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Serial killer: la zona grigia dell'imputabilità

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Academic year: 2021

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Introduzione ... 3

Imputabilità ... 4

Definizione ... 4

Teorie filosofiche generali ... 6

Il concetto di pericolosità sociale ... 10

Teorie filosofiche specifiche relative alla criminologia ... 14

Evoluzione storica ... 33

Il concetto di infermità mentale e di malattia mentale ... 39

La perizia psichiatrica: funzione e problematiche del suo uso in ambito giurisdizionale ... 45

La seminfermità ... 48

La giurisprudenza della cassazione ... 50

La pena e la cura ... 54

I Serial Killer ... 59

Introduzione ... 59

Definizione ... 59

Storia ... 63

Categorie e caratteristiche dei Serial Killer ... 68

Parafilie ... 79

Casi di riconosciuta e negata incapacità di intendere e di volere ... 82

Il test di M’Naghten ... 83

Ed Gein ... 87

Ted Bundy ... 90

Psicopatici: un intelligenza prodigiosa e l’incapacità di avere successo ... 93

Edmund Kemper ... 95

Serial Killer in Italia ... 98

Conclusioni ... 104

Appendice Normativa ... 107

Bibliografia ... 108

Libri ... 108

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“Avendo visto con quale lucidità e coerenza logica certi pazzi giustificano, a se stessi e agli altri, le loro idee deliranti, ho perduto per sempre la sicura certezza della lucidità della mia lucidità” Pessoa; Il libro dell’inquietudine, 1982.

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Introduzione

I serial killer sono soggetti malati di mente? Sicuramente nell’immaginario sociale il serial killer è visto come un pazzo. Nasce, allora, spontaneo chiedersi se soggetti che commettono crimini così efferati siano talmente disturbati e malati da non poter essere ritenuti responsabili delle proprie azioni.

Questa tesi si propone l’obbiettivo di analizzare questo dato problematico attraverso un’attenta analisi dell’imputabilità così com’è conosciuta nel nostro sistema penale e dell’enigmatica figura dei serial killer al fine di comprendere se il loro modo di agire e di ragionare sia frutto di una devianza inabilitante, di quello che negli Stati Uniti verrebbe definito un impulso irresistibile o se derivi da una mente lucida e calcolatrice perfettamente in grado di capire cosa sta compiendo.

Per dare risposta a questo dubbio mi propongo, innanzitutto, di approfondire il concetto di imputabilità, mettendolo in relazione alla malattia mentale, per poi passare allo studio del serial killer nelle sue mille sfaccettature, analizzando anche alcuni casi emblematici.

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Imputabilità

Definizione

L’articolo 85 del Codice Penale recita: “Nessuno può essere punito per un fatto

preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile. È imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere.”

Sono, quindi, questi due ultimi elementi che ci possono dare un’idea più chiara di cosa sia l’imputabilità.

Nello specifico la “capacità di intendere” è l’attitudine di un soggetto a comprendere il significato delle proprie azioni nel contesto in cui agisce e quindi rendersi conto del valore sociale dell’atto compiuto, mentre la “capacità di volere” va analizzata come capacità di avere un controllo dei propri stimoli e degli impulsi ad agire.

Questa visione è ovviamente riduttiva, ciò che bisogna evidenziare per renderla più completa è che l'espressione "capacità di intendere e di volere", contenuta nell’art. 85 C.P., indica che l'imputabilità comprende entrambe le attitudini, ovvero sia quella di intendere sia quella di volere; di conseguenza un soggetto può dirsi non imputabile quando, essendo presente l'una, manchi l'altra e viceversa.

L'imputabilità attiene ad un modo di essere della persona riferendosi alla sua maturità psichica e alla sua sanità mentale. La responsabilità di un soggetto postula la capacità di comprendere il significato del proprio comportamento ed il potere di controllare i propri impulsi ad agire. Seguendo tale impostazione si pone il problema, quindi, di valutare se sia o meno configurabile il reato. Sul punto la dottrina ha elaborato conclusioni diverse. Alcuni autori ritengono che l'assenza di imputabilità escluda l'esistenza del reato, sicché il fatto posto in essere dal non imputabile costituisce un mero torto oggettivo. Secondo altri, invece, l'inimputabilità, pur escludendo la colpevolezza, non esclude il reato e costituisce semplicemente una causa personale di esenzione da pena.

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La coscienza e la volontà della condotta (cosiddetta suitas) richiamate dall’art. 42 c.p. consistono nel dominio anche solo potenziale dell’azione o omissione, che possa essere impedita con uno sforzo del volere e sia quindi attribuibile alla volontà del soggetto. Tale requisito si distingue dalla capacità di intendere e di volere richiesta dall’art. 85 c.p., non implicando la consapevolezza di ledere o di esporre a pericolo il bene protetto dalla fattispecie incriminatrice.

In tema di imputabilità la capacità di controllo delle proprie azioni va distinta dalla capacità di intendere e di volere, in quanto capacità del soggetto di modulare e calibrare la propria condotta in funzione di elementi condizionanti di ordine etico, religioso ed educativo che, afferendo ed integrandosi nel nucleo della personalità del soggetto, lo dotano sia del senso critico che di quello autocritico e che agiscono come modulatori dell’istintualità e dell’impulsività; ne consegue che un indebolimento dei freni inibitori non dipendente da un vero e proprio stato patologico, non incide sulla capacità di intendere e di volere e quindi sull’imputabilità. L’imputabilità deve sussistere in tutti e tre i momenti in cui si sviluppano il reato e le sue conseguenze: quello attuativo, quello del suo accertamento, quello della esecuzione della relativa sanzione penale. La sua mancanza produce conseguenze diverse a seconda del momento in cui interviene. Se nel primo momento, si ha la non punibilità dell’autore per mancanza di imputabilità; se nel secondo, la sospensione del procedimento; se nel terzo, il differimento o la sospensione dell’esecuzione della pena. Tra l’imputabilità e il reato corre un rapporto di assoluta indipendenza, nel senso che il reato è configurabile indipendentemente dalla capacità di intendere e di volere del suo autore; dal che consegue la piena autonomia tra le nozioni di imputabilità e colpevolezza. L’imputabilità, come capacità di intendere e di volere e, la colpevolezza, quale coscienza e volontà del fatto illecito, esprimono concetti diversi ed operano anche su piani diversi, sebbene la prima, quale componente naturalistica della responsabilità, debba essere accertata con priorità rispetto alla seconda.

Nei rapporti fra imputabilità e dolo, l’indagine sul primo deve essere tenuta ben distinta da quella sul secondo.

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Le malattie psichiche e quelle che possono incidere sulla capacità di intendere e di volere del soggetto sono valutabili esclusivamente nel settore dell’imputabilità. Una volta accertata l’esistenza di questo elemento, non è possibile rivalutare quei fatti d’ordine patologico nell’ordine della colpevolezza. 1

Teorie filosofiche generali

Prima di affrontare una vera e propria evoluzione dell’imputabilità all’interno del nostro sistema penale ritengo opportuno analizzare brevemente quelle teorie che hanno profondamente influenzato la dottrina e, di conseguenza, il legislatore nel suo percorso per arrivare al codice penale come lo conosciamo oggi.

Molte di queste teorie infatti analizzano l’uomo e il suo agire.

Come dice Isabella Merzagora Betsos2 deve essere chiaro che parlando di libertà occorre distinguerla dal mero “caso” che sarebbe semmai la negazione della libertà consapevole, poiché un’azione per essere libera deve essere nella disponibilità dell’agente. La scelta autonoma però non va confusa con la scelta casuale in quanto quest’ultima sarebbe priva di qualsiasi influenza mentre sulla scelta autonoma potrebbero intervenire parecchie influenze che però non sono determinanti.

Sullo stesso argomento, come afferma la Betsos, si è espresso anche Zuanazzi sostenendo che “la libertà non è indeterminazione ma autodeterminazione”.

