All'inizio il teatro era il canto ditirambico: il popolo libero che cantava all'aperto. Il carnevale. La festa.
(Augusto Boal) Il riflesso tra vittime dirette, i desaparecidos, e il resto della cittadinanza apre nuovi confronti, quello tra memoria e identità, e tra identità e comunità. Per sillogismo, memoria e comunità risultano strettamente connesse tra loro. Nel testo più volte citato, Diana Taylor sottolinea come il problema dell’identità argentina sia molto complesso: «Argentineans were not born Argentineans; their nationally needed to be invented57». Gli argentini non sono nati argentini, perché la loro identità è stata inventata e reinventata ricorrentemente.
Dopo ogni evento traumatico, il sentimento di appartenenza richiede di essere ricostruito sulla base di nuovi fatti storici e di nuovi risvolti sociologici e politici. L’antropologa americana conia un termine pregnante e intraducibile con una sola parola “nation-ness”, che comprende insieme nazionalità, nazione, nazionalismo, appartenenza, identità.
La “nation-ness” può essere immaginata come l’insieme dei fattori culturali che determinano l’essenza di un luogo e decretano l’appartenenza a una nazione, aldilà dello spazio geografico di riferimento. Si tratta, evidentemente, di un concetto universale.
Nel caso argentino “nation-ness” si carica di significati ulteriori: dentro possiamo immaginare l’identità apparente e quella sostanziale, quella disfatta e quella ricostruita, l’identità individuale e l’identità collettiva, quella delle vittime e quella dei carnefici.
Il teatro è un luogo dove si costruisce “nation-ness”; in uno stato di crisi, infatti, il teatro rappresenta l’opportunità per i cittadini di riconoscere se stessi in quanto membri di una comunità attraverso l’incontro con altri cittadini che altrimenti non avrebbero mai conosciuto. Afferma la Taylor: «otherness either disappears or becomes absorbed as sameness58». E ancora: «the idea of an imagined community underwent metamorphosis. Argentineans felt as if they
57 Diana Taylor, cit., p. 91. 58
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were in exile, an internal exile, as the signs, sights, and codes of their familiar environment became progressively stranger and more tarrying. They could no longer read the signs59».
È vero che torture e stermini hanno contraddistinto tutte le epoche e, se pensiamo al Novecento, pochi luoghi del mondo ne sono rimasti esenti. Ma ciò che colpisce della storia argentina dell’ultima dittatura è il fatto che il terrore sia stato legittimato come progetto globale, che le forze della repressione siano diventate occulte al punto da non potere essere smascherate definitivamente nemmeno con la fine della dittatura stessa. Il male non è mai stato identificabile, ma sempre nascosto dietro un apparente benessere sociale. Così è stata ufficializzata la figura del desaparecido che, sebbene presente in numerosi conflitti, soprattutto in America Latina, non era mai esistita in maniera così sistematica e quotidiana come in Argentina.
Abbiamo visto come i processi mnemonici, necessari per ricreare un sistema di valori riconoscibile e condiviso, siano stati fortemente intaccati dalla peculiarità della vicenda argentina. L’assenza del corpo ha decretato l’inseguimento di un’identità impossibile. Una intera generazione è stata sterminata, lasciando un vuoto che neppure le testimonianze dei sopravvissuti hanno potuto colmare. Di fronte all’assenza, parte della comunità civile ha deciso di reagire con la costruzione di “presenza”, e il teatro si è dimostrato uno degli strumenti più validi ed efficaci di riappropriazione del sentimento identitario, sia sul piano strettamente individuale che su quello collettivo. «L'arte modifica i modificatori della società, può trasformare i trasformatori, perché la sua azione agisce sulle coscienze di chi poi agirà nella realtà60», sosteneva Augusto Boal, direttore del Teatro Arena di Saõ Paulo e ideatore del Teatro dell’Oppresso. Il suo lavoro teatrale ha avuto un profondo valore artistico e sociale. Boal parte dalla convinzione che il teatro è sempre politico, non è mai un'attività fine a se stessa, anche quando non tratta specificamente di temi politici. Teatro politico è un'espressione pleonastica, come dire “uomo umano”: come tutti gli uomini sono umani, così tutto il teatro è politico. Da Aristotele in poi la parola politica non si riferisce solo all'arte del governare, ma a tutto ciò che riguarda i cittadini, le loro opinioni e azioni. Il termine
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Ivi, p. 99.
