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Immaginare futuri possibili attraverso il khat

Una delle attività che coinvolgeva di più gli amici che frequentavano la bunna bet e si incontravano per masticare khat insieme riguardava parlare e discutere del proprio futuro. I ragazzi esprimevano i loro desideri, le proprie ambizioni ma anche le loro preoccupazioni circa la difficoltà di vedere realizzati i propri obiettivi. Molto spesso, poi, emergevano sentimenti di impazienza e frustrazione, chiedendosi quando sarebbe arrivato per loro il momento di comporre un proprio nucleo famigliare, trovare un lavoro e avere figli, unitamente al sentimento di essere già “in ritardo” rispetto a quelle che erano le loro aspettative. Tuttavia, anche quando si toccavano temi spinosi, definiti dagli stessi protagonisti come pesanti forme di stress, i loro discorsi erano quasi sempre marcati da una pungente ironia. Uno dei temi emersi con maggiore frequenza riguardava la loro consapevolezza di gravare sulle spese della propria famiglia d’origine ed essere ancora legati a una condizione di dipendenza, elemento che contrastava fortemente con quella concezione secondo cui una persona adulta sarebbe indipendente sul piano economico e soprattutto in grado di fornire assistenza ai propri cari, soprattutto ai propri genitori nel periodo della loro vecchiaia (cfr. cap. II, par. 3). Durante uno dei pomeriggi trascorsi alla bunna bet mi capitò di assistere a una discussione sull’argomento, introdotta come accadeva spesso da Asmelash. Il giovane descrisse il fatto di sentirsi un peso (shekem, in tigrino), e venne poi seguito a ruota dagli altri compagni che commentarono in modo arguto e irriverente:

Asmelash: Noi ci sentiamo un peso per i nostri genitori. Vorremmo aiutarli [economicamente] ma non possiamo farlo. Loro devono ancora coprire tutte le mie spese, i vestiti, le scarpe, il mangiare…è così dura! Anche il Governo dice che siamo un peso! Nei telegiornali parlano di noi come un peso per la nazione!

Mulie: Conosco uno che vive nel mio quartiere. Ha 40 anni, non è sposato, e vive ancora con i suoi genitori! [Gli altri ridono, mostrando stupore e disappunto] I suoi genitori lo hanno

147 mantenuto e hanno pagato per lui quando era bambino, quando era giovane e adesso pagheranno anche per quando sarà vecchio e morirà!

Alem: Io invece ne conosco una ancora più divertente. Uno che conosco viveva ancora con i suoi genitori, tanto che suo padre l’aveva soprannominato Shewit (in tigrino, mais)! Lui credeva che fosse un soprannome che il padre gli aveva dato perché gli voleva bene, ma invece è perché viveva ancora con loro! [Tutti i presenti ridono]

Gianmarco: Che cosa vuol dire?

Alem: Hai mai visto una pianta di mais? Quando cresce, il mais resta attaccato alla pianta fino a che non crescono delle foglie bianche, lunghe, che sembrano una barba bianca! Lui allora è come il mais, perché anche se si è fatto vecchio resta attaccato ai suoi genitori!

Queste storie raccontavano situazioni che i ragazzi ritenevano lontane dalla loro condizione attuale, essendo ancora relativamente giovani rispetto ai protagonisti delle vicende, descritti come individui adulti e maturi. Al tempo stesso, i ragazzi sembravano consapevoli del fatto che i protagonisti delle storie fossero esempi negativi da cui prendere le distanze, modelli da evitare. Gli obiettivi di realizzazione inseguiti dai ragazzi ricalcavano per larga quelli descritti in precedenza (cfr. cap. II), con la volontà di costituire una propria famiglia, assistere i propri genitori, possedere una casa propria e un’automobile. Durante un’ulteriore occasione, il gruppo affrontò in questo modo la questione:

Bruku: Io sono un uomo! Voglio avere i miei figli, voglio avere una moglie! Anche la mia famiglia è preoccupata. Dicono sempre: «Quando si sposerà, quando diventerà un uomo?». A quest’età uno dovrebbe essere sposato, e invece non ho ancora una fidanzata!

Asmelash: Stai sbagliando! Adesso i tempi sono cambiati, ho notato che adesso molte persone si sposano quando hanno 30, 33, anche 35 anni!