Quando discutiamo di libertà dobbiamo poi distinguere una libertà dalla coazione, cioè la possibilità di agire senza essere ostacolati da vincoli fisici, da una libertà interiore, quella appunto di poter scegliere fra diverse opzioni secondo la nostra volontà; solo questo secondo tipo di libertà è quello di cui parliamo quando facciamo riferimento al libero arbitrio.

Filosoficamente parlando la storia è costellata di teorie che nel bene o nel male toccano questo spinoso argomento. Fare un’analisi estesa ed approfondita è, quindi,                                                                                                                

1  Cfr.  Alberto  Crespi,  Gabrio  Forti,    Giuseppe  Zuccalà,  2012   2  Isabella  Merzagora  Betsos,  2012,  Milano  

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impossibile dato che coinciderebbe con quasi ogni filosofia o religione esistente ed esistita. Vi è però una distinzione fondamentale che può aiutarci nella nostra analisi. Trattasi della distinzione tra deterministi e indeterministi, l’un contro l’altro, armati del cosiddetto incompatibilismo secondo cui una posizione determinista non può convivere con l’adesione all’idea del libero arbitrio.

Agli estremi delle due posizioni si collocano, da un lato, il determinismo radicale e, dall’altro, il libertarismo, secondo il quale la libertà è concepibile soltanto in un contesto del tutto indeterministico. Ovviamente tra i due estremi troviamo una numerosa quantità di posizioni intermedie.

Per esempio recentemente si è contrapposta ai due la cosiddetta causalità indeterministica per la quale le cause non determinano strettamente gli eventi ma si limitano ad accrescere la possibilità che essi si verifichino diventando quindi condizioni necessarie ma non sufficienti.

Secondo un gran numero di autori il diritto penale sembra partire da un’opzione indeterminista ma con qualche eccezione; infatti, tra le posizioni compatibiliste, è doveroso citare il consequenzialismo il quale, proprio nell’ambito filosofico giuridico, ritiene che l’attribuzione di biasimo e merito sia una forma di regolazione sociale; in questo modo di diritto potrebbe prescindere dal problema libero arbitrio versus determinismo limitandosi a prendere atto della necessità dell’esistenza di “reazioni giuridiche” che rispecchiano gli atteggiamenti dei consociati. Per il consequenzialista, contrariamente alle teorie retributiviste, non è importante il demerito del soggetto, bensì la necessità sociale di attribuire pene e ricompense. La legittimazione del diritto riposa sui convincimenti morali dei consociati, indipendentemente dal fatto che tali convincimenti rispecchino la realtà.

Lo scopo del diritto è promuovere ciò che vogliamo che accada, difatti le norme sono concepite per essere ragioni per l’azione, per costituire a loro volta una causa all’agire, facendo entrare nel novero delle motivazioni la pena minacciata.3

                                                                                                               

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Volendo approfondire l’origine delle filosofie riguardanti l’imputabilità e il libero arbitrio possiamo osservare che la teoria più antica, che per lungo tempo ha dominato raccogliendo sotto di se numerosi sostenitori, è quella della Scuola Classica.

La Scuola Classica nasce in pieno illuminismo come reazione alla situazione politica, sociale e giuridica, in cui si trovava l’Italia, e nella battaglia contro il sistema penale allora vigente che verteva sull’uso della tortura e della ferocia delle pene, trova le proprie ragioni di esistenza.

I principi che questa dottrina pone a fondamento del diritto penale sono i seguenti: il delinquente è un uomo uguale a tutti gli altri; le condizioni e la misura della pena sono date dall’esistenza e dal grado del libero arbitrio; la pena ha funzione etico-retributiva del male commesso, perciò deve essere assolutamente proporzionata al reato, afflittiva, personale, determinata e inderogabile.

La scuola classica fonda l’imputabilità sul libero arbitrio, cioè sulla facoltà di autodeterminarsi secondo una libera e totale scelta della propria volontà. Secondo tale indirizzo la pena ha senso solo se l’uomo ha volontariamente e consapevolmente scelto la violazione della norma, pur avendo, invece, la possibilità di sceglierne l’osservanza.

Da questo deriva che gli individui affetti da anomalie psichiche o comunque immaturi, non essendo liberi non possono essere biasimati per il male commesso e quindi non possono essere puniti; in presenza, invece, di una libertà diminuita ma non del tutto assente, anche la pena dovrà essere diminuita ma presente.

Intorno al XIX secolo si sviluppò, invece, la Scuola Positiva sulla spinta di alcuni fattori: si stava affermando il metodo di indagine induttivo-sperimentale; vi era la necessità di reagire contro l’affievolirsi della difesa sociale per ristabilire un equilibrio fra garanzie individuali e garanzie sociali nel campo della giustizia penale. La Scuola Classica si faceva portavoce degli interessi individuali contro gli abusi e i soprusi dell’autorità nell’amministrazione della giustizia penale; infine, il terzo fattore che ha contribuito a dar vita alla Scuola Positiva è stata l’inefficacia dell’allora vigente sistema penale per la diminuzione del crimine.

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Per la Scuola Positiva il principio cardine in base al quale si devono spiegare tutti i fenomeni, fisici e psichici, individuali e sociali, è il principio di causalità. Sulla base di tale presupposto, per i positivisti, il delitto è il prodotto non di una scelta libera e responsabile del soggetto, ma di un triplice ordine di cause: antropologiche, fisiche e sociali. Mentre la Scuola Classica considera il reato come ente giuridico astratto staccato dall'agente, per la concezione positivista il reato è un fenomeno naturale e sociale, un fatto umano individuale, indice rivelatore di una personalità socialmente pericolosa. Ecco che l'attenzione del diritto penale si sposta dal fatto criminoso in astratto alla personalità del delinquente in concreto, dalla colpevolezza per il fatto alla pericolosità sociale dell'autore intesa come probabilità che il soggetto, per certe cause, sia spinto a commettere fatti criminosi. Ed ecco che il principio di responsabilità individuale è sostituito dal principio di responsabilità sociale.

Non ha, quindi, più senso castigare con la pena il reo, perché di fatto egli è condizionato da elementi interni ed esterni che lo condizionano in maniera irrimediabile, lo scopo della pena deve essere perciò la difesa della società che si ottiene applicando a coloro che delinquono misure di sicurezza volte a prevenire ulteriori manifestazioni criminose mediante la loro separazione dalla società e, solo ove possibile, attraverso un loro successivo reinserimento nel contesto sociale.

Tali misure non hanno alcun legame con la gravità del fatto, ciò che le condiziona è la pericolosità del reo.

Date queste premesse la Scuola Positiva arriva inevitabilmente a negare la stessa categoria dell’imputabilità e la distinzione tra soggetti imputabili e non imputabili. Essendo la sanzione penale solo un mezzo per impedire la commissione di crimini, non vi è motivo per escludere dalla sua applicazione agli autori di reato infermi di mente.4

Questa divisione di vedute, questo mutare di posizione riguardo alla responsabilità dell’essere umano in relazione alle sue azioni è una costante che tange ogni aspetto dello studio dell’imputabilità. È riscontrabile nella sua storia, nelle filosofie che la                                                                                                                

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ispirano e salta agli occhi a chiunque osservi questo argomento non come semplice dato ma come prodotto di un’evoluzione.

Gli articoli che studiamo oggi sono il frutto di un dibattito che tutt’oggi non può dirsi del tutto concluso, una discussione che si chiede quanto l’uomo sia libero da influenze sociali, psicologiche o biologiche e di conseguenza quanto possa essere punito per le azioni sbagliate che commette.

L’imputabilità si distende e si contrae condizionata dal periodo storico e dalla condizione sociale che il legislatore e i giuristi vivono e lo potremo osservare anche analizzando diverse sentenze della Corte di Cassazioni che prendono posizioni altalenanti nel tempo.

