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Il concetto di infermità mentale e di malattia mentale

Come è stato detto all’inizio di questo capitolo il tema dell’imputabilità è di nostro interesse se messo in relazione con il concetto di malattia mentale; è quindi opportuno, dopo aver osservato ed analizzato gli articoli relativi a questo argomento presenti nel codice penale, ripercorrere i vari orientamenti giurisprudenziali che si sono succeduti nel tempo sul concetto di infermità.

L’Art. 88 c.p. afferma che: “Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il

fatto, era per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere e di volere.”

Il nostro ordinamento, ai fini del riconoscimento del vizio, totale o parziale, di mente, richiede la sussistenza di uno stato di mente, derivante da “infermità”, tale da escludere o da scemare grandemente la capacità di intendere e di volere. L’alterazione della mente deve quindi dipendere da una infermità, la quale però, non deve essere necessariamente di natura psichica, potendo trattarsi anche di una “infermità fisica”, purché concretamente incidente sulla capacità di intendere e di volere del soggetto, si che qualsiasi situazione morbosa, anche non ben definibile clinicamente, è idonea a configurare il vizio di mente, purché la sua intensità sia tale da escludere o diminuire grandemente le capacità intellettive o volitive del soggetto. Il grado di incidenza della malattia sulla capacità di intendere e di volere deve essere valutato in concreto e non con richiami a classificazioni scientifiche enunciate in astratto, poiché le malattie mentali hanno portata diversa sui singoli organismi e si

ripercuotono, quindi, in modo più o meno grave sulle facoltà intellettive dei singoli soggetti.

La nozione giuridica di infermità rilevante ai fini dell’esclusione della capacità di intendere e di volere deve essere ritenuta compiuta ed integrata nell’ipotesi di accertata “malattia di mente” in senso medico legale. Ne consegue che lo stato di mente tale da escludere o da scemare grandemente la capacità di intendere e di volere deve necessariamente essere dipendente da una causa patologica che, quantunque non inquadrabile nelle figure tipiche della nosografia psichiatrica, abbia alterato, sia pure temporaneamente, i processi dell’intelligenza e della volontà. La malattia di mente rilevante per l’esclusione o per la riduzione dell’imputabilità è solo quella medico- legale, dipendente da uno stato patologico serio, ne consegue che la capacità di intendere e di volere non è esclusa dal fatto che il soggetto sia affetto solo da anomalie psichiche o da disturbi della personalità.

Il concetto di malattia mentale, recepito dal nostro codice, è più ampio di quello di malattia mentale, di guisa che, non essendo tutte le malattie di mente inquadrate in una classificazione scientifica delle infermità, nella categoria dei malati di mente potrebbero rientrare anche quei soggetti affetti da nevrosi e psicopatie, nel caso che queste si manifestino con elevato grado di intensità e con forme più complesse tanto da integrare gli estremi di una vera e propria psicosi. In tal caso è comunque necessario accertare l’esistenza di un effettivo rapporto tra il complesso delle anomalie psichiche effettivamente riscontrate nel singolo soggetto e il determinismo dell’azione delittuosa da lui commessa, chiarendo se tale complesso di anomalie psichiche, al quale viene riconosciuto il valore di malattia, abbia avuto un rapporto motivante col fatto delittuoso.

Gli stati emotivi e passionali, che, a norma dell’art. 90 c.p., non escludono né diminuiscono l’imputabilità, possono eccezionalmente avere rilievo allorquando travalichino la sfera puramente psicologica e degenerino in un vero e proprio, anche se transuente, squilibrio mentale. 12

                                                                                                               

Sebbene il legislatore del 1930 si sia limitato a estendere la rilevanza dell’incapacità alla sola patologia mentale clinicamente accertabile la dottrina è sempre stata concorde nel ritenere che il concetto sia in realtà ben più ampio di quello di malattia mentale.

Inoltre, i contributi della scienza psichiatrica non sono applicabili in via meramente meccanica in sede giuridica; i motivi sono svariati, innanzitutto, le finalità delle due materie sono differenti, da una parte vi è la necessità di applicare una terapia dall’altra il constatare l’assoggettabilità a pena e l’individuazione del trattamento sanzionatorio applicabile.

Non è, quindi, detto che giudice e psichiatra leggano la medesima patologia mentale al medesimo modo, essa può essere interpretata a seconda delle necessità in maniera differente

Nella normativa attuale l'oggetto del giudizio di imputabilità passa attraverso due fasi: a) accertamento della infermità; b) graduazione del pregiudizio che tale infermità ha provocato sulla capacità di intendere e di volere. La giurisprudenza ai fini del giudizio di cui agli artt. 88 e 89 c.p., deve quindi richiamarsi al concetto di infermità elaborato dalle scienze psicopatologiche.