Bruku: Può essere, certo! Fra 5 anni, per me! Sì! Però adesso sto sprecando il mio tempo! L’età media in Etiopia quanto è [alta]? 55, 60 anni! Quindi sarà tardi se mi sposerò a 30 anni, significa che tuo figlio ti vedrà per poco, solo 18 o 20 anni.

Asmelash: Il grosso problemi qui in Etiopia sono i soldi. [Tutti i presenti sorridono e annuiscono] Se vuoi sposarti devi avere tanti soldi.

Gianmarco: Soldi per fare cosa?

Asmelash: Celebrare un matrimonio costa già tanti soldi per sé. Ma se non hai i soldi, se sei come me, nessuno [nessuna donna] si avvicina a te. Al giorno d’oggi è cambiato tutto, sono le donne che scelgono gli uomini, e li scelgono solo se hanno i soldi, se hanno un buon lavoro, altrimenti non mi guarderebbero neanche! Allora se non sei ancora sposato [rivolgendosi a Bruku] è perché non hai soldi.

Le parole dei giovani confermano ancora una volta la necessità e la volontà di contrarre matrimonio e fare figli per marcare il proprio passaggio verso l’età adulta, pur marcando la necessità di

148 dover prima realizzarsi sul piano economico e aver raggiunto una situazione di benessere. Se prima di masticare le foglie capitava spesso di assistere discussioni come quella appena presentata, le cose sembravano cambiare quando le foglie iniziavano a sortire i propri effetti narcotici e i ragazzi raggiungevano il mirqana, lo stato di eccitazione ed euforia durante il quale si sentivano più felici e ottimisti. Un pomeriggio, Asmelash si espresse in questo modo mentre era sotto l’effetto del khat:

Sono grato a Dio! Sono pieno di gratitudine! Io non mi arrenderò, amico, non mi arrenderò. Siamo venuti qui [venuti al mondo] perché ognuno di noi ha qualcosa da fare. Voglio fare come Bob Marley…just love…voglio predicare l’amore e la pace. Voglio che tutti sappiano che gli uomini sono tutti uguali, che non esistono negros, non esistono famiglie regali e non esistono inferiori. Voglio insegnare che non ci sono barriere e che tutti possono fare quello in cui credono, basta avere fede in Dio e confidenza in se stessi!

Si trattava di una condizione decisamente nuova e inusuale per lui, che mi aveva abituato ai suoi discorsi acidi, pungenti, pieni di rabbia e astio verso il Governo, verso la politica, verso le istituzioni. Nelle occasioni in cui non era sotto gli effetti delle foglie ripeteva sempre che in Etiopia non c’era libertà, non c’era lavoro, non c’erano possibilità, mentre in quel momento, invece, affermava che tutti gli uomini erano uguali e che chiunque poteva realizzare i propri sogni. Durante un ulteriore incontro, anche Bruku, che spesso parlava delle proprie ansie e frustrazioni, cambiò decisamente tono e si lasciò a esplorazioni ottimistiche circa il proprio futuro:

Voglio che i miei figli abbiano tutte le possibilità. Voglio che non passino attraverso tutte le difficoltà che ho affrontato io. Devono essere diversi, devono crescere feta elu [Gli chiedo cosa significhi], feta elu…con tutti i desideri avverati, con tutte le risposte a tutte le loro domande. Se vogliono giocare, devono giocare, devono avere i giocattoli…devono essere felici!

Bruku dava per scontato il fatto che avrebbe avuto dei figli, ai quali avrebbe assicurato un’infanzia e una vita migliore di quella avuta da lui. Questo tipo di ragionamento rientra in un tipo discorsi sulla genitorialità molto diffusi a Mekelle. Anche Desireé Adami, nella sua ricerca incentrata sulla costruzione di soggettività femminili nel capoluogo tigrino, registra che alla luce dei recenti cambiamenti socio- economici, le nuove concezioni di maternità e genitorialità «onorevoli» e di successo prevedono il saper garantire «un buon futuro ai figli» (Adami, 2017: 267). Lo stesso Alem, pochi giorni dopo aver sottolineato

149 le loro condizioni di assenza di cambiamenti con la sua battuta pungente, si ricorderà, sul non avere altra possibilità che commettere il suicidio, si espresse in questo modo:

Quando mastichi e raggiungi il mirqana i tuoi sogni diventano realtà, per questo tutti masticano! Riesci a fare quello che pensi, se vuoi fare qualcosa lo fai, se vuoi dire qualcosa la dici, se vuoi camminare cammini. Ti fa sentire bene, pensieri positivi vengono alla tua mente…trovi soddisfazione nei tuoi pensieri e vedi tutto in modo diverso.