Il concetto di pericolosità sociale

Per meglio comprendere il pensiero della Scuola Positiva è interessante introdurre il concetto di pericolosità sociale rifacendosi direttamente all’Enciclopedia Treccani la quale afferma che:

“La pericolosità sociale è un concetto entrato nell’ordinamento italiano con il codice

del 1930. L’art. 203 c.p. stabilisce, infatti, che agli effetti della legge penale è socialmente pericolosa la persona, anche non imputabile o non punibile, la quale ha commesso un fatto previsto dalla legge come reato, quando è probabile che lo commetta di nuovo. Tale nozione trova il proprio fondamento nel pensiero della Scuola Positiva del diritto penale. Questa, infatti, muoveva dalla premessa che il reato deve essere considerato fenomeno naturale determinato da fattori criminogenetici e non da una scelta individuale suscettibile di un giudizio di responsabilità morale. Conseguenza di una tale impostazione è il rilievo per cui l’intervento penale non può orientarsi alla retribuzione dell’illecito commesso, né avere esclusivamente una finalità repressiva, ma deve trarre il proprio fondamento dalla necessità della prevenzione finalizzata alla difesa sociale contro il delitto. La sanzione penale deve essere adeguata al rischio che l’autore del reato rappresenta per la società e tendere esclusivamente a impedirne la recidiva. La proposta della

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scuola positiva venne così a incentrarsi sul problema della pericolosità del reo, per la prima volta individuata nei suoi fattori costituenti essenziali, come giudizio prognostico sulla capacità dell’individuo di commettere nuovi reati, nonché come centro di imputazione di un giudizio non fondato sul rimprovero per la colpevolezza dell’azione, ma sulla necessità di prevenire la commissione di ulteriori reati. In tale prospettiva il reato acquista una valenza sintomatica, rivelatrice del complesso delle caratteristiche psicologiche, antropologiche e sociali del reo dalla cui osservazione si può evincere la pericolosità dello stesso. Il codice Rocco non ha recepito tutte le istanze dei positivisti, ma ha considerato la pericolosità sociale come una caratteristica eventuale dell’autore del reato, non permanente in quanto sottoposta a riesame, e costitutiva di uno dei presupposti previsti dalla legge per l’applicazione delle misure di sicurezza. Proprio sulla base di queste considerazioni, il nostro codice penale ha accolto il cosiddetto sistema del doppio binario in base al quale la colpevolezza è il presupposto dell’applicazione della pena, mentre la pericolosità sociale quello per l’operatività della misura di sicurezza.

I parametri per valutare la qualità di persona socialmente pericolosa si desumono dalle circostanze indicate nell’art. 133 c.p.”.5

Uno dei più grandi sostenitori del principio di pericolosità sociale fu Ferri che si scagliò contro il Codice Zanardelli capitanando la Scuola Positiva. Nel 1919 il Ministro Mortara chiamò Ferri a presiedere una commissione per la riforma del Codice Zanardelli e egli utilizzò il suo ruolo per promuovere la sua idea di abolizione del principio di imputabilità a favore di un principio di pericolosità che postula l’abolizione della pena e l’applicazione di misure di difesa sociale.

Secondo il Ferri, oltre la responsabilità legale un’altra condizione comune a tutti i delinquenti, è che la loro responsabilità deve concretarsi in una sanzione la quale, caso per caso, corrisponda alla diversa pericolosità del delinquente.

                                                                                                               

5  Cfr.  Enciclopedia  Treccani  Online:  http://www.treccani.it/enciclopedia/pericolosita-­‐

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Per sostenere il suo progetto e difendersi dalle numerose critiche, che condannavano l’idea di sostituire il concetto di rimproverabilità con quello soggettivo della pericolosità, il Ferri pubblicò “Principi di diritto criminale” nel quale puntualizza che: • Il concetto di pericolosità contiene il concetto di temibilità oltre che quello di

riadattabilità alla vita sociale.

• La pericolosità sociale va intesa come capacità di una persona di divenire con probabilità autore di reato, ossia pericolosità eventuale.

• Esistono tre parametri per graduare la pericolosità: la gravità del delitto, i motivi determinanti e la personalità dell’agente.

• Il concetto di pericolosità richiede ampie ed approfondite indagini da parte del giudice sulla personalità del reo. Si auspica, quindi, la formazione di una magistratura penale munita di vaste e precise cognizioni criminologiche sull’autore del reato.

Com’è noto il Codice Rocco fu una via di compromesso tra le istanze di Ferri e le critiche che gli venivano mosse contenendo al suo interno sia il principio di imputabilità sia quello di pericolosità sociale e, solo dopo oltre mezzo secolo, le presunzioni di pericolosità, antistoriche e antiscientifiche su cui il Codice si posava, furono debellate.6

Tale opera di pulizia è figlia di un orientamento della Corte Costituzionale che, attraverso una serie di sentenze, riuscì a rielaborare il concetto introdotto dal Codice Rocco.

Un primo passo tendente ad inficiare il meccanismo delle presunzioni di pericolosità, fu fatto dalla sentenza nº 110 del 23 aprile del 1974, con la quale veniva dichiarato illegittimo il comma 2 dell'art. 207 c.p., nonché il comma 3 dello stesso articolo, nella parte in cui attribuiva al Ministro di Grazia e Giustizia il potere di revocare la misura di sicurezza prima che fosse decorso il tempo corrispondente alla durata minima stabilità dalla legge.

Successivamente quest'ultimo comma è stato formalmente abrogato dall'art. 89 della legge 26 luglio 1975 nº 354, che all'art. 70 ne attribuiva la competenza alla Sezione di                                                                                                                

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Sorveglianza. In conseguenza di tali modifiche veniva quindi a cadere la presunzione di durata della pericolosità per il periodo minimo prefissato dalla legge e la magistratura di Sorveglianza, in qualunque momento della esecuzione, poteva procedere alla revoca della misura di sicurezza nell'ipotesi in cui le persone ad essa sottoposte avessero cessato di essere socialmente pericolose. La Corte Costituzionale con le pronunce nº139 del 27 luglio 1982 e nº 249 del 15 luglio 1983, ha poi dichiarato la illegittimità degli artt. 222 e 219 comma 1 e 2 c.p., nella parte in cui essi non subordinano il provvedimento di applicazione della misura di sicurezza del manicomio giudiziario e della casa di cura e custodia, "al previo accertamento da parte del giudice della persistente pericolosità sociale derivante dall'infermità (...), al tempo dell'applicazione della misura di sicurezza".

In entrambi i casi, a giustificare le censure di illegittimità costituzionale espresse dalla Corte, riguardo alle disposizioni sottoposte al suo vaglio, era stato addotto il contrasto delle medesime con il principio di uguaglianza sancito dall'art. 3 Cost. Il che si spiegava con il rilievo che la mancata attualizzazione del giudizio sulla pericolosità sociale connessa alla persistenza effettiva dell'infermità psichica in capo all'imputato prosciolto ed a quello condannato per seminfermità, collegata all'inesistenza di un obbligo a carico del giudice di procedervi, avrebbe implicato la sottoposizione ad identico trattamento, tanto del soggetto ancora infermo di mente, quindi ancora pericoloso, quanto di quello non più affetto da tale infermità e, quindi, non più pericoloso. Questa identità di trattamento comportava una violazione del principio di uguaglianza.

Parte della dottrina sostiene che con la sentenza nº 139 del 1982 e conseguentemente con la nº 249 del 1983, la Corte costituzionale si sia limitata a ritenere costituzionalmente illegittima la presunzione di persistenza dell'infermità, senza smantellare alla base la fattispecie presuntiva in base alla quale l'infermità psichica veniva considerata come condizione produttiva di pericolosità. Infatti, la Corte giudicava "totalmente privo di base scientifica" "ipotizzare uno stato di salute (in tal caso di malattia), che si mantenga costante come regola generale valida per qualsiasi caso di infermità", mentre per converso, ribadiva, di non ritenere in contrasto con i

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criteri di comune esperienza "la presunzione che ricollega l'infermità alla pericolosità".

