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Giustizia spaziale: le radici del “diritto alla città” — Il tema della giustizia spaziale è stato

ed è tutt’oggi fortemente indagato dalla sociologia urbana, che ha messo in come lo spazio della città debba supportare fenomeni di integrazione, scambio e condivisione ed evitare invece di accrescere fenomeni di isolamento, esclusione e disuguaglianze. Rashidzadeh ha ricordato come il concetto di “giustizia” abbia rispetto alla teoria spaziale tre radici (Rashidzadeh in Ischia, 2012, pp. 129-141) e rispettivamente: la prospettiva universalista della filosofia politica liberale (Locke, Rawls e più recente-mente Sen e Nussbaum); la concezione processuale di Habermas che “si concentra sui processi e mezzi che potrebbero condurre a forme di giustizia”; la prospettiva di matrice marxiana di Lefebvre rielaborata da Harvey, Young e Fraser, nonché più recentemente da Brenner e Marcuse (Brenner, Marcuse e Mayer, 2012), che mette in evidenza il concetto di “diritto alla città” (Lefebvre, 1968, 1974). La base teorica fornita da Lefebvre sposta la definizione di spazio dalle sue caratteristiche territo-riali, fisiche e demografiche interpretandolo invece come entità costruita attorno alle relazioni sociali che in esso avvengono (Fainstein, 2013). Il “diritto alla città” ovvero si realizza nel diritto di tutti i cittadini “all’esistere, alla vita urbana, alla socializ-zazione, all’uso dello spazio urbano, alle differenze, al ricreare la città rispetto ai propri bisogni e desideri” (Rashidzadeh, op. cit., p. 131-132). Il concetto di giustizia

spaziale, invece, considera la “responsabilità a tutte le scale”, ovvero trasporta un

concetto proprio della dimensione sociale a livello spaziale, e aiuta ad evidenziare “non solo esempi di ingiustizia spaziale, ma anche identifica e comprende i processi di produzione di geografie ingiuste” mentre come ricorda Marcuse “l’ingiustizia sociale e l’ingiustizia spaziale sono inseparabili l’una dall’altra quando la giustizia spaziale può essere causa di ingiustizia sociale” (Ibid, p. 134).

> Atelier d'Architecture Autogérée,

Passage 56, Parigi, Francia, 2009

(foto: European Prize for Public Space)

Esclusione — Una delle forme di ingiustizia sociale è l’esclusione, che a livello spaziale

si traduce nella realizzazione e il consolidamento di alcuni “dispositivi, anche di natura spaziale, per tenere a distanza”, isolare certi gruppi di persone, i “poveri”

(Secchi, 2013, p. 18), che vengono ostacolati nell’acceso a spazi e servizi. Se oggi

questi meccanismi sono particolarmente evidenti nelle megalopoli o nelle grandi città europee e americane (Sennet, 1991; Sassen, 1997; Secchi, 2013), la questione dell’esclusione sociale a livello spaziale in ambito urbano era già stata identificata proprio da Lefebvre, che nel suo testo “Il diritto alla città” chiama “segregazione” (Lefebvre, [1968] 2014). Secondo il filosofo, il grado di segregazione di uno spazio può essere misurato secondo indici e criteri che permettono di analizzare fenom-enologie diverse. Criteri ecologici evidenziano “bidonville, tuguri, decadimento del centro della città”; criteri formali mettono in luce “il deterioramento dei segni e significati della città” o il “degrado dell’urbano attraverso lo smembramento dei suoi elementi architettonici”; criteri sociologici sottolineano differenze e anomalie nei “livelli di vita e modi di vivere, gruppi etnici, culture e subculture” (Lefebvre, ivi., p. 94). Questi temi oggi ritornano, in forme diverse, più o meno acute, come mani-festazione di problemi sociali differenti. Nuovi profili sociali sono emersi dalla crisi che ha seguito il crollo finanziario del 2008 e le crisi politico-belliche hanno origi-nato nei territori europei flussi di persone e di emergenze non prevedibili. La crisi dei mercati e la crescente incertezza del mondo del lavoro sta mettendo a rischio fasce di cittadini precedentemente “al sicuro” e che ora sono invece sono “il volto di nuovi

problemi”16 (Saraceno, 2015). Se nel 2008 già il 17% della popolazione europea è a

rischio di esclusione sociale, questo dato dopo la crisi raggiunge il 24,4 % nell’arco 2013-2014 (Eurostat, 2015). “Gli individui, lasciati a sé stessi, sono sempre più soli. Chi non ha sufficienti risorse per far fronte ai nuovi giochi, arretra o cade. I tasselli della protezione, dei diritti dell’uguaglianza si moltiplicano e diventano sempre più piccoli” (Bianchetti, 2016, p. 47). Patrick Le Galés, già all’inizio degli anni 2000, distingue tre processi che portano ad una differenziazione sociale la quale si traduce a livello spaziali in situazioni ingiuste, in polarizzazioni territoriali, ora quanto mai acuti ed evidenti: le trasformazioni del mercato del lavoro; l’indebolimento dei legami sociali, in particolare familiari; i limiti o il ridimensionamento delle politiche sociali e l’effetto sulle possibilità di accesso ai servizi (anche la casa) (Le Galés, 2002, p. 118). Se si sposta poi l’attenzione dai territori occidentali a quelli dei paesi in via di sviluppo (Secchi, 2014, Harvey, 2008, Nussbaum, 2011), si nota come la consist-enza spaziale sia riflesso di una struttura sociale eccessivamente differenziata, una differenza sostanziale, dolorosa. Tra gli altri, David Harvey ricorda come “in queste condizioni, gli ideali di identità, di cittadinanza, di appartenenza e di una politica urbana coerente, già minacciati dal diffondersi epidemico dell’etica individualista neoliberista, diventano molto più difficili da mantenere” (Harvey, 2008, in 2012, p. 25).