60 Augusto Boal, Il teatro degli oppressi: teoria e tecnica del teatro latinoamericano, a
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politica è ormai inflazionato a tal punto da perdere il suo valore originario. Per riflettere sulla relazione che la politica intrattiene con l'arte e la vita, essa va intesa come un'attività che “non crea il benessere né il significato delle cose: crea o rifiuta le condizioni di possibilità”, quelle che le persone richiedono, reclamano e inventano per relazionarsi giorno dopo giorno con le istituzioni. Da questa prospettiva le diverse espressioni dell'arte come pratica collettiva si manifestano come opzioni non solo estetiche ma anche politiche, in quanto riuniscono persone differenti portandole a condividere un’esperienza comune. Boal usa il teatro come mezzo di conoscenza e come trasformazione della realtà interiore, relazionale e sociale. Il suo progetto ha tra le sue finalità quella di far riscoprire alle persone la propria teatralità, vista come mezzo di conoscenza del reale, e di rendere gli spettatori protagonisti dell’azione scenica, affinché lo siano anche nella vita. Si basa sull’ipotesi che "tutto il corpo pensa", in altre parole su una concezione "globale" dell’uomo visto come interazione reciproca di corpo, mente, emozioni. Per conseguire questo scopo, Boal ha elaborato varie tecniche (teatro giornale, teatro forum, teatro immagine, teatro invisibile), in grado di valorizzare la cultura degli “oppressi” e di de-professionalizzare il teatro, rompendo la barriera attore-spettatore. Quasi tutto il teatro latinoamericano è sempre stato un teatro di critica politica e, già a partire dagli inizi del Novecento, ha assunto delle caratteristiche che hanno a che vedere con una idea del “politico” strettamente connessa a un ideale utopico.
Il teatro argentino della post-dittatura risponde più che mai a questa idea di teatro intrinsecamente politico: esso si è fatto carico degli orrori della dittatura e della necessità di costruire una memoria del dolore. Ma non si è mai trattato di mero realismo: il teatro funziona come luogo dell'altro, nel quale si criticano gli errori del reale e si fonda uno spazio nuovo, quello del possibile. È in questo modo che il teatro si traduce in prassi, in azione concreta e quindi diventa politico.
Secondo il filosofo argentino Arturo Roig, la funzione utopica del teatro si articola in tre modi: come funzione critico-regolatrice, come funzione liberatrice del determinismo legale e come funzione anticipatrice del futuro. L'esercizio della funzione utopica, che nasce da una descrizione della realtà che si desidera modificare, propone in maniera diretta o indiretta una trasformazione del presente. Al contrario dell'utopia tradizionale che propone
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un mondo senza spazio e senza tempo, la funzione utopica del discorso teatrale entra nella storia come pianificazione del tempo futuro61.
Nel complicatissimo panorama argentino degli anni 2000, c'è e ci sarà di tutto: memorie attive e memorie ostinate, processi involontari di rimozione e intenzioni di oblio. Ma tale lotta è vitale perché esiste, ineluttabilmente, una necessità generazionale di ricordare.
Come afferma il filosofo Tzvetan Todorov «il buon uso della memoria è quello che serve a una causa giusta, non quello che si accontenta di riprodurre il passato62»; i fatti del passato si possono leggere in due modi differenti, in maniera letterale o esemplare. Nel primo caso si tratta di un tipo di memoria feticista che considera il passato insuperabile e sacro; la memoria esemplare, invece, fa in modo che il passato si converta in principio di azione per il presente, è una memoria che rompe i miti, desacralizza gli eroi, denuncia le ingiustizie, critica i poteri e i valori consacrati.
È proprio così che Buenos Aires ha imparato a ricordare.