Le innovazioni apportate dalla giurisprudenza costituzionale, non correggevano il presupposto ideologico su cui si fondava la disciplina normativa delle presunzioni di pericolosità, vale a dire quello di ritenere il malato di mente un soggetto che a causa del suo stato era da considerarsi più incline del sano a commettere reati.7

Teorie filosofiche specifiche relative alla criminologia

Oltre alle due correnti di pensiero filosofiche principali nell’ambito più specifico della criminologia si sono sviluppate tantissime altre teorie che coinvolgono, volenti o nolenti, l’imputabilità e il tema della libertà umana.

Le varie teorie sono raggruppabili in tre macro-gruppi riguardanti la materia a cui esse afferiscono, abbiamo quindi teorie sociologiche, teorie psicologiche e teorie biologiche.

Come sarà possibile osservare analizzando le varie teorie esse soffrono tutte della medesima pecca, ossia non compiere un analisi a trecentosessanta gradi dei soggetti ma focalizzarsi solo su un aspetto, sociologico, psicologico o biologico che sia. Non riescono quindi a dare motivazioni soddisfacenti sul perché determinati soggetti compiono reati e altri, nelle medesime condizioni, non lo fanno.

Ognuna di essere cerca di trovare una sorta di “equazione” grazie alla quale si possa riconoscere in maniera evidente un soggetto che delinque o che delinquerà.

A parere di chi scrive questa ricerca, oltre a essere palesemente difficile, rischia di essere anche dannosa poiché scoprire “l’equazione” che porta un soggetto ad essere un criminale potrebbe non essere altro che una profezia che si auto-avvera condizionando irrimediabilmente un soggetto che verrebbe trattato in modo diverso dagli altri.

                                                                                                               

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Inoltre tutte queste teorie dal punto di vista dell’imputabilità, che è quello per noi rilevante, tendono ad essere fortemente deresponsabilizzanti. I soggetti sembrano essere irrimediabilmente condizionati dalla società in cui vivono, dalle loro condizioni economico- sociali, dalla chimica del loro cervello, da traumi o esperienze vissute; sembra quasi che l’essere umano sia di fatto impossibilitato ad un autodeterminazione reale e che sia solo in balia della vita e di un destino incontestabile. Trovo che questo sia irragionevole per il semplice fatto che è quotidianamente dimostrato che le medesime condizioni, poste a soggetti diversi, portano a risultati diversi in base alle scelte che ogni singolo individuo decide di compiere.

Passiamo ora ad una breve analisi delle suddette teorie che forniranno un quadro più completo dell’evoluzione temporale del concetto di devianza secondo la criminologia.

1) Teorie Sociologiche:

• Teoria delle aree criminali o teoria ecologica: Questa teoria venne perseguita dalla scuola di Chicago che fu la prima specificatamente dedicata ai sociologi. Fu Shaw a iniziare questo studio applicando sistematiche indagini ad ambiti urbani particolarmente degradati. Secondo queste teorie, in ogni grande agglomerato urbano possono identificarsi zone con particolari caratteristiche ambientali (da qui il nome di “teoria ecologica”) nelle quali gli abitanti che hanno avuto a che fare con la legge si trovano in concentrazione molto più elevata che in altre. Condizioni socio-economiche particolarmente disagiate sono una regola per gli abitanti di queste aree, che presentano anche elevata disoccupazione. Per questi motivi i delinquenti abituali sono soliti abitare o frequentare assiduamente questo tipo di contesto che li accetta, invece che emarginarli, ponendo meno attenzione ai loro trascorsi con la legge. Per la teoria ecologica pertanto l’ambiente di vita è il fattore più importante nella genesi della criminalità, almeno per quanto riguarda la delinquenza comune,

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anche se è ovvia l’importanza di altri fattori, posto che non tutti coloro che risiedono nelle aree criminali divengono delinquenti, e viceversa molti delinquenti di buon livello economico risiedono anche in quartieri urbani normali. Volendo porre attenzione al tema dell’autodeterminazione è evidente come la teoria delle aree criminali riconosca che gli autori di crimini che sono cresciuti in questi contesti, non ricevendo biasimo e disapprovazione

dall’ambiente che li circonda, sono in un certo qual senso mancanti della percezione del valore che il rispetto della legge comporta.

• Teoria della disorganizzazione sociale: è in realtà il raggruppamento di diverse teorie e visioni che riconoscono tutte nella rottura di molteplici equilibri, sui quali si fondano i valori normativi e l’etica sociale, la causa dell’incremento della criminalità. In questo caso “disorganizzazione” non si riferisce alla disfunzionalità dei pubblici servizi ma a qualcosa di più profondo, si parla di quel deperimento di valori e strumenti di controllo sociale legati ad uno smodato ed eccessivamente veloce cambiamento dell’industria con conseguente cambiamento dello stile di vita della società che la circonda. Per essere più specifici si parla del venir meno della famiglia intesa come organo tradizionale di crescita ed educazione, si parla dell’aumento abnorme dei conglomerati urbani, del mutamento e peggioramento delle condizioni e degli orari di lavoro i quali sottraggono tempo e risorse ad attività. Variante di questa teoria è la posizione di Sutherland (1934), che lega il concetto di disorganizzazione sociale, più che al mutamento e all’instabilità legata all’espansione industriale e allo sconvolgimento culturale ad esso seguito, all’esistenza nella società di contraddizioni normative. Se le norme sono contrastanti e contraddittorie non assolvono alla loro fondamentale funzione socializzatrice, in pratica il delitto si verifica perché la società non si schiera unitamente contro di esso. Sulla falsariga della teoria di Sutherland, molti anni dopo Johnson (1960) formula una sintesi dei più significativi aspetti del

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conflitto di norme responsabili dell’incremento della criminalità. Secondo questo autore, vi è conflitto di norme:

Ø quando vi sia socializzazione difettosa o mancante

Ø quando vi siano sanzioni deboli e vi è quindi insufficienza di intimidazione punitiva verso alcuni tipi di azioni delittuose che vengono pertanto implicitamente incentivate;

Ø quando vi sia inefficienza o corruzione dell’apparato giudiziario o di polizia.

• Teoria dei conflitti culturali: Sellin (1938) fu colui che portò avanti questa interessante teoria secondo la quale una delle principali cause del venir meno degli abituali parametri regolatori della condotta sociale e della conseguente facilitazione alla delinquenza e alla devianza, è la contrapposizione nell’individuo di sistemi culturali differenti. La teoria di Sellin venne sviluppata studiando l’immigrazione verso gli USA verificatasi i primi dell’800.

Egli notò:

Ø che alcuni valori normativi dell’immigrato si trovavano in contrasto con quelli della società ospitante – il persistere dei valori della cultura di origine poteva provocare conflitto con quelli nuovi non ancora assimilati e indebolire così quegli autocontrolli che assicuravano in precedenza un comportamento onesto;

Ø questa situazione provocava nell’individuo disagio, insicurezza e disadattamento;

Ø questo fenomeno colpiva particolarmente le seconde generazioni di immigrati poiché avevano perso il valore normativo della cultura d’origine ma non avevano ancora assimilato i costumi e i valori della cultura ospitante. Sellin chiama questi conflitti culturali primari, distinguendoli dai secondari dovuti al rigetto e alla discriminazione nei confronti degli immigrati da parte della popolazione autoctona. Un ulteriore problematica evidenziata era

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quella derivante dai casi in cui la cultura di origine e la cultura ricevente davano indicazioni apertamente in contrasto tra loro facendo si che il contesto sociale ospitante osteggiasse determinati atteggiamenti che invece il gruppo culturale del soggetto non ostacolava. Questa assenza di intimidazione di gruppo rendeva vana la più distante e distaccata intimidazione statale, poiché le norme penali non sono utili se non vengono interiorizzate.