Il problema è che queste scienze non sono certe ma caratterizzate da diversi paradigmi, il che porta ad avere differenti orientamenti giurisdizionali a seconda di quale paradigma si sceglie di applicare, il che genera inesorabilmente confusione e incertezza.

Ogni volta che il diritto ha a che fare con l’ambito medico si scontra col fatto che mentre l’uomo e la medicina funzionano secondo situazioni che si sviluppano e modificano nel tempo in maniera graduale e questo per il diritto è problematico. Quello che servirebbe sarebbe sapere il momento esatto in cui una persona è viva (se parlassimo ad esempio di aborto) , è morta (se parlassimo di eutanasia) o, nel nostro caso, ha superato quel punto di non ritorno mentale che la rende incapace di intendere e di volere.

In ogni caso paradigmi principali che possiamo riscontrare sono tre, quello medico, quello psicologico e quello sociologico.

Al primo, sono riconducibili quelle sentenze che qualificano l’infermità di mente come qualcosa che va oltre alle semplici anomalie di personalità, si ha, quindi, un interpretazione molto restrittiva che delimita il vizio totale di mente ai soli casi in cui il disturbo di personalità sia legato a una deficienza organica.

Tuttavia, non tutti i disturbi psichiatricamente catalogati possono essere considerati infermità rilevanti ex art 88 c.p. Infatti, le nevrosi e le psicopatie non escluderebbero la capacità di intendere e di volere. In tali casi, la ragione della non rilevanza, ai fini della incapacità, affonda le proprie radici in considerazioni politico-criminali di natura general-preventiva. Vi sono, inoltre, sentenze che pur appartenendo al paradigma medico riconoscono come sufficiente, per il riconoscimento di un vizio totale o parziale di mente, l’esistenza di uno stato morboso, indipendentemente dall’accertamento di un suo substrato organico o di una sua classificazione psichiatrica. È quindi evidente la limitazione intrinseca a questo paradigma.

Al paradigma medico si contrappone il cosiddetto paradigma psicologico. In esso rientrano le sentenze che affermano la necessità di una concreta valutazione del disturbo psichico, e che rifiutano riferimenti e classificazioni scientifiche enunciate in astratto.

In sostanza si afferma che per la sussistenza del vizio di mente non è sufficiente che il giudice riconduca l'azione dell'imputato sotto un modello di infermità incontestabilmente affermato, ma è necessario che lo stesso indichi i dati anamnestici, clinici, comportamentali o sorgenti dalle stesse modalità del fatto, rilevatori dell'asserito quadro morboso.

Questo riconduce sotto l’ala del concetto di infermità mentale tutti quei disturbi mentali atipici che il paradigma medico aveva abbandonato creando così una definizione meno restrittiva e vincolante; qualunque condizione morbosa, anche se difficilmente caratterizzabile sotto il piano clinico, può integrare il vizio di mente, sempre che presenti connotazioni tali da escludere o diminuire le normali capacità intellettive e volitive.

Questo è il paradigma che oggi viene tenuto in considerazione, ciononostante ne esiste un altro, definito paradigma sociologico il quale nasce negli anni ’70 e sostiene

che la malattia mentale è un disturbo psicologico avente origine sociale, non più attribuibile ad una causa individuale di natura organica o psicologica, ma a relazioni inadeguate nell’ambiente in cui il soggetto vive.

Si nega la natura fisiologica dell’infermità e pone in discussione anche la sua natura psicologica ed i principi di natura classica, proponendo, in sostanza, un concetto di infermità di mente come “malattia sociale”.13

Questo modello non trova però alcun riscontro nella prassi penalistica in tema di imputabilità. Questa disertazione è dovuta a un timore profondamente radicato nella dottrina ossia quello di allargare eccessivamente le maglie del vizio di mente fino a ricomprendere al suo interno qualunque generico disturbo psichico di origine sociale, causando così un deperimento della funzione general preventiva dell’ordinamento penale volta a prevenire la commissione del rato tramite la minaccia di una pena. Quindi l’orientamento più recente mira a riconoscere spazi di lucidità sempre più ampi al malato di mente, in quanto si ammette che il paziente, anche davanti a una diagnosi di malattia mentale, possa essere in grado di compiere responsabilmente delle scelte e di autodeterminarsi, ma questa è la posizione della psichiatria, nonostante tutto il diritto penale è ancora molto ancorato al paradigma medico che vede un assoluta incompatibilità tra la diagnosi di malattia mentale e l’idoneità del soggetto ad agire responsabilmente.

