperienze sono tentativi più o meno codificati, più o meno permanenti, di riappropriazione dello spazio (pubblico?), residuale o sottoutilizzato, che segnano un nuovo atteggiamento collet-tivo: cercare nuove modalità per garantire (auto) assistenza, per offrire nuove forme di formazione ed educazione, per fare sport ed attività nel tempo libero (Bishop e , 2012). Ovvero, modalità diverse di fare benessere in maniera più “concreta” e “insieme” usando spazi residuali che per essere riscritti secondo le vie tradizionali del “fare città” richiederebbero tempi e finanziamenti troppo dilatati.

Vengono messe in evidenza nuove forme di “condivisione”: tra l’”individualizzazione” propria della città diffusa e la “società”, si fanno largo “cerchie ristrette entro le quali si stabiliscono robusti legami orizzontali tesi a ridisegnare le forme dell’abitare, del produrre, del proteggersi […] che prendono la forma seducente della prossimità, del volontariato, del dono e si reggono sulla convinzione che far da sé, in piccoli gruppi, in cerchie ristrette, renda le proprie azioni più ambiziose, più sostenibili, di maggiore qualità” (Bianchetti, 2016, pp. 25-26). Queste forme di “fare insieme” quindi stanno in posizione intermedia tra l’isolamento dell’individuo e la piazza, in cui oggi si

ridefinisce lo spazio pubblico per riaffermare vecchi e nuovi diritti21, l’emergere di

nuovi “attori collettivi”, di associazioni e nuove articolazioni sociali (Latour, 2005).

Spazi in comune - La crisi avviata nel 2008 ha posto un cambio di orientamento,

in tutti i campi, che spesso ha portato al decadere degli interessi propri del neo-liberismo, al rafforzarsi di un “neo-comunitarismo” (Bianchetti, 2014), dilagante in molti contesti. I valori dello scambio, della comunanza, dello stare insieme, hanno fatto irruzione nei modi di concepire funzionamenti, economie, interventi sullo spazio. Come è stato ricordato da Luis Fernàndez-Galiano in occasione del convegno

“Architectura: Lo comùn / Architecture: The Common” (Pamplona, 2012), oggi, la crisi

economica, sociale e ambientale con cui i territori occidentali si stanno confrontando richiama ad una certa sobrietà, ad una certa austerità, che tuttavia non sono efficaci se non accompagnate da un solido sentimento di solidarietà (Fernàndez-Galiano, 2012). Una minore disponibilità di risorse spaziali e finanziarie e – allo stesso tempo – l’urgenza di rispondere ad emergenze sociali e ambientali notevoli richiede sia un cambiamento di sapere tecnico (fare di più, con meno) sia di mentalità, spostando il discorso su un piano anche etico (e non solo pratico). Sempre nel 2012, la Biennale di Venezia ha affrontato il tema del “comune”, “The Common ground”, ovvero di come gli spazi urbani e gli edifici ad accesso pubblico siano sfondo, cornice, per la vita sociale (Chipperfield, 2012). Al Moma di New York, nel 2010, è stata organizzata la mostra “Small scale, big change. New architectures of social engagement”, in cui sono stati esibiti progetti architettonici per scuole, centri civici, edifici per abitazioni che, nonostante la dimensione ridotta, segnalano un forte cambiamento di atteggia-mento dell’architettura: verso una rinnovata responsabilità civile, per creare edifici che possano diventare dei punti di riferimento per le comunità locali (Lepik, 2010). Dal 2000 l’”European Prize for Urban Public Space” indaga come la forma della città sia intimamente connessa alle forme di democrazia e di come questo sia visibile in contesto europeo grazie alla produzione di spazi ad uso pubblico di varia natura, che, messi alla prova dalle nuove condizioni, oggi propongono nuovi e più forti paradigmi spaziali (Gray, 2015).

Come evidente dai percorsi interpretativi sopra citati si distinguono due livelli

21 Si pensi a tutti i movimenti post-crisi che dal 2008 hanno manifestato le proprie ragio-ni negli spazi pubblici delle grandi città - ridefinendoli: Occupy Wall Street nello Zuccotti Park a New York nel 2011, l’occupazione della Puerta del Sol a Madrid nel 2011; l’occupazione del Gezy

> JKMM Architects, Seinäjoki Library, Finlandia, 2013 (foto: Tuomas Usheimo - sopra; aasarchitecture.com a destra)

operativi, si tengono insieme due livelli: quello di base, ‘concreto’ garantito dagli spazi delle attrezzature ad uso pubblico, espressione delle politiche del welfare state, in cui e quello più effimero, mutevole dove enclave, piccoli gruppi, associazioni, persone condividono interessi, passioni e legami solidaristici realizzano “territori della condivisione” (Bianchetti, 2014), spazi temporanei, reti online che di tanto in tanto si manifestano nello spazio pubblico, riusi flessibili di spazi dismessi, tracce leggere che però ridisegnano gli usi della città (Senatsverwaltung für Stadtentwick-lung, 2007).

Questo dualismo di relazioni e conseguentemente di spazi è ben evidente dalla lettura di Helsinki che nelle parti successive cercherò di esplicitare. Da un lato sono le attrezzature a garantire quella base di benessere che è nell’agenda del welfare state per cui l’educazione, la salute, la sicurezza economica dei cittadini si realizzano a livello spaziale con scuole, biblioteche, attrezzature sportive, chiese, parchi, luoghi di ritrovo; questi spazi si possono leggere come veri “luoghi pubblici”, dove i citta-dini possono accedere liberamente e gratuitamente. Dall’altro però possono leggersi tutta una serie di nuove esperienze, pratiche, reti che usano e reinterpretano gli spazi della città e che mettono in evidenza nuove forme di stare insieme, di cittadi-nanza attiva, innovativa, che cerca di sottolineare nuove esigenze, coinvolgere nuovi gruppi, attivare la città e “creare la società civile del futuro - una società basata su una cittadinanza attiva, sul bene comune e sul prendersi cura del prossimo” (Hern-berg, 2012, p. 26).

Queste due specie di spazi sottolineano due aspetti dello stare assieme in città presenti a Helsinki. Il primo è legato alla capacità delle attrezzature ad uso collettivo di essere luoghi dove la frequentazione condivisa è spesso sinonimo di interazione e di creazione di legami tra le persone; il secondo invece mostra come i residenti della capitale finlandese si auto-organizzino e reinterpretino lo spazio urbano esplicitando (e dando risposta a) bisogna di volta in volta diversi.

“Culturally, for Finnish people the interaction with other people is a new thing, so gatherings and meetings in open public space are also a new thing. Because of this fact, the possibility of having a defined place or context - as it is the case of a public building or a playground - makes it easier for them to get in contact and to meet. There is a frame that makes it possible for them to spontaneously come together and share” (Kauste, intervista, 2016).

Dai primi momenti della sua