• Teoria della devianza: Il concetto di devianza ha avuto un peso notevole nel successivo pensiero sociologico. Per capire cosa si intende per devianza bisogna analizzare la “conformità”. Conformità è una condotta che rientra nella gamma dei comportamenti permessi e generalmente accettati. Non sempre l’attore conosce esattamente l’insieme normativo ma esiste una precisa consapevolezza che rende costantemente informato ciascuno della conformità della sua condotta. Ciò si realizza attraverso l’educazione ma anche attraverso identificazione e interiorizzazione. La conformità alle norme sociali non è garantita solo dai valori ideologici e dal timore delle sanzioni, ma anche dai vantaggi legittimi che il rispetto delle norme comporta.

La devianza è la condizione opposta alla conformità. Si tratta di un concetto molto più ampio rispetto a quello di delinquenza dato che ricomprende sia le condotte che violano le norme penale (cioè i delitti) sia quelle contrarie alle semplici regole sociali generalmente accettate. Vi è però devianza solo quando la violazione è consapevole e volontaria, poiché il comportamento deviante presuppone nell’attore un atteggiamento di ambivalenza nei confronti della norma che da un lato conosce ma dall’altro non ne accetta l’autorità. Pertanto possiamo concludere affermando, che nella prospettiva della sociologia struttural-funzionalista, la devianza non è ogni condotta che violi alcune delle innumerevoli regole che una data cultura contiene ma solo il mancato rispetto di quelle norme che conservano ancora credibilità e che vengono ritenute più importanti.

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• Teoria dell’anomia: La teoria fu sviluppata da Durkheim all’inizio del ‘900 e per l’autore il termine anomia stava ad indicare la frattura delle regole sociali. Successivamente Robert Merton ha modificato profondamente la teoria suddetta affermando che l’anomia è intesa come la conseguenza di una incongruità fra le mete proposte dalla società e la reale possibilità di conseguirle. In sostanza l’industrializzazione di cui si parlava qualche teoria fa, non genera solo una decadimento dei valori ma crea anche delle aspettative comuni che possono sembrare positive, poiché forniscono a tutti la possibilità teorica di raggiungere i medesimi obbiettivi, ma che di fatto, sono negative poiché alla promessa di possibile successo non segue un reale sostegno sociale per compiere il percorso che poterebbe all’agognata meta. Il soggetto più svantaggiato quindi si trova sventolata davanti una falsa speranza e nel tentativo di raggiungerla si scontra con la realtà dei fatti, per piegare tale realtà è portato a delinquere. Merton ha anche individuato le diverse modalità di reagire alla condizione anomica. Dunque, abbiamo:

1) Un comportamento di conformità

2) Un comportamento deviante che, a seconda di come viene risolta l’antinomia fra le mete poste dalla cultura e i mezzi impiegato per conseguirle, può essere così manifestato:

a. Innovazione – che si realizza quando l’attore sociale è orientato verso i fini proposti dalla cultura, mira a raggiungerli ma per ottenerli non si pone problemi circa il carattere eventualmente illegittimo dei mezzi impiegati. Costoro diventano delinquenti trovandosi a essere osservanti dei fini ma non dei mezzi per conseguirli.

b. Ritualismo – questo tipo di devianza sui generis, si realizza quando permane il rispetto per le norme e vi è invece rifiuto di ricorrere ai mezzi illegittimi anche se ciò comporta la rinunzia a perseguire le mete del successo sociale. Esiste in questo modo devianza solo perché vengono mortificate le aspirazioni, ci si accontenta di ciò che si ha.

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c. Rinunzia – è la devianza che si realizza quando vengono persi di vista sia i fini che i mezzi, cioè quando si rinunzia a raggiungere i fine dell’ascesa economica o del successo ma nello stesso tempo non vi è rispetto delle norme istituzionali. E’ questa la devianza di chi cessa di combattere, si tratta di persone che in varia modalità infrangono le regole legali ma nelle quali il mancato rispetto delle norme non serve a migliorare il proprio status.

d. Ribellione – è la devianza caratterizzata dalla sostituzione delle mete culturali con mete diverse, da un rifiuto globale della società e, pertanto, anche delle regole circa l’uso dei mezzi illegittimi. Il ribelle, l’anarchico, il contestatore, assumono un sistema di valori del tutto alieno e contrapposto a quello della cultura dominante e si propongono di conseguire un sistema sociale e culturale alternativo. Quest’ultimo caso è quello di nostro interesse poiché spesso i serial killer sono mossi da alienazione nei confronti della società e da obbiettivi del tutto personali e incuranti del rispetto dei valori sociali.

• Teoria delle associazioni differenziali: nasce negli anni 30 e vede in Sutherland il suo creatore; afferma che la delinquenza è appresa dall’associazione interpersonale con altri delinquenti. Questo apprendimento avverrebbe mediante un processo di comunicazione analogo, ma di segno opposto, a quello tramite il quale si apprende il rispetto delle norme legali. Questa teoria viene proposta da Sutherland come schema per una teoria generale della criminalità, non esisterebbe dunque una criminalità innata ma si imparerebbe a delinquere assimilando i comportamenti criminosi proposti da un certo ambiente. Analiticamente possiamo dunque puntualizzare che:

1) il comportamento criminale è un comportamento appreso;

2) tale comportamento è appreso attraverso il contatto con altre persone e per mezzo di processi di comunicazione;

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4) si apprendono anche le tecniche necessarie al compimento del reato, le valutazioni e le attitudini nei confronti del crimine;

5) si diventa delinquenti quanto le interpretazioni contrarie rispetto alla legge sono in un dato ambiente prevalenti rispetto a quelle favorevole;

6) le associazioni differenziali possono variare in rapporto all’intensità, alla priorità, alla durata, alla anteriorità del “contagio”;

7) il processo di apprendimento del comportamento criminale implica gli stessi meccanismi che verrebbero chiamati in causa in qualsiasi altro tipo di apprendimento.

Il fatto che Sutherland si sia sforzato di costruire una teoria eziologia per spiegare cioè ogni forma di criminalità non significa che egli ignorasse del tutto la possibilità dell’intervento di altri fattori nell’eziologia del crimine. Se da un lato bisogna dare a Sutherland il merito di aver infranto l’equazione secondo la quale la delinquenza sarebbe sempre e solo strettamente collegata all’indigenza e alle condizioni sociali favorevoli, d’altro canto la teoria dell’americano è del tutto insufficiente per rendere conto della criminalità aggressiva, quella d’impeto o quella su base emotivo passionale perpetrata dai singoli.

• Teorie multifattoriali: L’opportunità di considerare congiuntamente l’individuo e il suo contesto sociale caratterizza l’indirizzo della integrazione individuo/ambiente tipico delle teorie multifattoriali che sono state formulate negli anni ’50 e ’60 e che si collocano nel filone della criminologia del consenso, prive come sono di contenuti ideologici e politici per privilegiare piuttosto un approccio teorico dal contenuto il più possibile fattuale e oggettivo.

Obiettivo fondamentale è quello di fornire una spiegazione alla constatazione che non tutti gli individui reagiscono con analoghe risposte comportamentali ai fattori criminogenetici legati al loro ambiente e alle loro condizioni socio-economiche e, viceversa, individui con uguali

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caratteristiche abnormi di personalità non divengono per ciò solo delinquenti.

Le teorie dell’integrazione hanno per l’appunto cercato di considerare contestualmente i vari fattori criminogenetici individuali, somatici e/o psichici, capaci di rendere conto della “risposta differenziale” ad analoghe spinte criminogenetiche – indicandoli come componenti di vulnerabilità individuale nei confronti di sollecitazioni provenienti dall’ambiente – ed integrandoli con le componenti di vulnerabilità ambientale, legate ai vari handicap sociali ai quali i singoli soggetti sono esposti.

• Teoria non direzionale dei Gluek: La teoria dei coniugi Glueck si è proposta di identificare i fattore familiari-situazionali e quelli individuali che sono più frequenti nei giovani criminali. Questi fattori sono emersi, mediante ricerche e controlli protrattisi per circa 20 anni (1950-1971), dal controllo di due gruppi di minorenni, l’uno composta di giovani che avevano commesso delitti e l’altro di coetanei che avevano avuto condotta normale, così da poter analizzare, a parità di condizioni, in cosa differivano i delinquenti dai non delinquenti. Il perché del diverso comportamento sociale venne identificato nelle diverse caratteristiche di personalità e dell’ambiente familiare di ogni soggetto.