Volendo osservare uno spaccato della situazione europea riguardo al tema caldo della responsabilità penale legata alla malattia mentale potremmo osservare che la maggior parte dei sistemi penali, e particolarmente quelli vigenti in Europa, si basa sul concetto di responsabilità penale, considerato come elemento fondamentale.

In base a tale concetto, che concerne la capacità di discernimento e di libera autodeterminazione, l’autore di reato non può essere punito se non è capace di “rispondere” dei suoi atti.

In genere si constata che, nei sistemi penali europei, per i soggetti adulti vi è presunzione di responsabilità a partire da determinate età limite.

                                                                                                               

La legge penale precisa inoltre i casi specifici in cui l’autore di reato risulta esonerato da qualsiasi responsabilità per motivi riguardanti la sua persona ( e in particolare le sue condizioni psichiche), ovvero la circostanze dell’azione.

La legge penale svizzera definisce la responsabilità come la duplice capacità, al momento del fatto, di valutarne il carattere illecito e di autodeterminarsi in conseguenza di tale valutazione.

Un caso particolare è rappresentato dalla Svezia e dal Belgio, due paesi in cui il problema della responsabilità penale non si pone. In questi paesi, secondo Shreiber, l’unico problema che si pone è quello di stabilire quali sanzioni siano più adeguate al caso concreto: ciò che importa non è stabilire se il delinquente sia normale o anormale, responsabile o irresponsabile, in quanto la legge penale belga o svedese non forniscono alcuna definizione della normalità, dell’imputabilità e della responsabilità. È sufficiente, in rapporto alle esigenze di diritto penale, che siano fissate sanzioni, pene, misure di trattamento o di sicurezza adeguate a determinate categorie di delinquenti.”

La legge penale italiana, come è noto, stabilisce una distinzione tra responsabilità e imputabilità, che è tipica del nostro sistema. Ne consegue che l’esclusione dell’imputabilità comporta l’irresponsabilità penale del soggetto.

In balse alla classificazione suggerita da Schreiber, nella sua relazione al Colloquio criminologico di Strasburgo, la valutazione della responsabilità penale è realizzata per mezzo di tre metodi:

1. Il metodo psicopatologico-normativo è seguito nella maggior parte dei Paesi europei e consiste nello stabilire l’esistenza di malattie o disturbi psichici e di valutarne l’incidenza sulla capacità di intendere e di volere. Questo metodo è seguito in Germania, Danimarca, Olanda, Austria, Francia, Italia, Irlanda, Svizzera, Portogallo, Cipro, Grecia (con alcune eccezioni), Inghilterra (con alcune limitazioni). Circa i fattori psicopatologici, a volte la legge considera determinanti disturbi definiti, a volte fa riferimento a concetti molto generali, che sono interpretati in modo alquanto ampio ed estensivo. Circa l’elemento normativo, che in genere si riferisce a due distinte capacità (di

intendere e di volere), nella maggior parte dei Paesi europei l’esclusione di una sola delle due capacità è sufficiente per considerare il soggetto non punibile (con alcune eccezioni per l’interpretazione delle norme Mc Naughton in Inghilterra e Cipro).

2. Il metodo puramente psicopatologico considera non punibili i soggetti affetti da determinate malattie mentali, senza valutare la loro incidenza sulla capacità di intendere e di volere. È il caso della Norvegia e della Svezia. La legge svedese, che ignora il concetto di responsabilità penale, ha fissato una normativa di base alla quale le persone affette da determinate malattie o disturbi psichici non possono essere sottoposte a sanzioni punitive, ma debbono essere trattate soltanto con misure di trattamento psichiatrico. Lo stesso orientamento è seguito dal diritto penale inglese per quanto riguarda l’applicazione delle misure previste dal “Mental Healt Act”.

3. Il metodo puramente normativo non considera i problemi psicopatologici ma si riferisce unicamente all’esigenza di valutare se, al momento del fatto, il soggetto era capace di intendere e di volere. In nessuno dei Paesi del Consiglio d’Europa risulta attuato tale metodo che, comunque, tende a manifestarsi nei Paesi in cui l’elemento psicopatologico è interpretato secondo criteri molto estensivi.14

La perizia psichiatrica: funzione e problematiche del suo uso in ambito