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Serial Killer in Italia

Per quanto un serial killer non sia condizionato nelle sue azioni dalla sua nazionalità trovo che sia comunque rilevante dedicare un pò di attenzione al fenomeno dei Serial Killer italiani, soprattutto perché per quanto riguarda la loro imputabilità l’approccio della civil law è diverso da quello della common law dalla quale sono stati valutati tutti i soggetti di cui abbiamo avuto modo di parlare un po’ più ampiamente fin ora. Per approfondire tale argomento mi appoggerò all’opera “Serial Killer in Italia” del professor Paolo de Pasquali, medico chirurgo e psichiatra, ricercatore presso la Cattedra di psicopatologia forense dell’Università La Sapienza di Roma.

Il professor De Pasquali analizza approfonditamente il fenomeno e compie un lavoro di ricerca e catalogazione eccezionale realizzando per ogni serial killer italiano da lui trattato una scheda anagrafica, integrandola poi da una breve storia delle sue azioni, delle piscosi che vengono attribuite, ma soprattutto presta attenzione anche a cosa avviene ai soggetti dopo la loro cattura, elemento di spiccato interesse per questa tesi. Il professore specifica come, secondo le sue ricerche, i Serial Killer italiani hanno ucciso circa 200 persone. Gli omicidi sono avvenuti al 70,5% al nord, il 16,5% invece è avvenuto al centro, l’8% al sud e il restante 2,5% nelle isole; il restante 2,5% invece è stata svolta da italiani all’estero.

Abbiamo descritto come agiscono i serial killer in generale, osservando quelli italiani il professor De Pasquali deduce che l’approccio alle vittime avviene prevalentemente tramite l’aggressione diretta ed immediata, il blitz, anche utilizzando l’elemento sorpresa. L’altra tecnica più frequentemente usata è l’avvicinare la vittima con scuse, sotterfugi, raggiri o inganni. Gli omicidi avvengono per lo più in casa dell’omicida o della vittima. Solo nel 25% dei casi l’omicidio avviene in luoghi aperti, il 10% in luoghi pubblici chiusi e un ulteriore 10% nell’autoveicolo del killer.

Le armi che i serial killer italiani preferiscono sono le armi da fuoco (37%), le armi bianche (16%), corpi contundenti (12%), nel 10% dei casi le nude mani e in un ulteriore 7% lacci o legamenti. Farmaci e veleni nel 4% dei casi.

Dopo il 60% degli omicidi il cadavere viene lasciato sul posto; solo nel 10% viene trasportato altrove. Il corpo viene seppellito o nascosto nel 15% dei casi, oppure fatto dissolvere nell’8%.

La statistica più interessante però è sicuramente quella che riguarda la fine del percorso di questi soggetti, solo l’1% dei serial killer italiani si costituisce e solo l’1% dei serial killer italiani si suicida, il 10 % lancia sfide alle forze dell’ordine italiane ed è proprio per queste statistiche che il nostro Stato deve dedicare più attenzione possibile alla criminolgia e allo studio di questi soggetti.

I Serial Killer che hanno agito in Italia dal 1850 ad oggi sono 43, tra i quali un extracomunitario ed un italiano nato all’estero. Solo due assassini seriali sono donne, un serial killer faceva parte di un gruppo, 6 hanno ucciso in coppia, i rimanenti 36 hanno agito da soli.

Il professor De Pasquali riscontra, negli assassini seriali nostrani, le seguenti caratteristiche ricorrenti:

• comportamenti ritualistici,

• parvenza di normalità a copertura di un’instabilità mentale, • compulsività,

• periodica ricerca d’aiuto,

• gravi disturbi mnesici e incapacità di dire la verità, • tendenze suicidiarie,

• precedenti di aggressione

• ipersessualità e anormale comportamento sessuale • lesioni al momento del parto, traumi cranici

• uso di stupefacenti o abuso di sostanze alcoliche • genitori con storia di alcolismo e tossicodipendenza • esperienze infantili di abuso fisico e mentale

• frutto i una gravidanza non voluta

• nascita a termine di una gestazione difficile

• estrema crudeltà verso gli animali • piromania senza interesse omicidiario • sintomi di danni neurologici

• segni di alterazioni genetiche • sintomi di natura biochimica

• vissuti di impotenza e inadeguatezza

Salta all’occhio che il Professo De Pasquali nella sua analisi riconosce 43 serial killer mentre i dati forniti da professor De Luca, precedentemente esposti, parlano di 72 casi di serial killer di nazionalità italiana.