Il fatto che le caratteristiche differenziali fra i due gruppi presentino una elevata frequenza statistica indica la loro effettiva importanza nella criminogenesi tanto è vero che il riscontro di tali caratteristiche in un dato soggetto è stato utilizzato dai coniugi Glueck come indice predittivo di sua probabile futura criminalità.

Si potrebbe in sintesi affermare che le aree sociali meno privilegiate dalle quali provenivano i due gruppi di giovani esaminati dai Glueck contengono molteplici fattori potenzialmente criminogeni: solo però nel caso in cui i fattori negativi ambientali si sommino a certa particolari caratteristiche

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psichiche dell’individuo e/o all’inadeguatezza della famiglia, si realizza più facilmente la condotta criminosa.

• Teoria dei contenitori di Reckless: Questa teoria fa parte dell’indirizzo noto come criminologia del consenso. Si fonda tutta sull’individuazione di fattori contenitivi che indirizzano il comportamento sociale in un senso o nell’altro a seconda della loro presenza o assenza.

Reckless distinse:

• Contenitori interni – rappresentati da quegli aspetti della struttura psicologica più significativi per favorire l’integrazione sociale (buon autocontrollo, forza di volontà, etica, responsabilità, etc.)

• Contenitori esterni – rappresentati dall’insieme delle caratteristiche dell’ambiente nel quale il singolo soggetto si trova a vivere. I contenitori esterni rappresentano i freni strutturali che, operanti nell’immediato contesto sociale di una persona, o agenti in senso più lato nella società, gli permettono di non oltrepassare i limiti normativi (aspettative di successo sociale, relazioni, consenso, figure di riferimento).

Si rende dunque necessario considerare contemporaneamente l’integrazione e la correlazione tra le variabili psicologiche e quelle ambientali. Esiste cioè tutto un complesso sistema di correlazioni fra i vari contenitori che consente di comprendere come l’accentuata carenza di taluni di essi renda proporzionalmente meno rilevante la mancanza degli altri: in genere, quanto più difettano i contenitori esterni, tanto minore importanza nel condurre alla criminalità viene ad assumere la carenza di quelli interni e viceversa.

• Teoria della cultura della bande criminali: Nasce per mano di Cohen il quale afferma che le dinamiche che portano alla delinquenza nascono dal confronto, e dal relativo contrasto, tra i giovani di basta estrazione sociale e la cultura della classe media, la quale rappresenta i valori più diffusi.

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L’impossibilità per i primi di raggiungere vantaggi e successo sociale di cui coetanei di ceti sociali più favoriti godono li rende frustrati e umiliati. Per Cohen, questi giovani trovano una soluzione a tale dissonanza nel disconoscere le regole della cultura dominante e nel cercare di organizzare nuovi e diversi rapporti interpersonali con proprie norme e propri criteri di status. In tal modo, le norme e gli ideali borghesi, essendo irraggiungibili, non costituiscono più mete culturali ambite ma sono rifiutate e disprezzate perché espressione del sistema dominante, giudicato a loro estraneo, ingiusto, da rifiutare e disprezzare. Come si può notare vi è una forte affinità tra questa teoria e quella dell’anomia.

• Teoria delle bande giovanili: è chiamata anche teoria delle opportunità differenziali e non si discosta molto dalla teoria precedente. Anche secondo questi autori la nascita delle bande criminali è dovuta al bisogno di aggregazione tra soggetti socialmente sfavoriti con analoghi problemi di adattamento. Tali bande possono essere criminali in senso stretto, ossi essere organizzate da ragazzi dediti ai cosiddetti reati da strada (furto, borseggio, rapina) volti ad ottenere denaro che è considerato uno status symbol. Oppure da bande conflittuali, dedite a violenza e vandalismo senza finalità lucrative. Oppure da bande astensioniste composte da giovani che esprimono il rifiuto globale della cultura alienandosene attraverso l’uso di droghe e alcol.

• Teoria dell’etichettamento: Queste teorie, che ebbero un grande successo negli anni sessanta, vengono inserite nel filone criminologico del labelling approach e recuperano la posizione dell’inerazionismo simbolico di Mead (1934).

Gli aspetti caratterizzanti della “teoria dell’etichettamento” (Becker, Lemert, Kitsuse) sono incentrati sui seguenti punti:

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1. visione rigida e dicotomica delle classi sociali – percepite come classe dei proletari sfruttati e classe dei padroni sfruttatori;

2. non univoca accettazione delle norme legali – in quanto ritenute funzionali ai detentori del potere e quindi con condivise da quella parte dei consociati da essi vessati;

3. valorizzazione del concetto di reazione sociale – quale risposta che la cultura dei ricchi mette in atto nei confronti delle condotte devianti mediante la stigmatizzazione, l’emarginazione e le sanzioni penali;

4. percezione della devianza e della criminalità non quali comportamenti riprovevoli o colpevoli ma quale mero frutto di un etichettamento negativo esercitato dal potere nei confronti delle sole condotte antigiuridiche commesse dalle classe subalterne.

I teorici del labelling approach, affermano che il deviante non è tale perché commette certe azioni, ma perché la società qualifica come deviante chi compie quelle azioni: con la reazione sociale consistente nel conferire la qualifica di deviante, la devianza viene in un certo senso “creata” dalla nostra stessa società. Ciò che rileva non è quindi l’atto del singolo ma la reazione che la società ha nei confronti di quel singolo atto.

- Il deviante non è più visto come disfunzionale al sistema sociale, anzi viene “creato” per potersi differenziare da esso che viene preso come paragone negativo.

- Il deviante svolge così il ruolo di capro espiatorio raccogliendo su di se emotività e sdegno sociale, in una sorta di caccia alle streghe volta anche a non focalizzarsi su quei comportamenti dannosi ma propri di classi sociali dominanti.

- Di conseguenza il criminale, nella comune accezione, non è tanto colui che commette un crimine ma piuttosto colui che, fra i molti atti illegali, ne compie certuni particolarmente efferati o impressionanti per la pubblica opinione, la quale non tratta con il medesimo sdegno tutti gli atti contrari ai codici.

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La devianza è quindi ciò che la classe dominante, i gruppi sociali, decidono essere devianza, etichettando le persone che compiono certi gesti come criminali ed outsider.

Il processo di consolidamento della devianza si realizza poi attraverso una serie di eventi. Infatti, colui che è definito come deviante tende a stabilizzare la sua condotta in una carriera deviante, il che comporta l’assunzione di un ruolo deviante e conseguentemente anche il sentimento della identità personale diviene quello di un Io deviante. La stigmatizzazione fa dunque in modo che il soggetto che si è comportato in un certo modo finisca per riconoscere se stesso nell’etichetta che gli è stata posta e non tende più a modificare la condotta.

Viene inoltre distinta la devianza primaria da quella secondaria, la prima vede il soggetto riconosciuto deviante non immedesimarsi e non sentirsi tale, avendo così più possibilità di rientrare all’interno dei meccanismi della società; la seconda invece vede il soggetto deviante soccombere psicologicamente alla reazione sociale fino a assumere, volente o nolente, il ruolo di deviante, ossia di delinquente.

2) Teorie Psicologiche:

• Teoria del campo (Lewin): ha derivato i propri assunti dal concetto di campo di forze elettromagnetiche tratto dalla fisica: ogni elemento all’interno si un sistema, detto campo, influenza tutti gli altri elementi e ne viene a sua volta influenzato. In psicologia ciò significa che l’individuo è costantemente influenzato dall’ambiente, e non può quindi essere studiato isolatamente da esso, posizione del resto condivisa da tutta la psicologia sociale. Balloni (1984) ha esteso alla criminologia i concetti espressi da Lewin considerando “campo” la persona, l’ambiente a lui più vicino (cioè il suo spazio di vita) e l’ambiente nel senso più ampio. La combinazione di questi elementi può formularsi come

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una legge fisica in cui il comportamento, in questo caso criminoso, è in funzione della persona e dell’ambiente.

