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Il Derg e i fronti di liberazione

Ad assumere il potere una volta destituito Haile Selassie fu il Provisional Military Administrative Council (PMAC), a cui capo venne nominato Aman Andom, un patriota etiope di origine eritrea, che assunse anche il ruolo di capo di Stato. Nei primi anni il Derg provvide a scardinare tutte le istituzioni imperiali, sciogliendo il Parlamento e abrogando la costituzione, per arrivare a dichiarare il 20 dicembre 1974 che l’Etiopia era uno Stato socialista. Vennero attuate politiche di nazionalizzazione delle imprese, delle banche, delle case ma soprattutto della terra, infliggendo il colpo finale all’antico sistema feudale e

17 Come ritratto nelle fotografie esposte all’interno del “Red Terror Museum” di Addis Abeba, visitato nel

49 strappando alla nobiltà e al clero ogni privilegio. La riforma agraria venne effettuata nel 1975 e si tradusse in una collettivizzazione dei possedimenti feudali, attribuendo a ogni contadino un appezzamento di terreno. Sulla nuova formazione statale gravarono presto i venti del terrore e della violenza: il Derg fu scosso da lotte intestine per la supremazia del potere che si erano manifestate sin dal principio con l’uccisione del Presidente Andom, avvenuta nel novembre del 1974, contribuendo a creare un clima di diffidenza estrema tra i membri stessi del comitato. Ad uscirne vincitore nel 1977, raccogliendo nelle proprie mani il potere completo, fu il maggiore Mengistu Haile Mariam, che aveva eliminato fisicamente tutti i suoi rivali (Zewde, 2001). Il clima di violenza non si limitò soltanto a un fenomeno interno ai quadri dirigenti del Comitato, estendendosi anche a tutti i suoi oppositori e toccando un tragico apice durante il periodo divenuto noto con il nome di “terrore rosso”, in cui vennero repressi nel sangue tutti i tentativi di ribellione al regime militare, colpendo duramente i gruppi giovanili oltre che i membri dell’Ethiopian People’s Revolutionary Party, un’organizzazione politica formata perlopiù da giovani studenti delle regioni centrali e settentrionali, nata nel 1974 nell’ambiente universitario di Addis Abeba. Per quanto riguarda la politica estera un punto di svolta fondamentale per le sorti del regime fu rappresentato dalla guerra del 1977 che vide opposte Etiopia e Somalia, scoppiata a seguito dell’invasione delle truppe somale inviate dal dittatore Siyad Barre nella regione dell’Ogaden. Il regime allentò dunque i rapporti con gli Stati Uniti, avvicinandosi spiccatamente verso il mondo sovietico e ricevendo aiuti militari dall’URSS e da Cuba; in breve tempo le truppe etiopi ebbero la meglio sull’invasore somalo tramite una violenta controffensiva che in breve tempo ristabilì gli antichi confini. Negli anni successivi Mengistu consolidò sempre di più il suo potere personale, mentre andò rafforzandosi anche quello del Workers Party of Ethiopian (WPE), il partito nato nel 1984 e depositario dell’ideologia rivoluzionaria (Calchi Novati, 1994). Nel 1987 si assiste alla proclamazione della Repubblica Popolare d’Etiopia, basata sulla Costituzione e sull’Assemblea Nazionale, sebbene in realtà tutti i poteri fossero concentrati nelle mani dell’esecutivo del WPE.

Nonostante il regime avesse perseguito gli ideali che avevano alimentato la rivoluzione anti imperiale, il malcontento crebbe soprattutto all’interno di quei ceti responsabili di aver animato i tumulti