Il rapporto fra teatro e cittadinanza è stato duplice: da un lato gli artisti hanno sentito l’urgenza di parlare della realtà e di tentare di esorcizzarla; dall’altro è stata la comunità stessa a cercare nel teatro un mezzo di analisi e di riscatto. Un esempio concreto di come il teatro sia diventato uno strumento nelle mani della cittadinanza stessa è l’esperienza del Teatro por la Identitad63,
un’iniziativa artistica, nata il 5 luglio del 2000, all'interno del gruppo delle
Abuelas de Plaza de Mayo, come una nuova strategia di azione nel progetto di
ricostruire non solo l'identità dei nipoti adottati, ma l'identità collettiva di un paese dove oggi vivono più di 300 giovani cui la dittatura ha rubato la storia. Il
Teatro por la Identitad intende far leva sulla presa di coscienza e sull'azione
trasformatrice dei cittadini in un paese che ancora non ha realizzato i diritti
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Arturo Andrés Roig, Proceso civilizatorio y ejercicio utopico en Nuetsra América, San Juan, Editorial Fundaciòn Universitaria de San Juan, 1995, cit. in Lola Proaño-Gòmez,
Poèticas de la globalizaciòn en el teatro latinoamericano, Irvine (California), Gestos,
2007, p. 32.
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Tzvetan Todorov, Memoria del male. Tentazione del bene, Milano, Garzanti, 2001 (ed.or. Mémoire du mal. Tentation du bien, Paris, Laffont, 2000), cit. in Diego Rosemberg, Teatro comunitario argentino, Buenos Aires, Emergentes, 2009, pag. 25.
63 Il ciclo del Teatro por la identitad esordì con lo spettacolo Vos sabés quien somos? Nel
novembre del 1997 presso il Teatro Nacional Carvantes. L'opera fu scritta da Roberto Tito Cossa e diretta da Leonor Manso y Roberto Villanueva Cosse. Cfr. in particolare il sito web www.teatroxlaidentidad.net
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basilari del suo popolo. Si tratta di un immenso ciclo di teatro in cui centinaia di teatranti, musicisti, drammaturghi, scenografi, dotati o meno di esperienza nel campo, mettono al servizio delle Abuelas, in maniera assolutamente solidale, il loro giorno di riposo per contribuire al recupero dei quasi 500 ragazzi che sono ancora portatori di una identità diversa da quella originaria. Si realizzano spettacoli ogni lunedì in diverse sale di Buenos Aires (e da qui il fenomeno si è oggi esteso in altre città del paese e all'estero), coinvolgendo un pubblico giovane non abituato ad andare a teatro, e trasformando il lunedì in un giorno teatrale. L' Associazione delle Abuelas non si avvicina solo ai giovani della capitale, infatti molti dei ragazzi e delle ragazze che hanno recuperato la propria identità, durante questi anni, provengono da altre zone del paese. Le
Abuelas ricevono continuamente richieste da altre province e capita spesso
che, per difficoltà economiche o psicologiche, risulti difficile per molti giovani arrivare fino alla città di Buenos Aires. Per questo motivo, all'interno di un programma finanziato dall'Unione Europea, le Abuelas hanno iniziato a percorrere il Paese per rispondere a richieste di persone che manifestano dubbi sulla loro identità, ma soprattutto per dare vita a una Rete Nazionale per il Diritto all'Identità. Questa rete si occupa del diritto all'Identità nelle differenti province del Paese, attraverso progetti di formazione, informazione e orientamento dei giovani di identità incerta. All'interno dello stesso progetto si realizzano in tutto il Paese seminari di aggiornamento e attività di informazione. Ogni rete è formata da organizzazioni governative e non governative, enti e associazioni civili, unendo tutte le persone interessate a collaborare alla lotta delle Abuelas al fine di ritrovare i propri nipoti ma anche di difendere il diritto all'identità come concetto universale. Non si tratta solo di risolvere i casi di “appropriazione indebita” avvenuti durante la dittatura militare, ma anche di evitare che si ripetano questi crimini. Negli anni, infatti, le tematiche si sono ampliate a tutto ciò che riguarda la diversità e l'oppressione, includendo i problemi dell'immigrazione, delle comunità aborigene e di tutti gli esclusi. Così si esprimono i protagonisti di questa esperienza a proposito della efficacia del teatro come strumento politico e sociale:
El teatro es nuestra herramienta para cumplir con una función que consideramos esencial: actuar para no olvidar,
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actuar para encontrar la verdad, actuar hasta encontrar el último de los nietos. Está en nuestra cotidianeidad cuando convivimos normalmente con genocidas, está en nuestro día a día, cuando quizá nos cruzamos en la calle con personas que ignoran que su identidad fue violada desde su nacimiento. Y como estas sombras van caminando a nuestro lado, hacemos teatroxlaidentidad para combatirlas, para disolverlas, para nunca descansar en el trabajo de exorcizarlas. [...] Y esto es el teatro: duda, acción, emoción y convivencia.