• La teoria dei sistemi: invece di considerare un fatto o una condotta come effetto necessario di una causa data (causalità lineare) cerca piuttosto di analizzare le reciproche influenze tra i fenomeni: relativamente al comportamento umano, analizza il processo attraverso il quale, in un rapporto interpersonale, la condotta di un soggetto influenza quella degli altri, cioè la loro risposta, e come di nuovo questa risposta ha effetto sul comportamento del primo agente (“causalità circolare”). Questo schema di causalità circolare è stato applicato soprattutto nello studio dei rapporti tra criminale e vittima poiché è stato ritenuto che il comportamento aggressivo del primo può essere effetto di una serie di comunicazioni, risposte ed effetti di feedback dalle quali potrebbe appari come la vittima sia a sua volta un aggressore o un provocatore. Una serie di studi sulla comunicazione (Haley, 1963) derivano direttamente dalla teoria dei sistemi. Haley afferma che la comunicazione non verbale, cosi come quella verbale possono avere un significato contrario rispetto a quello che si sta letteralmente comunicando. Pertanto la reazione ad una comunicazione della vittima potrebbe essere un’aggressione data dalla difficoltà o dall’impossibilità di inviare messaggi comportamentali privi di significato. Si arriva persino ad affermare che determinati comportamenti violenti sono il disperato tentativo di mostrare le proprie intenzioni non violente.

Queste sono considerate “patologie della comunicazione” e vanno a ledere profondamente, per esempio, la veridicità dei testimoni. Le indagini e gli esperimenti psicologici mostrano che la deposizione di un teste che crede di essere sincero non necessariamente corrisponde alla verità poiché molti fattori possono talora interferire sul suo ricordo e fargli riferire circostanze che egli reputa vere, mentre non lo sono. Ciò non significa che la testimonianza debba

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sempre essere posta in dubbio: starà al giudice valutare la credibilità di un teste, ben sapendo che questi può dire il falso senza rendersene conto.

• Il comportamentismo: Questa teoria nasce negli Stati Uniti dal caposcuola J.B. Watson (1914) ed è chiamata anche psicologia dello stimolo-risposta e si differenzia dalle altre fin ora considerate perché offre una teoria della personalità maggiormente legata alle metodologie empiriche delle scienze naturali.

Il comportamentismo si limita ad osservare come l’uomo reagisce agli stimoli provenienti dall’ambiente, partendo dal principio che non può impiegarsi la introspezione per comprendere la condotta umana perché tutto ciò che avviene nell’intimo della persona non può essere conosciuto ed è al più solo intuibile o ipotizzabile: ciò che è conoscibile con certezza è solo ciò che l’uomo fa, non ciò che sente. È quindi evidente la distanza che si pone tra queste teoria e quelle che cercano di spiegare ragioni e meccanismi psicologici insondabili che sottendono al comportamento umano. Il comportamentismo, in sostanza, ignora le motivazioni per cui si compie un’azione, analizza solo l’azione stessa e la causa da cui essa è dipendente.

Da questi presupposti la psicologia comportamentista è giunta d un altro suo fondamentale contenuto: la condotta umana può essere indirizzata a seconda di come l’ambiente, con i suoi diversi stimoli, contrasta o ricompensa o rafforza il comportamento. L’uomo, cioè, non è libero nella sua condotta ma ne è guidato dalle condizioni ambientali secondo il meccanismo dello stimolo → risposta: pertanto, modificando l’ambiente può indirizzarsi il comportamento nel senso voluto. Sostiene inoltre che esiste un’elevata regolarità nelle risposte, tanto che è possibile affermare che la maggior parte degli individui risponde agli stimoli esterni in egual modo. Ogni mutamento è statisticamente rilevante solo con il variare delle condizioni esterne, non con il mutamento delle condizioni dei singoli individui.

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La versione di Skinner (1953) del comportamentismo ha profondamente influenzato anche il pensiero sociologico, fornendo un sistema interpretativo della personalità umana rigidamente deterministico, secondo il quale date certe condizioni, verrebbero lasciati strettissimi margini di libertà alla scelta comportamentale dei singoli.

Secondo Skinner la psicologia deve studiare quali sono i rinforzi che tendono a indirizzare il comportamento e come applicarli più efficacemente. Una corretta utilizzazione dei gratificazioni e punizioni avrà come risultato di far sì che le persone indirizzino stabilmente la loro condotta in un certo senso: da qui la visione utopica di una società ideale ove con una preordinata applicazione di stimoli e di rinforzi adeguati, potranno essere eliminate tutte le anomalie comportamentali.

Dal punto di vista criminologico il comportamentismo è stato utilizzato per identificare quali siano gli stimoli e i rinforzi che, provenendo dall’ambiente, portano alla condotta criminosa.

Fu Dollard (1939) a sviluppare la teoria della frustrazione-aggressione secondo cui un comportamento aggressivo presuppone l’esistenza di una frustrazione (stimolo). Di conseguenza, tanto più la società è frustrante nei confronti degli individui, tanto più si avranno comportamenti aggressivi. E anche qui percepiamo forte il collegamento con la teoria dell’anomia di Merton.

Nonostante tutto però vi è sempre una quota di persone che si comporteranno in modo diverso nonostante l’impulso impresso statisticamente dovrebbe condurre ad una determinata reazione. Gli uomini, infatti, non sono tutti uguali e ciascuno conserva pur sempre un suo spazio di libertà di scelta e questo spazio rimane comunque quali che siano i rinforzi che vengono effettuati.

3) Teorie Biologiche:

• Teoria della predisposizione: Questa teoria sostiene che non vi possa essere una correlazione diretta tra genetica e predisposizione innata al delitto poiché il

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delitto stesso è un concetto mutevole che si evolve a seconda del periodo storico-culturale osservato. Molto più proponibile è l’affermazione secondo la quale vi può essere correlazione diretta tra la struttura biologica degli individui e certi aspetti della loro mente che possono favorire atteggiamenti prodromici al crimine; aggressività, poca tolleranza verso le frustrazioni, spirito d’iniziative, inventiva, reattività e certe componenti dell’intelligenza, hanno, secondo la teoria della predisposizione, matrice genetica e possono avvicinare o allontanare un soggetto dalla propensione al crimine.

Questo studio è stato realizzato attraverso quello che i genetisti denominano metodo gemellare; analizzando ciò coppie di gemelli monozigoti separati alla nascita e allevati in contesti familiari, sociale e culturali diversi. Questi studi hanno consentito di accertare che alcuni aspetti psichici e comportamentali erano identici nei due gemelli nonostante le diverse condizioni ambientali. Ciò significa che questi tratti parrebbero avere una matrice genetica perché si manifestano in entrambi i gemelli nonostante le differenze d’ambiente.

Altri studi si sono in passato rivolti ad esaminare il rapporto fra la costituzione e la criminalità, partendo dal principio che la conformazione corporea è certamente legata a fattori ereditari e dal fatto che esiste un certo rapporto fra costituzione e caratteristiche psichiche, inferendo che la presenza di talune di queste comporterebbe una sorta di predisposizione alla delinquenza.

Basti ricordare gli studi di Cesare Lombroso, dei cui studi si parlerà con maggior completezza in seguito.

Tutti questi approcci, naturalmente, sono oggi caduti in discredito e la validità delle correlazioni fra fisico e psiche è limitata a un semplice livello statistico; è evidente che la criminalità sia una condotta complessa nella quale interferiscono innumerevoli fattori, quali circostanze ambientali, momenti storici differenti e soprattutto valori morali. Sarebbe pertanto sbagliato parlare di disposizione ereditaria al delitto invocando il fattore genetico come giustificazione della condotta criminosa. Diverso sarebbe parlare di predisposizioni biologicamente determinate verso caratteristiche mentali

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prodromiche al comportamento criminoso, come è già stato detto in precedenza.

