• Non ci sono risultati.

Nella sua ormai ventennale vigenza, la normativa dell’istituto del “Centro di espulsione e identificazione” ha continuato a svilupparsi sulla base di due impostazioni di fondo presenti fin dalla sua origine: da un lato il fatto che l’istituto costituisce la risposta dell’ordinamento a una situazione emergenziale, straordinaria ed eccezionale, che per essere risolta richiede l’adozione di misure drastiche e soprattutto che siano di immediata attuazione; dall’altro, il CIE costituisce lo strumento fondamentale e privilegiato dal legislatore per garantire l’attua- zione concreta dell’intero sistema delle espulsioni degli stranieri irregolari (e, più in generale, dell’intera gestione nazionale dei flussi migratori), sistema che continua ad essere impostato secondo un’ottica fortemente repressiva. Queste due impostazioni di fondo, il “fare presto perché l’emergenza sia risolta” e il “fare tutto perché i clandestini se ne vadano”, pur poggian- do almeno in parte su elementi per certi versi condivisibili finiscono inevitabilmente per tra- dursi in una compressione di diritti fondamentali dell’uomo, sia dal lato delle procedure giuri- diche quanto dal lato delle concrete condizioni di vita, compressione che difficilmente può es- sere giustificata sulla base dei risultati che si vogliono ottenere (o, meno ancora, sulla base dei risultati concretamente ottenuti nella realtà).

L’impostazione del sistema dei CIE come risposta a una serie di situazioni emergenziali cui l’ordinamento deve garantire risposte in tempi rapidi è chiaramente riscontrabile dall’evolu- zione legislativa dell’istituto: i già CPTA sono istituiti dalla legge “Turco-Napolitano” durante un periodo di forte afflusso di migranti dai paesi della penisola balcanica, e molte delle rifor- me successive riguardanti la disciplina dei CIE sono state giustificate come risposte a impor- tanti sommovimenti geopolitici che richiedevano l’adozione di misure urgenti per farvi fronte (ora la minaccia globale del terrorismo islamico resa palese dagli attentati compiuti nelle capi- tali europee, ora l'improvviso incremento dell’afflusso di profughi e migranti economici par- tirti dalle coste dell’Africa settentrionale durante il turbolento periodo delle “primavere

arabe”). Sotto un diverso profilo, parte della legislazione è stata dettata dall’esigenza di ade- guare l’ordinamento italiano a istanze e interventi normativi disposti da istituzioni sovranazio- nali, cui lo Stato italiano tardava a dare adempimento concreto: in primo luogo l’istituzione del sistema Schengen, fondamento logico di tutta la prima grande revisione della normativa italiana in tema d’immigrazione attuata nel 1998, ma anche l’emanazione della “direttiva rim- patri” da parte del Parlamento europeo, cui l’Italia darà attuazione solo con grave ritardo e solo dopo la parziale sconfessione del suo ordinamento sancita dalla sentenza “El Dridi” della Corte di giustizia. Sintomatico di questa istanza a “fare presto” è l’impiego dello strumento del decreto legge, moneta corrente degli interventi normativi in materia di centri di tratteni- mento per stranieri, anche per normare aspetti che ben difficilmente possono essere ricondotti ai requisiti di straordinarietà, necessità e urgenza che l’art. 77 della Costituzione impone per l’impiego di un simile strumento (sempre con un decreto legge, per dire, si è provveduto ai vari cambi di denominazione delle strutture, aspetto che ben difficilmente può essere conside- rato una questione di necessità e urgenza). Questa istanza a “fare presto”, a dettare la normati- va sull’onda di “emergenze” (vere o presunte) da fronteggiare, ha avuto un forte influsso sulla definizione della normativa concreta: aspetti fondamentali non sono stati normati puntualmen- te, o la loro normazione è stata demandata dal legislatore ad atti secondari degli organi del po- tere esecutivo se non, addirittura, a regolamenti dettati dai soggetti privati incaricati della ge- stione delle strutture. Emblematico è il caso della regolamentazione dell’organizzazione inter- na delle strutture, della loro gestione concreta e della fornitura dei servizi essenziali ai tratte- nuti, quei “modi della detenzione” per i quali il dettato costituzionale imporrebbe una riserva di legge assoluta: questi aspetti fondamentali sono trattati solo per principi generali dalla leg- ge stessa e dal suo regolamento di attuazione, demandando in pratica la normativa puntuale ai regolamenti interni definiti dalle prefetture e dagli enti gestori delle singole strutture, situazio- ne cui ha solo parzialmente posto rimedio l’adozione del regolamento unico per i CIE emana- to dal Ministero dell’Interno (atto che tuttavia continua ad essere privo del carattere di norma di legge). Molte delle criticità riguardanti le condizioni di vita all’interno delle strutture, ri- scontrate dai soggetti che hanno materialmente ispezionato i CIE, possono essere ricondotte a questa impostazione: le strutture da adibire a centro per stranieri sono state selezionate badan- do più alla disponibilità immediata degli edifici che alla loro reale idoneità ad ospitare per un lungo periodo degli esseri umani, al punto che molti dei centri originariamente aperti sono sta- ti successivamente chiusi in maniera definitiva perché palesemente inadatti al loro scopo op-