“Recitare per non dimenticare, recitare per trovare la verità, recitare fino a trovare l’ultimo dei nipoti”. Nei momenti di transizione politica, sociale ed economica, il teatro, infatti, può rappresentare un luogo di riconoscimento e di ridefinizione dell'esperienza reale. Di qui la funzione dell'arte come “metafora epistemologica”, nell'accezione di Eco: «in un mondo in cui la discontinuità dei fenomeni ha messo in crisi la possibilità di una immagine unitaria e definitiva, l'arte suggerisce un modo di vedere ciò in cui si vive, e vedendolo accettarlo, integrarlo alla propria sensibilità64». L'opera d'arte esprime, attraverso la sua forma, nel linguaggio della metafora, la concezione della realtà caratteristica della scienza, o comunque della cultura, del tempo in cui viene prodotta. Le riflessioni sul ruolo sociale dell'arte si sviluppano in modo significativo in un momento storico ben preciso. È negli anni Settanta che si verifica una vera e propria crisi teatrale, inevitabile conseguenza di una crisi ben più generale. In America Latina sono gli anni dei golpes militari, in Europa e nel Nord America esplodono le lotte operaie, il movimento femminista, le manifestazioni studentesche. Molti giovani artisti cominciano a sentire il bisogno di essere parte attiva delle vicende politiche, di contribuire a cambiare il mondo con uno strumento di cui riescono autonomamente a dotarsi: il teatro. Si tratta di dare al teatro un significato sociale. Gli artisti si confrontano con nuovi interrogativi che riguardano in primo luogo il ruolo del teatro: a cosa serve il teatro? A chi si rivolge? Per rispondere a queste domande si creano nuovi modi di intendere il processo drammaturgico, la funzione dell'attore, lo spazio teatrale. Si assiste a una vera e propria rivoluzione teatrale, attraverso la messa in discussione di
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modelli e convenzioni. Cominciano a emergere una cultura del collettivo teatrale e una serie di pratiche che nel loro insieme si possono ricondurre all'esperienza del teatro-laboratorio. La cultura del collettivo teatrale è attraversata da una profonda tensione, dalla necessità di rompere con le pratiche individualistiche per iscrivere la presenza del singolo in un orizzonte di gruppo. I termini ricorrenti nel dibattito della generazione hanno fatto riferimento costante all'idea di comunità teatrale65.
Il teatro invade spazi non teatrali, come le strade, le scuole, le carceri, i manicomi, le fabbriche, luoghi fin a quel momento esclusi dall'espressione artistica e, oltre a rivolgersi a fasce particolari della comunità, da sempre emarginate e vittime degli eventi storici, è in grado di creare nuove comunità. La rivoluzione teatrale che negli anni Settanta trova nell'Europa e nel Nord America i suoi orizzonti privilegiati, a partire dagli anni Ottanta ridisegna nuovi scenari. Assistiamo a un passaggio del testimone: mentre l'Occidente indietreggia di fronte a una crisi economica e culturale che riporta il teatro all'interno dell’istituzione teatrale sotto una spinta restauratrice, il Sud America si risveglia da un periodo oscuro e porta avanti un percorso già tracciato. Gli anni Settanta sono stati per quasi tutti i paesi dell'America Latina anni di chiusura e di oscurantismo, causati dalle dittature militari. In Brasile con il golpe del 1964 si instaura un regime militare che per vent'anni sottomette il paese; nel 1973 è la volta del Cile, con il colpo di stato di Pinochet, e dell'Uruguay, con il colpo di stato della giunta militare; nel 1976 inizia la dittatura militare in argentina che si conclude nel 1983. La stampa e i mezzi di comunicazione di massa, compreso il teatro, hanno subito maggiormente il peso della repressione politica. Ma proprio questi momenti di pericolo e di annientamento delle idee hanno generato le migliori produzioni teatrali, sotto l’aspetto artistico e organizzativo. L’idea della comunità – non solo teatrale – si è fatta strada a partire da quegli anni di oscurantismo per poi emergere con chiarezza alla fine della dittatura. Individualismo e senso comunitario si sono avvicendanti e completati reciprocamente nel corso degli anni.
