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Evoluzione storica

Isabella Merzagora Betsos racconta, in un suo trattato sull’imputabilità, come già nel diritto romano, in aderenza alla dottrina ippocratica, i “furiosi” e i “fatui” che si fossero resi responsabili di reati andavano esenti da punizioni; la “fatuitas” era pressoché assimilabile al difetto di intelligenza mentre nel “furor” si ricomprendevano tutte le forme di follia, già allora si riconosceva la possibilità di un “lucido intervallo” che facesse venire a mancare l’applicazione della scriminante. Poi con la legislazione giustinianea il vocabolario “nosografico” si è arricchito con termini come “dementia”, “insania”, “fuitas”, “mania”, “amentia”; tutte situazioni che comportano l’impunità dell’eventuale delitto.

Il successivo periodo da prendere in considerazione è quello che vede l’entrata in vigore del diritto penale germanico, tale diritto infatti fa eccezione a quella che era stata la situazione della questione fino a quel momento, infatti, avendo riguardo esclusivo all’elemento oggettivo del danno, non si cura dell’elemento soggettivo e considera responsabili anche i malati di mente.

L’attenzione all’elemento soggettivo del reato non verrà mai deposta invece dalla Chiesa: il diritto penale canonico escludeva l’imputabilità per coloro a cui facessero

                                                                                                               

difetto il discernimento e la volontà libera, cioè dementi e furiosi, comprendendosi anche le situazioni di furore improvviso e transitorio.

Un nuovo e repentino cambio di direzione lo abbiamo con l’inquisizione che, per motivi di politica criminale, considerava poco rilevante se i folli fossero o meno responsabili delle proprie azioni; si combattevano stregoneria e potenze demoniache, non c’era tempo per questa sottigliezze e si preferiva mandare tutti al rogo.

Con l’anno mille si vede ritornare in auge nel diritto laico il principio dell’irresponsabilità e la situazione resterà immutata nei secoli successivi. Le novità di rilievo però ci furono; nel sedicesimo e nel diciassettesimo secolo, per esempio, i giuristi italiani consideravano le passioni incidenti sull’imputabilità.

Si arriva cosi al Codice Napoleonico del 1810; il suo articolo 64 recitava: “ Non

esiste né crimine né delitto allorché l’imputato trovavasi in stato di demenza al momento dell’azione, ovvero vi fu costretto da una forza alla quale non poté resistere”, chiarisce inoltre nei lavori preparatori che l’azione è imputabile con il

concorso simultaneo di cognizione, volontà e libertà. È una concezione ristretta figlia degli influssi della psichiatria francese dell’epoca.

In Italia, i codici pre-unitari, assorbirono non solo il principio generale ma anche le espressioni usate dal codice napoleonico e dai lavori preparatori. Mentre con l’unità d’Italia venne utilizzato il codice penale per gli stati di S.M. il Re di Sardegna del 1859 che, a proposito dell’imputabilità, stabiliva: “ Art. 94: non vi è reato se

l’imputato trovavasi in istato di assoluta imbecillità, di pazzia, o di morboso furore quando commise l’azione, ovvero se vi fu tratto da una forza alla quale non poté resistere”; “Art 95: allorché la pazzia, l’imbecillità, il furore o la forza non si riconoscessero a tal grado da rendere non imputabile affatto l’azione, i Giudici applicheranno all’imputato, secondo le circostanze dei casi, la pena del carcere estensibile anche ad anni dieci, o quella della custodia, estensibile anche ad anni venti (omissis).”

Lavora in questo periodo uno tra gli uomini che più profondamente hanno segnato la storia della criminologia e dell’imputabilità, Cesare Lombroso (1835-1919), il quale

contribuì con la sua opera a creare l’immagine del pazzo tipica della psichiatria dell’ Ottocento.9

Direttore del manicomio di Pesaro e ispettore generale dei manicomi piemontesi, Lombroso fu un seguace delle dottrine di Gall e delle dottrine della “degenerazione”; sulla base delle protuberanze e asimmetrie del teschio di un ladro formula la sua famosa teoria generale. Questa sostiene l’esistenza, in individui, famiglie e gruppi sociali di segni indicanti anormalità di natura e degenerazione biologica atavica. Queste anormalità, secondo Lombroso, causano predisposizioni, tendenze e abitudini al crimine e a comportamenti immorali. Lo studioso estende così la criminalizzazione del “pazzo” a tutti i settori sociali in cui identifica un “diverso”: nelle attività intellettuali, nella vita di chiunque infranga il diritto vigente, nella politica. Nel 1891 lo stato italiano creerà manicomi criminali in seguito ad una sua proposta del 1872 e istituisce nel 1905 la prima cattedra di Atropologia criminale a Roma.10