Ritengo che tale discrepanza dipenda dal fatto che il concetto di Serial Killer non è cosi precisamente definito e riconosciuto da tutti gli autori, il che quindi può portare a discordanze numeriche significative come in questo caso.

Sempre attenendoci, in questo caso, all’analisi di De Pasquali passiamo all’osservazione della vittimologia degli assassini seriali italiani, scopriamo così che il 60% delle vittime è maschio, età media 40 anni, il 40% femmine di età media 38 anni. Quasi la metà delle vittime conoscono, anche solo in modo superficiale, il loro carnefice. Il 30% delle vittime rientra in omicidi a sfondo sessuale; il 10% delle vittime sono selezionate in base alla disponibilità economica.

Le attività lavorative sono le più disparate anche se le prostitute sono la tipologia di vittima più frequente (si para di 36 casi, pari al 45% delle vittime femminili e il 18% del totale delle vittime), il che non deve stupire, questa categoria infatti rientra in quelle categorie, cosi come i senzatetto, definite “a rischio”; soggetti deboli e facilmente approcciabili la cui scomparsa passa spesso inosservata lasciando al killer più possibilità di non incappare in indagini di polizia.

Per quanto riguarda il sesso dei serial killer italiani il professor De Pasquali ricorda come sono riconosciute solo due serial killer femmine in italia: Milena Quaglini e Leonarda Cianciulli. Della prima abbiamo già parlato in precedenza, la Quaglini invece ha ucciso 3 uomini tra il 1995 e il 1999, le vittime erano uomini a lei conosciuti con cui aveva relazioni infelici, la Quaglini li ha uccisi non essendo in grado di uscire in nessun altro modo dalle relazioni abusive a cui la sottoponevano.

Abbiamo elencato un pò di cifre e appare chiaro che nel nostro paese il fenomeno dei Serial Killer è tutt’altro che un fenomeno di nicchia, oltre a quelli catturati sono molti i serial killer ancora in libertà o quelli potenziali (si definisce assassino seriale potenziale quel soggetto che presenta tutte le caratteristiche psicodinamiche e biografiche dei serial killer ma che hanno ucciso solo una persona o che non hanno ancora compiuto alcun omicidio, pur avendo messo in atto tutti i comportamenti tipici di questa categoria) fortunatamente le istituzioni statali hanno colto la rapida crescita di questo fenomeno e hanno creato un apposito reparto dedicato all’analisi dei crimini violenti nell’ambito del servizio di Polizia Scientifica.

Questa nuova struttura è definita UACV (unità per l’analisi del crimine violento) e si ispira al Behavioural Science Service Unit del National Center for the Analysis of Violent Crime dell’Fbi, con cui è in stretta collaborazione. L’Uacv è costituito da oltre 1500 uomini della polizia scientifica, collegati alla centrale operativa tramite un sistema centrale informativo che consente il monitoraggio in tempo reale di tutte le attività criminali. Tale struttura è di supporto all’attività degli organismi investigativi nei casi di delitti di particolare efferatezza, come quelli commessi dagli assassini seriali. In particolare l’Ucav interviene per gli omicidi senza immediato movente, gli omicidi a sfondo sessuale, gli omicidi seriali, eventi di piromania seriale.

Lo scopo dell’ucav è quello di utilizzare le metodologie e le tecniche di analisi criminalistica, della medicina legale, della psichiatria forense e della psicologia comportamentale, per ricavare elementi utili al fine di risalire al profilo psicologico- comportamentale dell’autore del reato.

Per quanto tutti i dati fin ora esposti siano di indubbio interesse ciò che più ci interessa al fine della nostra tesi è ciò che succede ad un Serial Killer in Italia dopo la sua cattura, l’iter giudiziario che, a partire dal processo, porterà a una condanna o ad un assoluzione.

L’omicidio ha, nel nostro sistema processuale, un giudice particolare, e cioè la Corte d’assise di primo grado e di secondo grado o d’appello. Si tratta di un collegio decisorio misto composto da due giudici togati, di carriera, e da sei cittadini, scelti con criteri di casualità tra quelli aventi i requisiti. La sentenza di primo grado subisce