Strumenti e politiche per una “città giusta” — Ma allora cosa si intende per “città

giusta”? E come realizzare questo progetto, o meglio, ideale, a livello spaziale, se ciò è possibile? Anche se recentemente l’ideale di “giustizia”, come ricorda Fainstein, ha ispirato politiche di intervento sulla città in opposizione alla visione neo-liberale, ciò non è sufficiente per assicurare che la città sia in effetti giusta. Cristina Bian-chetti nel suo ultimo scritto analizza le condizioni del progetto urbanistico in epoca neo-liberale, e ricorda come una ricca stagione di progetti di intervento sulla città

16 “La diffusione della povertà non riguarda solo chi si mette in coda a una mensa, o a uno sportello che distribuisce pacchi alimentari o vestiti, o a un dormitorio. Riguarda chi fatica ad arrivare a fine mese, pur riducendo all’osso i consumi; chi fatica a pagare la mensa scolastica per i figli, o non può permettersi di mandarli in gita o a fare qualche giorno di vacanza.” (Saraceno, 2015, p.27 e segg.).

Occupazione de Puerta del Sol,

Madrid, 2011. Premiato nel 2012 dall'European Prize for Public Space. I manifestanti avevano organizzato degli accampamenti dotati di servizi condivisi come biblioteche e nursery, creando luoghi di confronto e supporto in una città effimera ma democratica. (foto: The Guardian)

esistente a cavallo tra anni ’90 e anni 2000 ha contribuito a una costruire retoriche partendo dall’accostamento di due concetti: qualità urbana e giustizia spaziale.

“Il primo termine” - spiega - “non privo delle ambiguità di sempre, si ridefinisce attorno a comfort, nuova estetica, cadre de vie […]. Il secondo è inteso come distribuzione egualitaria di questa stessa qualità in un contesto di diversità e diseguaglianza. La pretesa è che, insieme, qualità urbana e giustizia spaziale possano costruire una città abitabile. […] In altri termini, tutto si risolve in un transito tra un’ipotesi difficile da verificare e una promessa difficile da mantenere.” (Bianchetti, 2016, p. 49).

Perché in effetti gli strumenti per realizzare questa promessa sono spesso incerti o insufficienti.

Nel suo testo “The just City”, Fainstein mette in luce come la discussione teorica circa questo tema non si sia trasformata adeguatamente in un set di strumenti pratici per orientare il progetto urbano; cerca di chiarire come i governi locali possono intervenire sulla città esistente con politiche e scelte operative che permettono di implementare sullo spazio il principio della giustizia spaziale (Fainstein, 2010). Gli interventi di trasformazione urbana ‘dall’alto’ possono, come noto (Jacobs, 1961; Sennett, 2012), innescare o acuire situazioni di esclusione o di valorizzare un’area a discapito di un’altra (e delle sue popolazioni insediate); certe operazioni, se non gestite adeguatamente, possono originare situazioni ingiuste, anche a partire da obiettivi e valori “giusti”. Pertanto, suggerisce la politologa, le politiche locali e i programmi di intervento devono lavorare attraverso processi decisionali delibera-tivi (Rawls, Dewey, Arendt) in maniera di volta in volta critica e propositiva su temi in realtà complessi - ma spesso assunti in maniera a-critica - quali la diversità e l’equità .

Continuando, Fainstein però mette in guardia dal concentrarsi unicamente sui processi locali, ma di considerare che piuttosto un vero cambiamento di prospettiva,

per la costruzione di una “città giusta” può avvenire ad un livello superiore, statale17:

17 Anche Nussbaum afferma come la “theory of social justice”, la teoria per la giustizia Gli spaz dell'educazione come luoghi

per il benessere della comunità. Dall'alto: KARO*, Architektur+Netzwerk,

Open-Air Library, Magdeburgo,

Germania, 2009; Kaptein Roodnat,

Kunsttoepassing De Paradijsvogel, Den

Haag, Paesi Bassi, 2006; H. Hertzberger, De Titaan School, Horn,

“It is not within the power of municipal governments to achieve trans-formational change. Only the nation state has this kind of leverage, and the more egalitarian cities of Europe are in fact underpinned by strong national welfare programmes” (Fainstein, 2013, p. 14).

Ovvero, analizzando il caso europeo, le città che offrono spazi equi, giusti apparten-gono a nazioni in cui la struttura del welfare state è forte. Infatti, se il welfare state è un sistema per la redistribuzione reddituale, questo a livello spaziale si traduce in una buona attrezzatura della città. Anzi, il progetto delle attrezzature ad uso collettivo (che sono diretta espressione del welfare state a livello fisico) sono un mezzo per la redis-tribuzione e riequilibrio territoriale, quindi per la costituzione di territori più acces-sibili, più abitabili, più “giusti”. Se concepite assieme al sistema dell’accessibilità, della mobilità, degli “eccipienti urbani” (Munarin e Tosi, in Officina Welfare Space, 2011), queste costruiscono la cosiddetta “‘infrastruttura urbana’, quell’apparato che non produce direttamente ricchezza individuale ma contribuisce al benessere di una comunità/collettività” (ivi, p. 17). Questo in effetti è evidente nei territori dei Paesi nordici, in cui storicamente (e oggi, tutt’ora) lo spazio è espressione di un sistema di governo democratico, guidato da principi di universalismo e uguaglianza (Alestalo, Hort, Kuhnle, 2009; Moisio&Leppänen, 2007), in cui l’accesso ai servizi e alle attrez-zature è garantito a tutti, indipendentemente dalla base reddituale degli individui. Tali questioni verranno riprese più specificamente per il contesto finlandese nella seconda parte della presente ricerca.