pure sottoposti a estesi interventi di ristrutturazione che li hanno resi indisponibili per lunghi periodi di tempo, con il risultato che situazioni di sovraffollamento si sono ripetute con note- vole frequenza. L’inadeguatezza delle strutture non è compensata dalla fornitura di servizi adeguati da parte degli enti gestori, anche su aspetti di capitale importanza come quello dell’assistenza sanitaria: in questo ha giocato un ruolo centrale il continuo incremento del pe- riodo di detenzione inflitto ai trattenuti (servizi offerti con la previsione di un trattenimento di 30 o 60 giorni non risultavano evidentemente più adeguati quando la durata del trattenimento veniva innalzata a 18 mesi) e, soprattutto negli ultimi anni, la predisposizione di un sistema di assegnazioni delle strutture agli enti gestori che predilige come requisito principale l’offerta economicamente più vantaggiosa per lo Stato (anche per contenere un insieme di costi non in- differente in un periodo oggettivamente difficile per le casse erariali), con il risultato di indire una gara al ribasso dove si sacrifica la vivibilità dei centri e la dignità dei loro “ospiti” per ra- gioni puramente economiche. Su un piano più “procedimentale”, la tendenza al “fare presto” trova riflessi anche nella definizione normativa del processo di convalida del trattenimento: la scelta della camera di consiglio come rito dell’udienza di convalida e l’assenza di mezzi di impugnazione che non siano il ricorso per Cassazione (obbligatorio per precisa disposizione costituzionale, e comunque previsto senza efficacia sospensiva del provvedimento) sono tutti elementi di una procedura strutturata perché giunga nei tempi più rapidi all’emanazione del relativo provvedimento, in pratica derubricando a mero impedimento burocratico quelli che dovrebbero essere invece dei presidi di garanzia in merito alle procedure concernenti il fonda- mentale diritto alla libertà personale.

L’approccio al tema del contrasto all’immigrazione illegale con un’impostazione fortemente rigorista, rigida e repressiva è una costante del sistema italiano, soprattutto in tema di centri di trattenimento per stranieri: dall'istituzione dei primi CPTA per effetto della legge “Turco- Napolitano” si sono succedute cinque legislature e dodici governi appartenenti tanto allo schieramento politico del centrodestra quanto a quello del centrosinistra senza che ciò si tra- ducesse in particolari scostamenti dalla linea seguita fino ad allora nella normazione della di- sciplina dei centri, salvo la scelta fatta nel 2014 di diminuire per la prima volta il limite della durata massima del trattenimento. L’atteggiamento che predilige le soluzioni più rigorose e coercitive è lampante nella scelta dell’accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica come strumento primario per l’attuazione concreta del provvedimento di espulsione