50 che avevano condotto alla deposizione dell’Imperatore, preparando in un certo modo il terreno fertile per la rivoluzione e se ne sentivano adesso derubati; tra i contadini, inoltre, crebbe l’insofferenza dovuta allo stallo delle loro condizioni di vita, che non migliorarono nonostante la nazionalizzazione delle terre. Il Paese sembrava condannato a una perenne deficienza di cibo, sulla quale pesarono ripetuti periodi di siccità e la mancanza di investimenti. Tra il 1984 e il 1985 si verificarono gravi carestie, che condussero alla morte di un numero elevatissimo di persone: secondo alcuni dati le vittime potrebbero essere state un milione, e il governo fu in quell’occasione ampiamente criticato con l’accusa di aver occultato le tragiche condizioni in cui versava la Nazione per non offuscare i festeggiamenti per il decimo anno della rivoluzione avendo pertanto ritardato in modo fatale l’arrivo di aiuti (Calchi Novati, 1994: 154). In questo clima di aperta ostilità verso il regime si rafforzarono le posizioni di due fronti armati sorti nelle regioni settentrionali dell’Etiopia, che da lì a poco sarebbero stati i responsabili del nuovo ribaltamento della scena politica, cioè l’EPLF e il TPLF. L’Eritrean People’s Liberation Front (EPLF) aveva assunto la leadership del movimento indipendentista in Eritrea nel 1973, dopo essersi duramente confrontato con l’altro movimento che protendeva verso l’indipendenza della ex colonia, l’Eritrean Liberation Front; il Tigrayan People’s Liberation Front invece nacque all’interno dei movimenti studenteschi che si svilupparono negli ambienti universitari di Addis Abeba negli anni Sessanta e Settanta, per poi costituirsi ufficialmente nel 1974 a seguito di un’offensiva armata lanciata in Tigray con l’obiettivo di liberare il Paese dal regime militare. In breve tempo il TPLF si configurò come l’organizzazione guida dei movimenti di liberazione dal Derg nel nord della Nazione e vide infoltirsi sempre più il numero dei suoi combattenti, ottenendo diversi successi militari contro il regime. Sebbene le due organizzazioni fossero accumunate dal perseguimento di un obiettivo comune, i loro rapporti erano sempre stati molto tesi a causa di profonde divergenze ideologiche: il TPLF si basava sul principio dell’autodeterminazione dei popoli e aveva un forte elemento antisovietico pur abbracciando un orientamento di stampo marxista- leninista, mentre l’EPLF era un movimento che rappresentava l’eterogenea composizione della società eritrea, pensata come un unico stato. Negli anni in cui furono impegnate, tuttavia, le due formazioni collaborarono strenuamente nella lotta contro il regime, conducendo la loro offensiva in maniera parallela

51 e talvolta coordinata. Il Derg riuscì a contenere i loro attacchi per tutta la seconda metà degli anni Settanta e per buona parte degli anni Ottanta, ma la crisi economica e le tragiche condizioni in cui versava la Nazione accrebbero il malcontento all’interno stesso dell’ambiente militare, fino a sfociare in un tentativo di colpo di stato nel 1989 che però non sortì gli effetti sperati. Nello stesso periodo il TPLF era divenuto la forza principale della regione del Tigray ed aveva stretto alleanze con le altre organizzazioni di stampo regionale che lottavano per l’indipendenza, fino a formare l’Ethiopian People’s Revolutionary Democratic Front (EPRDF), con il quale vennero lanciate le offensive decisive contro il regime. Il Derg tentò nel 1990 la strada della diplomazia per mediare con le forze ribelli, ma questi tentativi fallirono miseramente. Nello stesso anno l’EPLF conquistò Massaua, mentre l’EPRDF intraprese la propria marcia verso la capitale etiope. Mengistu giocò dunque l’ultima carta, abbandonando il Socialismo ed annunciando l’accettazione delle forze di mercato internazionali; la sua mossa però non fu sufficiente a salvare il regime: nel 1991 l’EPLF prese il controllo della capitale eritrea di Asmara e poco dopo, il 21 maggio, le truppe dell’EPRDF entrarono trionfanti ad Addis Abeba, da dove Mengistu era fuggito trovando asilo in Zimbawe, dove ancora risiede, sancendo di fatto la fine del Derg. All’Eritrea venne formalmente riconosciuta l’indipendenza, mentre ad assumere il potere in Etiopia fu il Transitional Government of Ethiopia (TGE), a cui presidente venne nominato un ex studente di medicina che aveva animato i movimenti studenteschi di Addis Abeba negli anni Settanta ed era stato uno dei creatori e leader principali del TPLF, il tigrino Meles Zenawi.