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Il medioevo etiope

La ricostruzione del periodo successivo alla caduta di Axum è segnato da profonde incertezze a causa della mancanza di fonti certe. Nel 1100 assunsero il potere i membri della dinastia Zagwe, le cui origini sono ancora argomento di dibattito: secondo alcune cronache i suoi membri sarebbero divenuti noti col nome di “Re usurpatori”, mentre altri documenti in Ge’ez sembrano affermare la legittimità della loro dinastia, collegandoli in modo diretto alla stirpe salomonica (Munro‐Hay – Taor, 2002). Sulla loro dinastia restano comunque poche testimonianze, in quanto essi non coniarono monete e non lasciarono testi scritti, fatta eccezione per le megalitiche chiese di roccia che i suoi sovrani fecero edificare. Tra essi il più noto è il re Lalibela, che rese la piccola città di Roha la Gerusalemme d’Etiopia, ancora oggi sito protetto dall’Unesco come patrimonio dell’umanità. Alla morte del sovrano la città prese il suo nome, che come spiega Richard Pankuhrst (2013: 54), rimanderebbe ad un’antica leggenda: il nome Lalibela vorrebbe dire letteralmente “l’ape riconosce la sua regalità”, in quanto alla sua nascita il futuro sovrano sarebbe stato circondato da una nube di api. La sua dinastia venne soppiantata nel 1270 da Yakuno Amlak, che uccise l’ultimo sovrano Zagwe e rivendicò per sé la discendenza diretta dai sovrani di Axum e quindi da Menelik I, dando vita ad un processo noto col nome di “restaurazione salomonide” e mettendo dunque in atto una vera e propria contesa per riappropriarsi di quella discendenza che era stata fonte unica della legittimità regale. Una volta al potere, la nuova dinastia spostò nuovamente la capitale

38 più a nord, nella regione dell’Amhara e commissionò la redazione delle cronache imperiali del Kebre Negast proprio con lo scopo di affermare la discendenza diretta da Menelik e sancire quindi che si trattasse della dinastia legittima cui spettava il potere. Oltre a questo testo, nello stesso periodo venne redatto anche il Fetha Negast, la “Legge dei re”, il codice legale del paese. Al suo interno erano presenti alcune leggi che sancivano ulteriormente la legittimità del potere regale, al quale spettava il comando per volontà divina, oltre ad attribuire al sovrano il diritto di emettere verdetti e di possedere schiavi. Questa epoca di restaurazione del potere imperiale è stato definito col nome di “medioevo etiope” (Calchi Novati, 1994: 23), durante il quale, soprattutto durante il regno di Amda Sion (1314‐1344), colui che viene considerato il «vero fondatore dello Stato etiopico» (Calchi Novati, 1994: 26), prese corpo un sistema di tipo feudale legato al potere del negusa negasta, del Re dei Re, il quale concesse una serie di privilegi fondiari e favorì pertanto la formazione di una vasta aristocrazia costituita da notabili e militari che, nei secoli successivi, collaborarono con gli imperatori per amministrare le varie province. Anche il legame tra Stato e Chiesa venne molto rafforzato durante questo periodo attraverso la concessione di terre da parte dell’imperatore che otteneva, in cambio, l’appoggio del clero. Ben presto, tuttavia, il sistema feudale condusse alla disgregazione del potere politico e furono necessari, intorno alla metà del Quattrocento, gli sforzi del nuovo sovrano Zara Yakob volti a ristabilire il potere nelle sue mani. Sotto di lui il regno trovò una nuova stabilità e consolidò i suoi possedimenti, mentre la Chiesa ortodossa venne unificata a seguito della violenta repressione delle eresie, dell’assimilazione delle popolazioni pagane e di quelle ebraiche grazie anche alla stesura di una forma scritta della liturgia.