Riprendendo nuovamente il confronto con il lavoro di Daniel Mains, lo studioso americano registra le medesime considerazioni fra i suoi informatori, analizzando il consumo di khat come non solo un modo per riempire un tempo altrimenti privo di attività, ma soprattutto come metodo per immaginare futuri positivi (Mains, 2012: 55). Scrive l’etnologo:

[During mirqana] Thoughts and conversation turns to hope for the future, youth begin to dream (hilm), and the particular social interaction associated with khat emerge. Chewers describe the “opening of the mind” (amro yikefetal) and a sense of unlimited possibility (ivi: 56, corsivo dell’autore).

Dagli esempi riportati in precedenza si può notare quanto, anche per i giovani di Mekelle, l’uso del khat svolga le medesime funzioni. Da un lato, quella di riempire il loro tempo privo di struttura e di attività, dall’altro quello di alleviare le loro ansie e la loro depressione attraverso il ricorso all’immaginazione e alla fantasia. Durante i loro pomeriggi trascorsi a masticare le foglie, i miei interlocutori indugiavano in lunghe conversazioni su fantasie sessuali, lavorative e migratorie73, che

venivano percepite come possibilità realistiche quando raggiungevano il mirqana.

Per Mains, inoltre, non è il solo consumo del khat ad assolvere a questi compiti. Secondo lo studioso anche la visione di film internazionali costituisce un espediente per generare continuamente nuove possibilità immaginative per il proprio futuro (2012: 43). Lo studioso evidenzia anche come coloro che fanno uso di khat si riferiscano alla loro attività col termine “chewata”, che l’autore traduce con «“play”,

but is used to refer to conversation more generally» (ivi: 60) e quindi si collega alla ricerca di Cindi Katz su infanzia

e sviluppo in Sudan (2004), concludendo, insieme con l’autrice, che «play is a process through which alternate

realities are explored and new possibilities are constructed» (Mains, 2012: 60). Allo stesso modo Michael Ralph

73 La migrazione internazionale, intesa come possibilità concreta per il futuro, costituirà l’oggetto di indagine

150 descrive l’uso comune tra i giovani inoccupati di Dakar di passare parte delle proprie giornate bevendo tè (2008). Nei contesti studiati da entrambi gli autori, politiche economiche di aggiustamento strutturale hanno condotto ad alti livelli di disoccupazione senza precedenti. Secondo i due studiosi, sia il consumo di tè in Dakar che quello di film e khat nel sud dell’Etiopia sono attività attraverso cui i giovani immaginano in modo creativo soluzioni per il proprio futuro ed al tempo stesso arginano i problemi derivanti dall’eccessiva presenza di tempo non strutturato.

Nel contesto di Mekelle l’altra importante attività nelle quali è possibile riscontrare questa duplice funzione è rappresentata dal successo del calcio internazionale. Quella per il calcio europeo e soprattutto per quello inglese è una passione condivisa da tutti i miei interlocutori, che si sono dichiarati tifosi delle compagini più disparate, e in maniera più generale da larga parte della popolazione maschile della città a prescindere da età e condizioni sociali. Le partite inglesi del weekend e quelle di Champions League che si disputano infrasettimanalmente rappresentavano dei veri e propri eventi: la folla di uomini che prima dei match popolava le strade cittadine si riversava all’interno dei bar. In quelli più grandi e frequentati si preparavano panche, sedie e sgabelli che venivano occupati a volte addirittura ore prima delle partite di cartello, in modo tale da accaparrarsi i posti migliori da dove guardare i grandi televisori. Il locale dove ho guardato più partite assieme ai miei amici e informatori è stato il Winter Bar del mio amico Tseghaun, una popolare quanto fortunata birreria posta in una delle strade più frequentate del centro. Come in tanti altri locali si poteva assistere alle partite attraverso la televisione satellitare, che dava la possibilità di guardare diversi match nell’arco della giornata, pertanto era cosa solita per gli appassionati rimanere nel locale interi pomeriggi fino a sera tarda. Le squadre più seguite e con maggior numero di tifosi erano l’Arsenal, il Chelsea e il Manchester United; oltre a queste, le partite che attiravano più clienti erano quelle delle forti compagini spagnole del Barcellona e del Real Madrid, ma seppur con minore intensità gli spettatori seguivano con interesse qualsiasi partita dei campionati europei. In un tipico pomeriggio del sabato, il giorno con più eventi sportivi giocati in Inghilterra, oltre al numero di presenti che stazionava nel bar per tutto il giorno arrivavano in prossimità dell’inizio dei match più importanti svariate decine di spettatori che riempivano rapidamente tutti i posti messi a disposizione. In genere tutti consumavano da