convalidato: benché l’accompagnamento sia formalmente previsto solo in determinati casi tassativamente elencati dalla legge (art. 13 comma 4 TUI), l’ampiezza delle ipotesi previste e una certa vaghezza della loro formulazione fanno sì che esso sia di fatto disposto nella grande maggioranza dei casi, lasciando alla misura prevista in alternativa (la concessione da parte del questore di un termine per la partenza volontaria) solo uno spazio residuale, ulteriormente ri- dotto dalla previsione di requisiti fattuali molto stringenti (possesso del passaporto, disponibi- lità di un alloggio, disponibilità di una certa somma monetaria di cui sia possibile dimostrare la provenienza da “fonti lecite”). La predilezione per la misura coercitiva dell’accompagna- mento alla frontiera, fondamentalmente considerato dal legislatore come l’unico strumento in grado di dare le più concrete garanzie del fatto che lo straniero sia effettivamente allontanato dal territorio dello Stato, non può che trovare il suo corollario nella previsione del tratteni- mento in un CIE dello straniero da espellere, onde scongiurare il rischio di fuga dell’interessa- to e quindi dare attuazione concreta all’espulsione anche qualora non possa essere eseguita nell’immediatezza della sua deliberazione: anche in questo caso si replica lo schema prece- dente, con il trattenimento formalmente previsto solo in alcuni casi tassativi che tuttavia risul- tano talmente ampi e dai contorni vaghi da farvi ricadere all’interno gran parte delle situazioni concrete, riservando le misure alternative al trattenimento a situazioni residuali o a casi dove non è possibile o non è più possibile disporre il trattenimento stesso. L’avere in mente come obiettivo principale di tutto il procedimento la disposizione del trattenimento dello straniero porta il legislatore a sacrificare in suo favore diversi principi fondamentali, che invece do- vrebbero godere di non poca attenzione. La puntuale previsione e garanzia dei diritti di difesa dello straniero oggetto del provvedimento è stata fondamentalmente inserita nella normativa solo sulla scorta di pronunce della Corte Costituzionale, e comunque con formulazioni che ne depotenziano parte dell’efficacia concreta; l’indicazione del giudice di pace come giudice di un procedimento che attiene a un diritto fondamentale come la libertà personale è difficilmen- te spiegabile in altro modo se non, come paventato da vari commentatori, in ragione di una maggiore “docilità” e accondiscendenza al legislatore dei magistrati onorari rispetto a quelli togati, rei di aver ripetutamente sollevato questioni di costituzionalità (oltretutto in parte ac- colte dalla Corte) durante i primi anni di vigenza della normativa. Analoghe perplessità desta la scelta del rito in camera di consiglio, rito normalmente adottato nell’ordinamento italiano per la definizione di questioni procedimentali senza entrare nel merito la controversia sotto- stante, che in questo caso viene invece impiegato per la convalida di un provvedimento limita-

tivo di un diritto fondamentale come quello della libertà personale, con conseguenti gravi li- mitazioni al potere istruttorio del giudice (ridotto fondamentalmente a un controllo cartolare degli atti forniti dalla questura e di eventuali memorie difensive presentate dall'interessato) e in ultima istanza al diritto di difesa dello straniero. L’impossibilità per il giudice di modulare la durata del trattenimento in ragione delle circostanze concrete e peculiari del caso in specie si traduce in evidenti trattamenti diseguali contrastanti con i principi di ragionevolezza e pro- porzionalità. L’impostazione “rigorista” si sostanzia anche sul piano pratico, dalla struttura- zione dei centri come impianti carcerari a tutti gli effetti al loro presidio con ingente spiega- mento di agenti della forza pubblica, dal continuo insistere sulla necessità di allungare il pe- riodo di trattenimento al posizionare i centri in una sorta di dimensione fisica scollegata e iso- lata dal resto della società (intento sostanziatosi tanto nel collocare fisicamente le strutture in zone periferiche e isolate, quanto nel frapporre ostacoli più o meno ampi alle visite da parte di soggetti esterni, primi tra tutti giornalisti e associazioni indipendenti della società civile).