Come era accaduto per l’antico regno di Axum, anche in questo caso la presenza musulmana che minacciava l’Impero provocò nuove tensioni e l’acuirsi di nuovi scontri che minarono non poco la stabilità della monarchia, non solo per motivi religiosi ma soprattutto per questioni politiche: il rifiuto di alcuni sultanati di versare i contribuiti al negus e la volontà di porre sotto la propria egemonia il golfo di Aden, punto strategico per il controllo dei traffici commerciali, causarono l’aggravarsi delle tensioni tra il regno etiope e gli stati musulmani che si erano stabiliti nel Corno d’Africa (Zewde, 2001: 9). Il fatto che ancora una volta siano state le tensioni con le forze musulmane a causare i rischi maggiori per l’impero

39 etiope non deve meravigliare: a partire dal VI secolo l’Islam rappresentò l’antagonista storico degli Stati dell’altopiano, ma al tempo stesso la sua presenza, i contatti e gli scambi che furono comunque frequenti influenzarono profondamente le istituzioni culturali della regione (Calchi Novati, 1994: 24). Con grandi sforzi, Zara Yakob riuscì nell’intento di placare le tensioni ma ben presto il sovrano dovette contrastare quelle che erano le mire espansionistiche di Ahmed Ibn Ibrahim, detto il “Gran”, cioè il mancino12. Agli

inizi del Cinquecento il Gran perseguì il duplice obiettivo di spezzare il giogo dell’oppressione etiope e quello di convertire gli infedeli, espandendo i confini del suo dominio. Nel 1540 il suo esercito, partito dal sultanato dell’Adal, si era impadronito di parte dello Shoa, dell’Amhara e del Lasta, col solo Tigray a fungere da roccaforte del potere del negus. Il nuovo sovrano etiope giocò allora la carta vincente che avrebbe condotto definitivamente le sorti del conflitto a proprio vantaggio: in virtù degli accordi con le potenze cristiane europee, il successore di Zara Yakob, suo nipote Galawdewos, invocò l’intervento delle forze portoghesi, paese che vantava una folta presenza di mercanti ed esploratori sul territorio etiope. Sebbene l’apporto militare del Portogallo fu indispensabile, a determinare la vittoria del negus contribuirono una grave carestia che colpì il sultanato dell’Harar, la nuova base militare delle forze musulmane, e infine la morte del Gran, avvenuta probabilmente in modo accidentale intorno alla metà del XVI secolo. Il negus riuscì dunque a recuperare parte del territorio perduto, fatta eccezione per ampi territori delle zone centrali che vennero occupati dalle popolazioni Oromo, anche dette Galla, le quali provenivano dalle zone meridionali e che nel corso del secolo vennero assimilate ai popoli del nord convertendosi al cristianesimo oppure all’Islam, che costituiva ormai una presenza assidua quanto stabile all’interno dei confini dell’impero.

All’alba del nuovo secolo la capitale fu nuovamente spostata presso la città di Gondar, fondata nel 1636, e l’impero visse una nuova fase di stabilizzazione caratterizzata dall’edificazione di castelli, chiese e dallo sviluppo di un’importante cultura urbana. Il potere centrale andò tuttavia nuovamente indebolendosi a causa delle spinte autonomiste di notabili locali e delle continue dispute per questioni dinastiche e teologiche, fino a sparire quasi completamente durante quella che fu nota come zamana

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masafent, “età dei giudici o dei principi”13, nella metà del Settecento. Durante questo periodo, che è stato

definito come il preludio alla storia moderna dell’Etiopia (Zewde, 2001: 10), le province divennero sempre più indipendenti e gli imperatori vennero privati del loro potere, appannaggio ora dei signori feudali che si erano notevolmente rafforzati attraverso lo sfruttamento dei contadini, i quali erano costretti a versare ingenti tributi e a svolgere impegnative corvée. Questa situazione di frammentazione del potere e di lotte intestine venne sfruttata a proprio vantaggio dalle potenze europee: i francesi si allearono con i ras del Tigray, gli inglesi con i signori locali dell’Amhara e la Chiesa romana tentò di mettere in atto una nuova opera di evangelizzazione.