151 bere, con le birre alla spina a farla da padrone che spesso venivano accompagnate da fagioli secchi o altre piccole merende, tutte preparate nel bar, mentre coloro che assistevano soltanto alle partite erano tenuti a versare una quota di pochi Birr per potersi accomodare. Mi bastò poco tempo per rendermi conto che il Winter Bar rappresentava una sorta di piccola comunità: nel corso delle settimane potei osservare che il locale era frequentato da un folto numero di habitué che costituiva il vero zoccolo duro della sua clientela, di cui la maggior parte era composta da amici intimi del proprietario. Assistere alla partita sembrava essere anche una maniera per rinsaldare le proprie reti sociali: non c’era evento durante il quale non mi capitasse di osservare i camerieri e le cameriere che, nel via vai di ordinazioni e di consegne, recapitassero ad alcuni clienti boccali di birra che gli erano stati offerti come segno d’amicizia, ai quali provvedevano anche a indicare chi fossero i responsabili del generoso gesto; i beneficiari provvedevano allora con quello che mi sembrò essere un determinato canovaccio di gesti: visto che spesso a separare gli amici concorreva la folla degli spettatori, questi ringraziavano sollevando un braccio mentre portavano l’altra mano sul proprio petto, stringendo ed agitando entrambe le mani come per suggellare una stretta tra le parti e quindi alzando il boccale ricevuto per brindare assieme nonostante la distanza. Dopo un po’ di tempo, chi aveva ricevuto l’omaggio era solito ricambiare, con la scena che si ripeteva a parti invertite.

Quando non erano giocate in contemporanea con le partite inglesi o con eventi di particolare rilievo e non ci fosse quindi molta folla all’interno del locale, Tseghaun mi lasciava assistere alle partite della squadra di cui sono tifoso, il Napoli. Lui e molti altri dei miei interlocutori sembravano preparatissimi anche sul calcio italiano: quando mi chiedevano per chi tifassi, ricevuta la mia risposta dimostravano di conoscere le squadre nostrane e anche tutti i loro più importanti movimenti di mercato, a conferma della loro accesa passione per il mondo del calcio europeo, di cui seguivano tutte le notizie più importanti oltre che le partite. La loro passione per il calcio era presente anche in una precisa forma iconografica: alcuni degli stessi bar dove si seguivano le partite erano decorati con le immagini di alcuni popolari giocatori, altri arrivavano addirittura ad intitolarsi coi nomi di alcune delle più celebri squadre inglesi o ad arredare l’interno dei locali con immagini di calciatori e stemmi, presenti in egual misura in

152 molti degli album fotografici personali che alcuni dei miei interlocutori mi mostrarono, oltre che come sfondo dei loro cellulari ed in forma di fotografie condivise sulle proprie pagine di un noto social network.