In generale, è difficile sottrarsi all’impressione secondo cui il legislatore abbia (volutamente) modulato il trattenimento dello stranieri irregolari come una sorta di “punizione” della loro condizione di irregolarità (separata dalla pur previsione di un reato penale concernente l’immigrazione clandestina), e i CIE come vere e proprie strutture carcerarie (“galere per stra- nieri”): un intento forse motivabile con il fatto che il mostrare inflessibilità e severità, da un lato, indurrebbe i trattenuti a collaborare attivamente al loro rimpatrio (cedendo sotto il peso delle pressioni inflitte loro), mentre dall’altro scoraggerebbe ulteriori ingressi di clandestini sul territorio dello Stato (spaventati dalla prospettiva di incorrere in un simile trattamento), prescindendo da considerazioni più propriamente “politiche” come il fatto che questa impo- stazione consente di presentare all’opinione pubblica un approccio “fermo e deciso” da parte delle autorità statali al complesso tema della regolamentazione dei flussi migratori. Anche vo- lendo ignorare questioni che non dovrebbero essere ignorate, come il fatto che una simile im- postazione contrasta apertamente con i principi comunitari in materia di trattenimento (che vogliono come modalità principale di attuazione il rimpatrio volontario e riservano al tratteni- mento coattivo solo lo spazio di misura di ultima istanza adottabile quando non vi sono altre alternative) e con diversi fondamentali principi dell’ordinamento italiano (dal nemo tenetur se

detegere alla rieducazione del reo), o come il fatto che comunque un sistema detentivo quale

dei diritti umani (come infatti avviene per l’ordinamento penitenziario e non avviene per i CIE, al punto che chi abbia avuto la ventura di vivere entrambe le situazioni ritiene che “si stia meglio in galera”), non si sfugge al fatto che la mera analisi della realtà sconfessa larga- mente questa impostazione: l’utilità dei CIE nel processo di identificazione e di espulsione de- gli stranieri irregolari è bassa perché comunque condizionata al fondamentale requisito della collaborazione alla procedura di rimpatrio da parte delle autorità diplomatiche e consolari del- lo Stato di origine dello straniero, collaborazione senza la quale qualunque espulsione risulta impossibile da attuarsi nella pratica (a prescindere da quanta durata abbia il trattenimento stes- so, siano 90 giorni o 18 mesi). Di ciò è testimone la percentuale dei trattenuti che vengono poi effettivamente espulsi dal territorio dello Stato, che nonostante le numerose riforme della di- sciplina dei CIE è solo raramente superiore al 50% (in linea con quella registrata nelle analo- ghe strutture degli altri Stati europei, segno che non si tratta di un’inefficienza strettamente nazionale) e fortemente differenziata in ragione della nazionalità del soggetto interessato, pre- scindendo ovviamente dal fatto che gli stranieri irregolari che effettivamente finiscono in un centro di espulsione sono solo una frazione misera (intorno all’1%) del totale stimato dei “clandestini” presenti sul territorio italiano. L’utilità dei CIE come strumento di dissuasione delle migrazioni irregolari è difficilmente stimabile, visto che attiene a considerazioni di ca- rattere psicologico diverse da singolo a singolo; è lecito tuttavia dubitare che questo effetto dissuasivo sia concretamente ottenibile, tanto a fronte dei numeri di sbarchi di migranti sulle coste italiane registrate nell’ultimo periodo (secondo i dati UNHCR più di 153.000 arrivi nel 2015 e più di 181.000 nel 2016) quanto dell’analisi delle cause che spingono le persone a mi- grare verso l’Europa (da fattori strutturali come il continuo divario economico tra i paesi del “Nord” e del “Sud” del mondo e la maggiore consapevolezza di questo divario da parte degli abitanti dei secondi grazie ai nuovi sistemi di comunicazione, a fattori contingenti come l'ina- sprirsi di conflitti come quello siriano e iracheno, la brutalità degli attacchi del fondamentali- smo islamico tanto in Africa che in Medio Oriente e il collasso dello Stato libico con la conse- guente impossibilità per il suo governo di arginare i flussi in partenza dal paese). I magri risul- tati ottenuti sul piano pratico non giustificano il “prezzo” che un simile sistema impone di pa- gare per ottenerli; posto ovviamente che l’infliggere trattamenti degradanti a degli esseri uma- ni di suo non produce mai alcunché di positivo.