È evidente come l’opera di Cesare Lombroso modifichi profondamente l’approccio all’imputabilità. I suoi studi dimostrano, secondo lui, che il criminale che soffre di questi “segni” è portato per natura, dalla sua stessa biologia, a compiere i crimini di cui si macchia; la proposta di aprire i manicomi criminali deriva dal fatto che Lombroso ritiene di dover allontanare e separare questi soggetti dalla comunità “sana”.

La teoria di Lombroso fu ampiamente criticata, sia per le sue finalità che per il metodo con cui era stata dimostrata. Innanzi tutto gli studi si basavano solo sulla comunità carceraria di criminali violenti, Lombroso non considerava tutti i criminali che commettevano i cosiddetti crimini da colletto bianco e neppure quei criminali che di fatto sfuggivano alla giustizia, il suo campione di studio era quindi fallace in quanto estremamente limitato. Inoltre, il lavoro di Lombroso si scontra inesorabilmente con quella che è la legge statale per cui un’attitudine alla delinquenza non è dimostrata a priori ma va constata solo dopo la commissione del

                                                                                                               

9  Cfr.  Massimo  Picozzi,  Angelo  Zappalà,  2002,  Milano  

reato. Cesare Lombroso viene ritenuto colpevole di voler dare alla sua teoria una valenza scientifica senza dimostrarla adeguatamente.

Dal punto di vista dell’evoluzione storico-normativa dell’imputabilità nel nostro ordinamento penale osserviamo che, dopo un trentennio dall’entrata in vigore del codice del Re di Sardegna del 1859, nel 1887 il Ministro Zanardelli dà vita all’omonimo codice penale riconoscendo al suo interno l’imputabilità senza però definire in maniera chiara gli elementi che concorrono a formare il relativo giudizio. La dottrina che prevalse tra le tante fu quella che faceva consistere il cardine dell’imputabilità nella volontarietà del fatto, indipendentemente dal libero arbitrio11. Sul fondamento dell’imputabilità penale, la dottrina si divideva tra chi sosteneva il libero arbitrio e chi al contrario aveva posizioni più deterministe. In mezzo si trovava una visione intermedia che faceva consistere il cardine dell’imputabilità nella volontarietà del fatto, indipendentemente dal libero arbitrio. Per avere conferma che quest’ultima dottrina prevalse sulle altre, basta osservare come l’art. 45 del codice Zanardelli disponesse che "nessuno poteva essere punito per un delitto, se non aveva

voluto il fatto, ... come conseguenza della sua azione od omissione". Esistevano,

quindi, secondo il codice Zanardelli, delle circostanze in cui l’elemento morale del reato poteva e doveva risultare escluso.

Cosi il progetto definitivo dell’art. 47 si trovò a disporre quanto segue: “ Non è

punibile colui che, al momento in cui ha commesso il fatto, era in tale stato di deficienza o di morbosa alterazione di mente da togliergli la coscienza dei propri atti o la possibilità di operare altrimenti.”

Tale definizione venne ulteriormente modificata con un versione più sintetica e specifica: “ Non è punibile colui che, nel momento in cui ha commesso il fatto, era in

tale stato di infermità di mente, da togliergli la coscienza o la libertà dei propri atti.”

Si voleva così evitare una situazione di elencazione non esaustiva dei vari disturbi a cui riconoscere efficacia scusante.

A questo punto è d’uopo specificare, secondo i giuristi dell’epoca, quali fossero gli effetti che il sopracitato stato di infermità di mente doveva produrre per escludere                                                                                                                

l’imputabilità, ovvero il suo presupposto psicologico-normativo. Gli effetti in questione sono stati individuati nei difetti o turbamenti che dipendono da uno stato psichico tale da togliere la coscienza dei propri atti o la possibilità di operare altrimenti, ossia tale da togliere la capacità di intendere e volere.