Nella sua analisi dei desideri di Altrove dei giovani in Gambia, Paolo Gaibazzi (2010) esamina l’attitudine di questi ultimi di utilizzare nomi di città straniere, americane ed europee, oltre che frasi e luoghi celebri di alcuni generi musicali come il rap americano o il reggae e, non per ultimi, nomi di squadre di calcio europee per designare i propri luoghi di ritrovo ed i propri gruppi collegandosi alla nozione di “extraversione culturale” di Thomas Foquet (2008), ovvero «la propensione radicata nel (post)colonialismo africano, soprattutto a livello politico-statale, di assegnare all’Altrove uno statuto speciale, richiamandone i modelli culturali e appropriandosi delle risorse (im)materiali per legittimare o trasformare la propria posizione nella società “locale”» (2010: 123). Nel caso dei giovani mekellesi appassionati di calcio europeo sembrerebbe possibile affermare, sulla scorta delle analisi compiute da Didier Gondola sui giovani Sapeurs di La Sape (1999) di età contemporanea o sui Bills di Kinshasa (2009) di epoca coloniale, che la loro passione metta in atto un forte ricorso all’immaginazione per collegarsi in modo diretto a quel mondo Altro simbolo di benessere e ricreare quindi un ordine fantastico altrimenti irraggiungibile, oltre a costituire un espediente per autenticare e convalidare la ricerca di un’identità che le loro condizioni di incertezza per il proprio futuro e mancanza di occupazione continuano a minare. Il sentirsi parte di una tifoseria internazionale, dunque, rende i giovani protagonisti di questa indagine appartenenti a quelle che vengono definite “comunità immaginate” (Anderson, 1991). Come spiegano Fabietti, Malighetti e Matera, utilizzando la nozione coniata da Benedict Anderson:

L’immaginazione di coloro che vivono in modi locali tende ad articolarsi in forme via via più complesse all’interno di contesti globali, anche quando il movimento dei soggetti nello spazio è limitato o addirittura assente. Tali contesti globali sono i processi indotti dalla presenza di entità quali il mercato, lo stato e i mezzi di informazione. La cultura di molte località si trova così proiettata in un contesto di globalità proprio perché gli elementi con cui entrano in contatto i mondi locali sono dipendenti da flussi culturali globali. […] È pertanto anche nei mondi “nuovi” creati dall’immaginazione che gli individui riformulano le proprie identità e le proprie culture. Se l’immaginazione consiste nel rappresentarsi realtà che sono esperite non solo personalmente, ma anche da altri, nella pratica quotidiana essa permette di pensarsi in congiunzione ad altri soggetti come soggetti aventi lo stesso tipo di immaginario. Politiche, espressioni collettive, in poche parole identità, nascono da questo contesto come entità nuove, come comunità “immaginate”. (Fabietti, Malighetti, Matera, 2002: 107, corsivo degli autori).

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4. “

Dalle tenebre alla luce

Oltre ad Asmelash, Bruku, Alem e alcuni altri amici che si incontravano ogni giorno alla bunna bet per “giocare”, indicando in questo modo il loro consumo di khat, un folto numero di persone si univa saltuariamente al gruppo per passare qualche ora in compagnia dei propri amici. Fra questi c’era Mulie, un giovane di 24 anni. A differenza degli altri, Mulie non partecipava alla masticazione delle foglie né tantomeno condivideva alcolici e sigarette con gli amici, limitandosi a sorseggiare caffè o bere qualcosa di fresco. Il motivo della sua astinenza da tutti questi tipi di sostanze risiedeva nel fatto che ormai da tre mesi aveva completato un percorso riabilitativo, dopo essere stato a lungo dipendente da khat, marijuana, hashish, sigarette e alcool. Mulie non parlava una parola di inglese, ma si dimostrò fin da subito spinto da una grande volontà di comunicare con me, raccontandomi del suo percorso e soprattutto di quella che considerava la sua “missione” attuale, quella di convincere i suoi amici a smettere di condurre questo tipo di vita e rivolgersi alle persone che lo avevano aiutato. Grazie all’aiuto del mio interprete Afeworki e di Asmelash, quando Afe non era presente, Mulie mi raccontò in dettaglio quello che descriveva, in aerea quasi mistica, come “un passaggio dalle tenebre alla luce”, condividendo la sua esperienza con gli amici che incontrava alla bunna bet:

Ero nell’oscurità. Ero cieco, ma adesso vedo. E ora che sono nella luce posso riconoscere l’oscurità, posso dare forma alla mia vita. È per questo che voglio convincere i miei amici a smettere. Loro sono ancora nell’oscurità, non riescono a vedere quello che stanno facendo e il pericolo che stanno vivendo. Non sanno cosa fare per uscire dalla situazione in cui si trovano adesso. La mia missione è quella di condividere la mia conoscenza e portare anche loro nella luce.

Come di consueto, il resto del gruppo commentava in maniera sarcastica, talvolta pungente il tentativo di Mulie:

Alem: Siamo preoccupati per te, Mulie. Tu sei come il sale e noi siamo come l’acqua. E sai