Risulta difficile formulare prospettive di sviluppo futuro del sistema dei centri di trattenimen- to coattivo degli stranieri da espellere. Da più parti si è levata la richiesta di uno smantella- mento definitivo di tutto il sistema dei CIE: lo chiedono le associazioni per la tutela dei diritti fondamentali che hanno intrapreso campagne di ispezione dei CIE (“la chiusura di tutti i cen- tri di identificazione ed espulsione attualmente operativi in Italia, in ragione della loro palese inadeguatezza strutturale e funzionale”, è la prima delle richieste formulate a conclusione dell’indagine sui CIE intrapresa da Medici per i diritti umani98), ma lo ha chiesto anche la

“Commissione de Mistura” promossa dal Ministero dell’Interno nel 2007, che nel suo rappor- to finale proponeva di “superare” il sistema degli allora CPTA attraverso un loro progressivo “svuotamento” di tutte quelle categorie di persone per le quali “non c’è esigenza di tratteni- mento”99. Una simile richiesta appare di improbabile attuazione pratica nel prossimo futuro, a

meno di ipotizzare una altrettanto improbabile radicale riforma di tutto il sistema della gestio- ne dell’immigrazione irregolare: l’esistenza dei centri di trattenimento per stranieri irregolari è prevista dalla normativa comunitaria, e ha superato il vaglio tanto della Corte Costituzionale italiana quanto della Corte di Giustizia dell’Unione europea. Astrattamente parlando, è diffici- le ipotizzare un sistema di espulsione dei migranti irregolari senza prevedere un sistema coer- citivo che assicuri l’effettività delle decisioni giudiziarie prese in merito. Invece, molto si può fare (e si deve fare) in merito alla disciplina concreta dei centri, in particolare riconducendo il trattenimento coattivo degli stranieri a quel carattere di misura di ultima istanza ed extrema

ratio delineato per esso dalla “direttiva rimpatri”. In merito, non mancano le proposte: trala-

sciando quelle che esulano dalla disciplina del trattenimento stesso e che riguardano più pro- priamente la gestione generale dei flussi migratori (tra cui, a titolo d’esempio, la predisposi- zione di più efficaci modalità di immigrazione legale in Italia, cosa che consentirebbe di ab- battere il numero di “clandestini” e quindi la necessità stessa di una loro espulsione), due mi- sure di immediato impatto sarebbero il miglioramento del sistema di identificazione degli stranieri detenuti in carcere e un maggior incentivo all’applicazione delle misure alternative al trattenimento, primo tra tutti il rimpatrio volontario assistito. Gli ex detenuti sono da sempre la parte preponderante degli “ospiti” dei centri, con effetti deleteri sulle condizioni di vita all’interno dei centri stessi (in molti hanno sottolineato l’impatto negativo che ha il far convi- vere per molto tempo assieme soggetti criminali condannati per gravi reati e giovani incensu- rati trattenuti per la mera mancanza di un permesso di soggiorno, per tacere dei casi in cui vit-

98 MEDU, Arcipelago CIE, p. 168.

99 Commissione de Mistura, Rapporto conclusivo – Commissione per le verifiche e le strategie dei centri per

time di reati si ritrovano a convivere con persone condannate per quegli stessi reati) oltre che sulle condizioni psicologiche del singolo trattenuto (la permanenza nel CIE si traduce per l’ex detenuto in un secondo periodo di detenzione e quindi in una seconda e ulteriore pena da scontare per lo stesso reato). La mancata identificazione di ex detenuti che abbiano scontato pene anche di lunga durata desta non poche perplessità: la sua causa principale risiede in im- pedimenti di carattere burocratico-organizzativo, tra cui la scarsa collaborazione e comunica- zione tra i diversi enti responsabili delle varie fasi della detenzione (l’amministrazione peni- tenziaria e gli uffici immigrazione delle questure) e le interruzioni della linearità della proce- dura identificativa date, ad esempio, dai trasferimenti del soggetto da una struttura all’altra, impedimenti di per sé non insormontabili e di relativa facile risoluzione tramite interventi le- gislativi e regolamentari. In tema di identificazione dei trattenuti, comunque, rimane fonda- mentale la definizione di una più funzionale collaborazione con le autorità consolari dei paesi di destinazione, fondamentalmente l’unico sistema per rendere non solo più veloci le procedu- re (e quindi di ridurre il tempo di permanenza dello straniero nel CIE con conseguente elimi- nazione dei più negativi aspetti materiali generati dal trattenimento) ma anche per rendere più effettiva la prospettiva stessa dell’espulsione. Molti paesi stranieri non dispongono di un effi-