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La giurisprudenza della cassazione

In tema di imputabilità o non imputabilità del serial killer e del malato di mente in generale la giurisprudenza della corte di cassazione si è espressa in modo differente nel corso dell’ultimo ventennio.

Nelle diverse ed ondivaghe pronunce si può osservare quel carattere duplice dell’imputabilità che abbiamo già descritto, è evidente come i giudici della Corte di Cassazione si esprimano a favore del paradigma medico o di quello psicologico a seconda del momento storico in cui si trovano. Ci sono momenti in cui viene privilegiata una rigorosità dell’applicazione del codice penale anche nei confronti di quei soggetti più “deboli” e quindi viene scelto il paradigma medico; in altri periodi storici, come quello in cui è stata pronunciata la più importante di questa sentenze, quella a Sezione Unite del 2005, si predilige invece una tutela dei soggetti più deboli della società e si vira quindi verso il paradigma psicologico.

È interessante osservare come non vi sia un momento storico preciso in base al quale prima si applica un paradigma e poi l’altro, quanto piuttosto un’alternanza tra i due.                                                                                                                

Quindi se da un lato esiste una corrente la quale afferma che la malattia di mente rilevante per l’esclusione o per la riduzione dell’imputabilità è solo quella medico- legale dipendente da uno stato patologico riconducibile nelle figure tipiche della nosografia psichiatrica; dall’altro lato esiste una corrente sempre più seguita negli ultimi anni che estende il concetto di vizio di mente al punto da includere tutte quelle condizioni abbastanza gravi da causare un’incapacità di intendere e di volere anche se non sono comprese tra i casi clinicamente riconosciuti e documentati.

Volendo portare un esempio di questa divergenza possiamo osservare che seguono la prima corrente numerose sentenze, tra le quali spiccano la n° 17853/09 Sezione I la quale afferma che “non causano difetto di imputabilità, ne compromettono la

capacità di partecipazione cosciente al processo, le anomalie caratteriali o alterazioni o disarmonie della personalità che non sono accompagnate da storia clinica, non sono inquadrabili neppure nel più ristretto concetto di disturbo mentale e non incidono sulla condotta criminale.” Ma anche andando indietro nel tempo la

sentenza n° 299/92 Sezione I recita: “alla stregua degli studi psichiatrici scientifici

ormai consolidati, si deve distinguere tra psicosi e psicopatia, l’una considerata vera e propria patologia mentale, tale da alterare i processi intellettivi o volitivi, l’altra da valutarsi alla stregua di una mera caratteropatia, cioè come anomalia del carattere, non incidente sulla sfera intellettiva o della volontà e, quindi, non tale da annullare o da scemare grandemente la capacità di intendere e di volere.”

Della seconda corrente, dal carattere meno restrittivo, è autorevole esempio la sentenza n° 9163/05 pronunciata dalla Cassazione in Sezioni Unite la quale asserisce che: “ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, anche i ‘disturbi

della personalità’, che non sempre sono inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali, possono rientrare nel concetto di ‘infermità’ purchè siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere e di volere, escludendola o scemandola grandemente, e a condizione che sussista un nesso eziologico, con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale.”

Secondo Paolo Della Noce, che tratta l’analisi di questa sentenza per “Psicologia e Giustizia”19, la definizione che il giudice deve dare del concetto di imputabilità deve avvenire, nonostante la presenza di una pluralità di paradigmi, attraverso la valorizzazione delle più aggiornate acquisizioni scientifiche.