Oggi sta prendendo piede un nuovo determinismo biologico che ha trovato alimento dal grande sviluppo in questi anni delle neuroscienze : le scienze che studiano il funzionamento del cervello e che si avvalgono di tecniche sempre più sofisticate che consentono di osservare come funziona il cervello in tempo reale. Sta così sorgendo una nuova visione materialistica e deterministica per la quale il libero arbitrio, la morale la mente e l’Io non esistono più: l’uomo è programmato geneticamente fino ai minimi particolari.

L’assunto di partenza è il cervello è programmato biologicamente secondo le informazioni del DNA così che l’uomo non avrebbe effettivi spazi di libertà.

• Teoria degli istinti: Questa teoria di basa sugli studi etologici fatti in biologia la quale vede contrapposti due antitetici orientamenti per quel che riguarda il comportamento degli animali, così come quello dell’uomo. Da un lato si ha quello che privilegia l’istinto (secondo il quale il comportamento è l’effetto delle predisposizioni congenite) e quello che dà maggiore rilievo all’ambiente (secondo il quale il comportamento è la conseguenza delle condizioni e degli

stimoli ambientali).

1) orientamento istintivistico – La scuola dell’etologia, facente capo a Karl Lorentz, partendo dall’osservazione degli animali, teorizzava che qualsiasi essere vivente non è concepibile separatamente dal suo ambiente; l’organismo animale è strutturato in modo da raccogliere segnali dall’ambiente e la risposta a taluni stimoli è in parte congenitamente determinata. Gli istinti, chiamati da Lorentz “schemi d’azione”, sono concepiti come una potenzialità innata, una forza che spinge all’azione incurante dello scopo ultimo a cui il suo agire mira. Tali tendenze innate devono essere integrate però, nell’animale quanto nell’uomo, con l’apprendimento, l’esperienza, l’insegnamento da parte dei genitori e tutti gli altri fattori che provengono dall’ambiente.

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2) L’orientamento ambientalistico – secondo questo orientamento ciò che viene appreso dall’ambiente e ciò che è congenito non è distinguibile all’interno dell’individuo. Ciò che cambia, e quindi ciò in cui l’impronta genetica si manifesta, da soggetto in soggetto è la capacità innata di elaborare ed apprendere dagli stimoli esterni.

3) Orientamento correlazionistico – tende a sottolineare l’interdipendenza tra istinto e ambiente. L’antinomia tra i due, secondo Gottlieb (1971) verrebbe superata considerando due distinti tipi fondamentali di comportamento; quello innato, esclusivo degli esseri viventi più semplici, e il comportamento acquisito, tipico invece degli animali superiori i quali interagiscono in maniera più complessa con l’ambiente circostante.

• La sociobiologia: La sociobiologia afferma che, così come le società animali, anche quelle umane, devono soddisfare al massimo il principio di idoneità biologica in senso Darwiniano. Secondo questo assunto non sono gli individui ad essere importanti per tali fini quanto il patrimonio genetico ereditario trasmettitore degli schemi di comportamento che solitamente chiamiamo istinti. Il gene condiziona individui e società proprio per la sua naturale spinta alla sopravvivenza e alla riproduzione e per questo motivo considerazioni di ordine etico e culturale proprie degli uomini e della società gli sono estranee. Alcuni sociobiologi rinvengono addirittura un “gene egoista” che si preoccupa solo della propria sopravvivenza e trasforma persino l’altruismo in un comportamento funzionale esclusivamente alla sopravvivenza della specie, defraudandolo di qualsiasi connotazione di ordine etico o di merito. Questa teoria, applicata alla criminologia, vede realizzarsi l’ipotesi secondo la quale i comportamenti aggressivi non siano comportamenti scelti dai loro autori in spregio all’etica e alle norme quanto piuttosto una sorta di inevitabile conseguenza di una selezione naturale che è venuta a privilegiare i più forti, i

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più violenti e i più aggressivi. Nonostante tutto persino questa teoria rifiuta l’esistenza di un “gene della criminalità”.8

Ricollegandomi a quanto detto all’inizio del capitolo mi ritrovo nuovamente a constatare che tutte le teorie testé analizzate soffrono della mancanza di una visione globale, che le porta ad analizzare l’uomo e i suoi comportamenti più come se fossero delle espressioni matematiche piuttosto che individui tridimensionali figli di innumerevoli fattori, condizionanti o meno.

Evoluzione storica

Isabella Merzagora Betsos racconta, in un suo trattato sull’imputabilità, come già nel diritto romano, in aderenza alla dottrina ippocratica, i “furiosi” e i “fatui” che si fossero resi responsabili di reati andavano esenti da punizioni; la “fatuitas” era pressoché assimilabile al difetto di intelligenza mentre nel “furor” si ricomprendevano tutte le forme di follia, già allora si riconosceva la possibilità di un “lucido intervallo” che facesse venire a mancare l’applicazione della scriminante. Poi con la legislazione giustinianea il vocabolario “nosografico” si è arricchito con termini come “dementia”, “insania”, “fuitas”, “mania”, “amentia”; tutte situazioni che comportano l’impunità dell’eventuale delitto.

Il successivo periodo da prendere in considerazione è quello che vede l’entrata in vigore del diritto penale germanico, tale diritto infatti fa eccezione a quella che era stata la situazione della questione fino a quel momento, infatti, avendo riguardo esclusivo all’elemento oggettivo del danno, non si cura dell’elemento soggettivo e considera responsabili anche i malati di mente.

L’attenzione all’elemento soggettivo del reato non verrà mai deposta invece dalla Chiesa: il diritto penale canonico escludeva l’imputabilità per coloro a cui facessero

                                                                                                               

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difetto il discernimento e la volontà libera, cioè dementi e furiosi, comprendendosi anche le situazioni di furore improvviso e transitorio.

Un nuovo e repentino cambio di direzione lo abbiamo con l’inquisizione che, per motivi di politica criminale, considerava poco rilevante se i folli fossero o meno responsabili delle proprie azioni; si combattevano stregoneria e potenze demoniache, non c’era tempo per questa sottigliezze e si preferiva mandare tutti al rogo.

Con l’anno mille si vede ritornare in auge nel diritto laico il principio dell’irresponsabilità e la situazione resterà immutata nei secoli successivi. Le novità di rilievo però ci furono; nel sedicesimo e nel diciassettesimo secolo, per esempio, i giuristi italiani consideravano le passioni incidenti sull’imputabilità.

Si arriva cosi al Codice Napoleonico del 1810; il suo articolo 64 recitava: “ Non

esiste né crimine né delitto allorché l’imputato trovavasi in stato di demenza al momento dell’azione, ovvero vi fu costretto da una forza alla quale non poté resistere”, chiarisce inoltre nei lavori preparatori che l’azione è imputabile con il

concorso simultaneo di cognizione, volontà e libertà. È una concezione ristretta figlia degli influssi della psichiatria francese dell’epoca.

In Italia, i codici pre-unitari, assorbirono non solo il principio generale ma anche le espressioni usate dal codice napoleonico e dai lavori preparatori. Mentre con l’unità d’Italia venne utilizzato il codice penale per gli stati di S.M. il Re di Sardegna del 1859 che, a proposito dell’imputabilità, stabiliva: “ Art. 94: non vi è reato se

l’imputato trovavasi in istato di assoluta imbecillità, di pazzia, o di morboso furore quando commise l’azione, ovvero se vi fu tratto da una forza alla quale non poté resistere”; “Art 95: allorché la pazzia, l’imbecillità, il furore o la forza non si riconoscessero a tal grado da rendere non imputabile affatto l’azione, i Giudici applicheranno all’imputato, secondo le circostanze dei casi, la pena del carcere estensibile anche ad anni dieci, o quella della custodia, estensibile anche ad anni venti (omissis).”

Lavora in questo periodo uno tra gli uomini che più profondamente hanno segnato la storia della criminologia e dell’imputabilità, Cesare Lombroso (1835-1919), il quale

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