un’ulteriore verifica di validità e fondatezza dal giudice di secondo grado, la cui sentenza può essere, a sua volta, impugnata per ragioni di merito e sottoposta al giudizio della Cassazione. Spesso avviene che la sentenza di primo grado venga attenuata nel giudizio successivo. Inizialmente l’imputato è iperesposto ai giornali, alle televisioni, ai pareri di giornalisti, pubblici ministeri ed avvocati, consulenti e periti, investigatori ed esperti di vario genere. E l’opinione pubblica esercita un peso innegabile sulla sentenza, creando un’impalcatura di pre-giudizio che porta l’omicida a essere ostentato in pubblica piazza come “mostro”. Il giudice d’Appello deve rimanere immune dai messaggi di innocenza o reità che provengono dai “media” e valutare correttamente la “prova fredda” che ha tra le mani. Questa presa di posizione della pubblica opinione, spiega De Pasquali, porta a considerare il soggetto un pazzo e quindi si pone il problema della capacità di intendere e di volere. L’autore spiega come sempre più frequentemente gli psichiatri interrogati a tal proposito tendono ad escludere la presenza di condizioni patologiche limitanti o escludenti la colpevolezza. Il professore illustra come per 30 dei 39 serial killer sottoposto a processo sono state chieste delle perizie psichiatriche, che hanno concluso: capacità piena per 10 serial killer, capacità esclusa per altri 10 e capacità grandemente scemata per gli ultimi 10. Questo ha portato a 20 sentenze di condanna, 9 proscioglimenti per infermità mentale e 10 riduzioni della pena.

Durante la detenzione in seguito 4 serial killer si sono suicidati, altri sono morti per cause naturali, alcuni tra i primi condannati hanno ricevuto la pena di morte e attualmente gli omicidi seriali ancora in vita sono 21 in carcere, 4 in ospedale psichiatrico giudiziario e uno in libertà.

In Italia non è consentita la perizia criminologica intesa come indagine psicologica o personologica sull’imputato sospettato o indagato in quanto potenzialmente lesive dei diritti di quest’ultimo, il quale potrebbe successivamente risultare non autore del reato. Come appare evidente in futuro sarà necessario che il perito possegga un bagaglio culturale e scientifico molto ampio, che attraversi le varie discipline, dalla psichiatria alla psicologia, dalla medicina legale alla criminologia.

Abbiamo quindi da un lato i diritti del soggetto e dall’altro le pressanti richieste della società che vuole giustamente essere tutelata da quelli che sono i delitti più efferati a cui il genere umano possa assistere. Si impone quindi l’esigenza di allontanare tali soggetti dalla comunità e lo si fa considerandoli “socialmente pericolosi” e applicandole “misure di sicurezza consistenti nell’ospedale psichiatrico giudiziario”. Del concetto di pericolosità sociale si è già parlato in precedenza, l’unica cosa che vorrei aggiungere è che, secondo De Pasquali il serial killer, in quanto soggetto che compie omicidi reiterati, sia da considerare sempre e comunque “socialmente pericoloso”, al fine di preservare l’incolumità di un gran numero di potenziali vittime. Il Professor De Pasquali cita la dizione del professor Introna, perito d’ufficio del caso Bergamo, che per tale soggetto parlò di pericolosità sociale perenne. Ebbene questo concetto è valido per tutti i serial killer esistenti.

Il professor De Pasquali conclude la sua opera pronunciando quella che, a suo giudizio, è una definizione più completa e corretta del serial killer, afferma: si

definisce omicida seriale quel soggetto che esegue due o più azioni omicidiarie separate tra loro, in tempi diversi. L’azione omicidiaria ha una motivazione intrapsichica: la necromania, ossia il bisogno di rapporto diretto con la morte, esercitato mediante il dare la morte ed il successivo prolungato contatto col cadavere; tale bisogno patologico è compulsivo ed induce il soggetto ad uccidere ripetutamente. Tra un omicidio ed il successivo si ripristina, nell’omicida, lo stato emotivo che gli è abituale. Solo un fattore esterno all’omicida può interrompere la serie delittuosa.

Tale definizione è più esaustiva delle classificazioni comportamentali di stampo americano, in quanto fornisce una motivazione relativa ai meccanismi psichici che conducono un particolare individuo ad uccidere.34

                                                                                                               

Conclusioni

È giunto quindi il tempo di trarre le conclusioni riguardo alla domanda introduttiva che da vita a questa tesi, essere riconosciuti come serial killer da diritto alla non imputabilità per infermità mentale?

La risposta è, a giudizio di chi scrive, assolutamente no.