Il dibattito tra i vari orientamenti, si rivelò più acceso in tema di trattamento da riservare ai soggetti riconosciuti non imputabili per infermità di mente. Il progetto Zanardelli sembrò appoggiare inizialmente la posizione positivista a favore della istituzione dei manicomi criminali, prevedendo una disposizione in cui si stabiliva che "il giudice poteva ordinare il ricovero del soggetto prosciolto per infermità di

mente in un manicomio criminale o comune". Tale disposizione non fu accolta da

nessuna delle commissioni parlamentari in quanto si sostenne che essa avrebbe attribuito al magistrato un arbitrio senza limiti, ciò portò ad una nuova formulazione della disposizione in esame, secondo la quale "il giudice, ove stimi pericolosa la

liberazione dell'imputato prosciolto, ne ordina la consegna all'autorità competente per i provvedimenti di legge". Il generico affidamento all'autorità competente si

sostanziava nel ricovero in manicomio comune di competenza del giudice civile, sempre che il giudice penale avesse ritenuto non solo pericoloso il soggetto, ma anche bisognoso di un tale affidamento.

Da quanto appena detto possiamo osservare che il Codice Zanardelli mira alla realizzazione di quel modello penale teorizzato dalla scuola classica di cui si è trattato in precedenza.

Secondo alcuni il postulato, derivante dalla scuola classica, che l’uomo sia assolutamente libero nella scelta delle sue azioni ha determinato l’esclusione di ogni valutazione sulla personalità dell’agente. Sono stati così tagliati fuori tutti quegli elementi extravolontari che avrebbero in qualche modo portato, se considerati, ad una graduazione della responsabilità. Essendo i rei tutti egualmente liberi sono tutti egualmente responsabili.

Si potrebbe sostenere che tale presa di posizione sia alquanto clemente con la società, deresponsabilizzandola, negando l’influenza delle cause sociali sulla criminalità e sollevandola dalla ricerca dei mezzi di prevenzione del crimine.

Con l’avvento del regime totalitario i principi liberali di natura garantista che caratterizzavano il Codice fin ora analizzato furono messi in discussione fino a che non si arrivò alla nascita del codice del 1930.

In questo nuovo codice sono largamente rappresentate le istanze repressive del regime fascista e l’ideologia più affine a tale posizione è non più quella Classica, ma quella della Scuola Positiva.

Ne è un esempio lampante l’introduzione del sistema a doppio binario che accanto alla pena prevede l’applicazione di misure di sicurezza nei confronti dei soggetti considerati socialmente pericolosi.

Il codice Rocco prevede l’applicazione de iure della misura di sicurezza del ricovero a tempo indeterminato in un manicomio giudiziario per i soggetti prosciolti per infermità totale; i semi-imputabili invece si vedono destinati alla casa di cura e custodia.

Questo approccio così severo era figlio della consapevolezza che la pena da sola non era sufficiente a contrastare i fenomeni di delinquenza perpetrati da infermi di mente. Quindi in cosa si differenzia il Codice Rocco dal Codice Zanardelli in tema di imputabilità?

Sicuramente il concetto di infermità di mente rimane quello del codice precedente. Viene introdotto all’art. 85 c.p. una definizione generale del soggetto imputabile. Viene riaffermato il principio di colpevolezza, viene escluso che possa essere assoggettato a pena chi al momento del fatto non fosse in grado di intendere e di volere.

Sicuramente un’importante evoluzione apportata dal Codice Rocco è il negare agli stati emotivi e passionali qualsiasi possibilità di incidere sull’imputabilità; allo stesso modo non hanno alcuna efficacia attenuante o escludente della capacità di intendere e di volere l’ubriachezza volontaria, il Codice Zanardelli le attribuiva invece la capacità di ridurre fortemente la pena.

Il vizio di mente diventa, quindi, solo quello derivante da infermità fisica o psichica clinicamente accertata.

Bisogna dire invero che la Scuola Positiva non ha conquistato totalmente il campo con l’avvento del Codice Rocco, rimane immutato il postulato di base, tipico della Scuola Classica, dell’esclusiva punibilità del reo che abbia agito liberamente e non influenzato da fattori indipendenti rispetto alla sua volontà. Quello che la Scuola Positiva apporta a questo quadro è l’estensione di questa punibilità anche nei confronti di quei soggetti privi di tale liberà, semplicemente la punizione avviene attraverso un apposito trattamento di prevenzione speciale.