Il sociologo Zygmunt Bauman, che per anni ha orientato la sua indagine sul rapporto tra individuo e società, tra singolo e collettività, torna sul tema della comunità con uno dei suoi ultimi libri, Communitas. Uguali e diversi nella
65 Claudio Bernardi, Benvenuto Cuminetti, Sisto Dalla Palma (a cura di), I fuoriscena. Esperienze e riflessioni sulla drammaturgia nel sociale, Milano, Euresis, 2000, pp. 16-17.
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società liquida, un’intervista a cura si Carlo Bordoni. Si tratta di un ulteriore contributo alla riflessione e alla comprensione delle dinamiche sociali che caratterizzano la modernità liquida.
Superando definitivamente la concezione romantica di Ferdinand Tönnies di una originaria e perduta Gemeinschaft, e a partire dalle posizioni di Victor Turner, da cui viene ripreso l’uso del termine latino, Bauman pone a confronto societas e communitas. Due concetti complementari e imprescindibili nell’esistenza di ciascun individuo: la comunità sopravvive nel locale, nel luogo in cui si è nati, nell’ambiente che ancora ci rassicura; la società è il mondo intero, è la vastità, lo spaesamento, la solitudine. Siamo individui condannati alla marginalità, figli di una società che ci abbandona, ci esclude e al tempo stesso vittime di una comunità di provenienza che ci imprigiona. Libertà o sicurezza? Come afferma il sociologo polacco «sugli uomini grava questa maledizione: la costante necessità di scegliere66».
Come spesso accade, per definire un concetto si guardano le differenze: lo studioso comincia col dirci ciò che la comunità non è, ma senza alcun piglio retorico. La comunità, quindi, non è la società e non è la rete. Nella rete infatti – i social network per intenderci – siamo liberi, siamo artefici delle nostre azioni, e per questo forse sovraesposti, in-sicuri. La comunità, invece, proteggendoci ci vincola, è solida, sempre presente ma per questo esigente. Già nel 1992 Bauman definiva la postmodernità come l’età della contingenza e, allo stesso tempo, come «l’età della comunità, del desiderio smodato di comunità, della ricerca di comunità, dell’immaginazione di comunità»1. In che modo la comunità può rappresentare un appiglio duraturo, come essa può renderci individui liberi? I fili sono troppo imbrigliati e il saggio non offre ricette risolutive, ma ci consente di porci continue domande. La comunità dovrebbe innanzitutto essere generatrice di solidarietà, ma questo non è un dato acquisito, va conquistato. Ad esempio, secondo Bauman il precariato andrebbe affrontato attraverso la solidarietà, quindi con il passaggio dalla “classe in sé” alla “classe per sé”: bisognerebbe unirsi come facevano gli operai nella società industriale. Ma anche ammettendo la solidarietà come elemento intrinseco alla comunità, questa non cesserebbe di essere gabbia, vincolo, autorità. Probabilmente è l’uniformità il rischio da combattere, ma il circolo è vizioso: la
66 Zygmunt Bauman, Communitas. Uguali e diversi nella società liquida, Roma, Aliberti
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solidarietà nasce spesso dall’uniformità, siamo solidali quando condividiamo gli stessi problemi. Ecco allora che l’idea di una fantomatica comunità senza uniforme veste i panni dell’utopia. Il paradosso di questo ragionamento risiede nel binomio comunità-identità. L’una rappresenta il limite dell’altra: l’identità tende ad essere esclusiva, la comunità, invece, inclusiva.
Per Bauman una delle cause più evidenti della crisi della società liquida risiede nell’espropriazione subìta dalla politica, mutilata di ogni forma di potere reale. Non esistono istituzioni capaci di agire, raccogliere e realizzare le esigenze e i bisogni di una collettività. «Non abbiamo simili istituzioni», afferma il sociologo, «perché la nostra politica è limitata al livello dello Stato-nazione, mentre il potere si trova già oltre le frontiere nazionali67». Il rapporto tra globale e locale è il tormentone della nostra epoca, che si guardi il mondo dal punto di vista dell’individuo, della città, dello Stato. C’è sempre un globale con cui misurarsi e il metro è sempre troppo corto. Dal punto di vista delle città, di