Secondo Della Noce la corte va oltre affermando che la definizione di infermità mentale che il legislatore ha inserito negli artt.88 e 89 c.p., non coinciderebbe con quella di malattia mentale, risultando il primo concetto comprensivo del secondo, ma di portata più ampia. Difatti, laddove il legislatore ha voluto parlare di malattia mentale lo ha specificamente fatto, come ad esempio negli articoli 582 e 583 c.p. L’espressione palese di questo nuovo orientamento giurisprudenziale sarebbe contenuta, secondo l’autore, in una frase che recita “Se un tempo si affermava che

non tutte le malattie in senso clinico avessero valore di malattia in senso formale, oggi si pone soprattutto l’accento sul fatto che, viceversa, vi possono essere situazioni clinicamente non rilevanti o classificate che in ambito forense assumono valore di malattia in quanto possono inquinare le facoltà cognitive e di scelta.” In

queste parole è racchiuso infatti il ribaltamento del paradigma medico e l’introduzione del più ampio e comprensivo paradigma psicologico il quale impone un ribaltamento del punto da cui si osserva la malattia mentale e mette in primo piano non tanto la psichiatria quanto la psicologia.

Di simile tenore è la sentenza n° 2641/87 Sezione I che precisava: “ la nozione

giuridica di infermità rilevante ai fini della imputabilità, può in concreto essere integrata, oltre che da quelle alterazioni psichiche per le quali la scienza medico legale utilizza la definizione di ‘malattia di mente’ (e che la scienza psichiatrica definisce psicosi organiche od endogene ovvero ad esso assimilate), anche da altre anomalie che la scienza psichiatrica riconduce nella categoria dell’abnormità psichica e di cui i soggetti sono per lo più designati con l’espressione di ‘nevrotici’ (se la sindrome è caratterizzata da un particolare tipo di ‘sofferenza’, con ‘senso di malattia’, che si esplica con svariati sintomi e meccanismi) e di ‘psicopatici’ ( se la sindrome è caratterizzata da quadri e comportamenti ‘dannosi’ non solo per il

                                                                                                               

soggetto, ma anche per gli altri) le quali non integrano il concetto medico legale di ‘malattia’ ma, costituendo ‘varianti anomale dell’essere psichico’, sono ricondotte nella categoria medico legale generica della ‘infermità di mente’.”

Conditio sine qua non che accomuna tutte queste normative è che si applichi il vizio di mente solo in presenza del nesso eziologico tra il fatto-reato compiuto e il deficit mentale.

Altre sentenze della Corte di Cassazione Penale, più datate, come ad esempio la n° 5885/97, affermano che le cosiddette abnormalità psichiche, quali le nevrosi o le psicopatie, non indicative di uno stato morboso, a differenza delle psicosi acute o croniche e che si concretano in anomalie del carattere o della sfera affettiva, non sono annoverabili tra le infermità mentali anzidette e non sarebbero quindi rilevanti alla fine dell’applicazione degli articoli 88 e 89 C.P.. secondo questo principio il complesso normativo costituito da detti articoli richiede, ai fini dell’esclusione o dell’attenuazione dell’imputabilità, un’infermità di natura e intensità tale da compromettere i processi conoscitivi, valutativi e volitivi della persona eliminando la capacità di percepire il disvalore sociale del fatto e di autodeterminarsi autonomamente.

Tali situazioni devono essere per altro individuate sulla base degli schemi logici, normativi e scientifici che valgono a distinguere lo stato emotivo e passionale dall’infermità mentale nel senso sopra specificato e valutate di volta in volta sia con riferimento al complessivo stato mentale dell’agente, sia con riferimento al suo comportamento specifico a fronte dello stimolo rispetto al quale ha reagito; ne consegue che una condizione di perturbamento psichico transitoria di natura non patologica, dovuta ad esempio ad una sindrome ansiosa depressiva, non essendo destinata ad incidere sulla capacità di intendere e di volere, non è in grado di compromettere l’imputabilità dell’imputato.

Stante quanto appena detto è compito del giudice è anzitutto chiarire se l’anomalia stessa sia tale da far fondatamente ritenere che quel soggetto, in relazione al fatto commesso, non fosse proprio in grado di rendersi conto della illiceità del fatto, e di

comportarsi in conformità a questa consapevolezza, o avesse a riguardo una capacità grandemente scemata o ancora, fosse pienamente imputabile.

Il giudice dovrà altresì tener conto dell’effettivo rapporto tra il tipo di anomalia psichica effettivamente riscontrata in quel soggetto ed il determinismo dell’azione delittuosa da lui commessa.