I motivi di questa conclusione sono molteplici e variegati; innanzi tutto come abbiamo avuto modo di approfondire in precedenza il nostro sistema penale richiede, per attribuire l’inimputabilità l’incapacità di intendere o di volere, dopo aver analizzato la figura del serial killer in tutte le sue caratteristiche e sfaccettature sappiamo che questi soggetti spesso e volentieri sono perfettamente in grado di intendere il significato delle loro azioni (vi sono stati casi in cui il soggetto aveva talmente chiaro quello che stava facendo da mandare “richieste di aiuto” per essere fermato, o ha affermato di non voler essere rilasciato perché era assolutamente sicuro che lo avrebbe rifatto); solo in alcuni casi il serial killer soffre di disturbi tali da renderlo incapace di sapere, almeno razionalmente, cosa è giusto e cosa e sbagliato, in tutti gli altri casi la distinzione è chiarissima dal punto di vista cognitivo, al massimo non è percepita a livello emotivo o non viene capito il valore che ha; un po’ come un la situazione in cui si trova un bambino a cui stanno venendo insegnate le buone maniere, il bambino apprende cosa si può fare e cosa no ma applica o disapplica quelle regole solo perché gli è stato detto, non perché ne riconosca il valore sociale o umano.

Dal punto di vista del volere la situazione è un po’ più elaborata ma a mio giudizio riporta comunque alla medesima conclusione. Se ci poniamo la domanda “Il serial killer può resistere alla tentazione di uccidere o, pur comprendendone il disvalore, la sua autodeterminazione è compromessa?” la risposta corretta è probabilmente la seconda. Analizzando questa figura possiamo vedere come la fantasia che il soggetto ha, e che monta fino a diventare incontenibile e ad aver bisogno di essere realizzata, sembra proprio un’incapacità di autodeterminazione, una dipendenza incontenibile o,

come lo chiamerebbero gli americani, un impulso irresistibile che imporrebbe il riconoscimento della non imputabilità.

Il ragionamento che va fatto però, secondo me, è un altro; è vero che tutti i serial killer vivono questo impulso e lo assecondano, come dicevamo poco fa, più o meno consapevoli del disvalore sociale delle loro azioni; ma quando si parla di impulso irresistibile si può considerare tale non un raptus di follia ma un comportamento ragionato e programmato, anche per lungo tempo, nel minimo dettaglio? Arriviamo quindi a fare una distinzione obbligatoria e a parlare, più che di serial killer disorganizzati che agiscono su un breve periodo di tempo, di quelli organizzati che si lasciano alle spalle una scia di cadaveri con il passare degli anni, se non dei decenni. Si può dire che un serial killer organizzato con un cooldown di anni soffra di un’incapacità di autodeterminazione nella sua sfera della volontà? Oppure possiamo dire che il serial killer organizzato sceglie di assecondare l’impulso che ha, magari non comprendendo emotivamente il valore delle regole che la società impone ma sicuramente conoscendole, organizzandosi nel minimo dettaglio, non solo per alimentare e riprodurre la propria fantasia ma anche per eludere gli sforzi delle forza dell’ordine di fermarlo?

Mi pare evidente che vi sia una volontà di compiere l’azione e uscirne impuniti e quindi non si possa parlare di incapacità di autodeterminazione o di impulso irresistibile, la difesa perde quindi anche questo appiglio per richiedere il riconoscimento dell’inimputabilità.

Bisogna riconoscere che esistono dei casi in cui è evidente che questi soggetti non sono capaci di intendere e di volere, è il caso ad esempio di Ed Gein, di cui si è parlato e a cui è effettivamente stata riconosciuta.

Si tratta di tutti quei casi in cui è presente un disturbo psichiatrico, o comunque una nevrosi così forte da influenzare il comportamento e la possibilità di autodeterminarsi del soggetto così come stabilito dall’ormai noto paradigma psicologico.

La verità è che la categoria dei serial killer è così ampia e sfaccettata da rendere impossibile applicare a tutti il medesimo ragionamento, quindi bisognerà valutare la capacità di intendere e di volere di ogni soggetto caso per caso senza cercare una

catalogazione globale che risulterebbe deleteria. Vi saranno sicuramente dei casi in cui l’inimputabilità sarà riconoscibile e riconosciuta, ma ritengo che siano così pochi da non influire su una categoria di soggetti in larga parte perfettamente in grado di intendere e di volere.

Appendice Normativa

 

 

Art. 85 Codice Penale

Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile.

È imputabile chi ha la capacità d'intendere e di volere.

Art. 86 Codice Penale

Se taluno mette altri nello stato d'incapacità d'intendere o di volere [613, 728], al fine di fargli commettere un reato, del reato commesso dalla persona resa incapace risponde chi ha cagionato lo stato di incapacità.

Art. 87 Codice Penale

La disposizione della prima parte dell'articolo 85 non si applica a chi si è messo in stato d'incapacità d'intendere o di volere al fine di commettere il reato, o di

prepararsi una scusa.

Art. 88 Codice Penale

Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità d'intendere o di volere

Art. 89 Codice Penale

Chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità d'intendere o di volere, risponde del reato commesso; ma la pena è diminuita.

Art. 90 Codice Penale