• Non ci sono risultati.

Le narrazioni positive che accompagnano le retoriche dei miei interlocutori si inseriscono, come ho cercato di sottolineare, nella più vasta concezione di una crescita collettiva e nazionale alla quale guardano con fiducia tanto i vertici dello Stato quanto i giovani protagonisti di questa etnografia. A loro volta, i giovani che manifestavano il loro desiderio di portare avanti percorsi di istruzione superiore o di autoimprenditorialità facevano coincidere le proprie aspettative di crescita non solo con quelle della collettività, ma con quelle norme sociali alle quali sentivano – e sentono – di dover aderire. Le parole di quanti sostenevano che, una volta esauditi i propri obiettivi di realizzazione, avrebbero voluto raggiungere gli agognati obiettivi del matrimonio e della genitorialità per marcare in modo definitivo il proprio

95 passaggio allo status di adulto, hanno sottolineato l’importanza di conformarsi alle aspettative che la famiglia, i conoscenti e più in generale la comunità, esercitano su di essi.

La pressione sociale alla quale sono soggetti, viene concettualizzata e spiegata dai miei interlocutori tramite la nozione locale di yilunta (o sikifta, in tigrino), la paura costante del giudizio degli altri e al tempo stesso sentimento incorporato del sapere di dover agire secondo principi e valori stabiliti dalle norme comunitarie e socialmente condivisi. “Qual è il tuo problema”, si chiedeva Helen quando le raccontavo di non essere ancora sposato e di non avere figli alla soglia dei trent’anni. Dalla sua testimonianza si è potuto constatare quanto il giudizio altrui possa incidere sugli individui, tanto da portare la ragazza a indossare un finto anello di fidanzamento per non subire il sospetto di non essere desiderata in sposa e poter proseguire senza incorrere in gossip negativi il proprio percorso di studi, nonostante, arrivata alla sua età, fosse già abbondantemente in “età da marito”, secondo le concezioni locali. Allo stesso modo Hagos parlava del “sentire qualcosa”, di avvertire cioè che la propria “relazione con

la società” risentisse costantemente del giudizio e delle aspettative degli altri. Come si avrà modo di vedere

anche nei capitoli successivi, il concetto di yilunta permea la vita dei miei giovani interlocutori e modella le loro relazioni, le loro aspettative e le loro azioni non soltanto per quanto riguarda la volontà – o soprattutto la difficoltà – di raggiungere lo status di adulto, facendo sì che di volta in volta vengano impiegate strategie di rinegoziazione, di opposizione o resistenza per mitigare o evitare gli effetti della pressione sociale che incombe su di essi.

La immagini del futuro dello studio e dell’autoimprenditorialità costituiscono, in conclusione, le principali retoriche a cui ricorrono i miei interlocutori nel figurarsi narrazioni positive circa il proprio avvenire. Tuttavia, esse non costituiscono – come è facile immaginare – garanzie certe di vedere realizzate queste ambizioni. Nel capitolo successivo verranno quindi indagate le strategie di quanti, pur perseguendo i medesimi obiettivi di crescita e di avanzamento sociale, non possono riporre la propria fiducia e le proprie energie in queste due immagini.

96

C

APITOLO

III

A

STUZIA

,

INGANNI E CREATIVITÀ

.

R

EPERTORI

CULTURALI PER LA MOBILITÀ SOCIALE

1. Introduzione

Nel capitolo precedente mi sono concentrato su due delle “immagini” del futuro sulle quali i giovani di Mekelle ripongono più fiducia: studio e imprenditorialità. Ho posto enfasi su come queste due attività rappresentino al tempo stesso un desiderio agognato e una possibilità concreta per realizzare i propri obiettivi di successo personale. Ma cosa succede, invece, a quelle persone che non possono riporre le proprie speranze nello studio o nel lavoro autonomo? Cosa succede quando quelle immagini del futuro diventano sfocate, quando le speranze vengono deluse e le attese disincantate? Si è visto quanto siano restrittive le condizioni per proseguire il proprio percorso di studi nel settore dell’istruzione pubblica, l’unico in grado di garantire occupazioni ben retribuite e socialmente considerate di prestigio, come per esempio quello di docente universitario. In un articolo sull’economia della strada ad Addis Abeba, Marco Di Nunzio ha efficacemente dimostrato come per i giovani che non provengono da famiglie benestanti o che non possiedono una buona rete di relazioni, rimanere privi di qualsiasi attività in attesa di un buon lavoro o di una buona opportunità non sia un’opzione praticabile e che il loro coinvolgimento nella sfera dell’economia informale sia l’unica strada percorribile (Di Nunzio, 2012). Analogamente, nel presente capitolo si cercherà dunque di dare spazio alle esperienze di quanti non possono riporre le proprie speranze e le proprie energie nello studio e nell’auto-imprenditorialità, né tantomeno possano contare su titoli di studio o di contatti fondamentali per gestire un business. Verranno indagate le strategie quotidiane e i progetti per il futuro di quanti si trovano ai margini del mondo del lavoro e dell’istruzione, assieme alle storie e alle alternative di chi ha già concluso o svolto un’attività in questi settori senza tuttavia migliorare le proprie condizioni di vita o essendone addirittura rimasto penalizzato. Per queste persone

97 il ricorso all’immaginazione, alla fantasia e alla creatività risulta forse ancor più necessario rispetto a coloro che investono fortemente in un’attività lavorativa o in un percorso di studi. I protagonisti di questo nuovo capitolo saranno quindi quei giovani per i quali i mezzi tramite i quali realizzare i propri obiettivi appaiono maggiormente incerti. Ciononostante si vedrà come, anche per chi si trova ai margini del mondo dello studio o dell’economia legale, gli obiettivi di autorealizzazione siano sostanzialmente invariati e corrispondano a quei desideri di benessere, di crescita e di “modernità” che vengono incoraggiati anche dalle politiche statali. Pertanto, i protagonisti di questo capitolo saranno giovani privi di un’occupazione fissa, spesso senza famiglia o con genitori poveri o assenti che non possono (o non vogliono) fornirgli nemmeno il minimo supporto. Questi giovani, tuttavia, riescono a sopravvivere attraverso un’economia, quella comunemente indicata come informale, fatta di lavori occasionali, reti di relazioni, sotterfugi, improvvisazione e inganni che talvolta sfociano in veri e propri atti criminali. Oltre alla sopravvivenza e al superamento delle sfide poste dalla propria quotidianità, verrà posta enfasi su quanto il ricorso all’economia della strada rappresenti l’unico modo per lavorare attivamente alla realizzazione dei propri obiettivi futuri. Per dirla con Philippe Bourgois, in questo capitolo verranno indagate le vite e le strategie di coloro che operano all’interno di una “economia sotterranea” e che sono impegnati quotidianamente in “strategie alternative di produzione di reddito” (2005: 34-35).

Per introdurmi in questa analisi, ritengo opportuno iniziare dall’indagine circa alcune qualità che, secondo i miei interlocutori, rappresentano la chiave principale per il successo nell’economia della strada: quelle qualità inerenti e soggiacenti la nozione locale dell’essere “iwala”. Come si vedrà, questo è il termine che più di ogni altro viene utilizzato nel contesto di Mekelle per indicare coloro che navigano la strada e impiegano le proprie capacità di intelligenza, furbizia e creatività.