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Il lavoro svolto ha consentito di ripercorrere il processo di riforma che ha interessato gli enti locali italiani nel segno dell’aziendalizzazione. Si può affermare che esso ha consentito il venire pienamente alla luce di una dimensione, quella aziendale, connaturata agli enti medesimi. Una definizione consapevole del concetto di economicità è da ricondursi alla capacità dell’azienda di soddisfare nel tempo la propria missione ossia, per quella pubblica, la soddisfazione dei bisogni collettivi. Il rifiuto di uno o più dei singoli componenti di questo concetto, quali efficienza, efficacia, qualità, equità va respinto; ognuno di essi deve trovare posto in un quadro unitario dell’azione pubblica. Aziendalizzazione non significa quindi identificazione con la logica dell’impresa privata; in questo errore è forse possibile trovare il limite principale delle prime costruzioni teoriche che hanno introdotto il concetto di performance nelle amministrazioni pubbliche. Le conseguenze sulla vita delle persone, specie nei paesi che per primi le hanno applicate, prima ancora che le acquisizioni della letteratura sul carattere perverso di una tale impostazione, hanno evidenziato la gravità di tale errore. L’importazione di strumenti di gestione della performance sviluppati in ambito privato, o la creazione di nuovi modelli in ambito pubblico ad essi ispirati, è auspicabile. È necessario però un percorso di adattamento che, prima ancora che lessicale, è valoriale, pena il ripetersi degli errori già fatti. Si tratta di considerazioni dalla valenza estremamente pratica. Individuare un indicatore al posto di un altro, prevedere un risultato o una tendenza, è una scelta che indica i valori, o meglio il compromesso raggiunto tra di essi, ai quali si fa riferimento. Tra le condizioni necessarie al cambiamento vi è sicuramente la managerializzazione, anch’essa risposta ad un errore: il considerare sufficienti competenza e neutralità, a scapito della capacità di farsi carico dei risultati e della valorizzazione di tale capacità. Anche in questo caso, il fine è superare una contrapposizione, arrivando invece ad una composizione di elementi che devono necessariamente convivere. Uno specifico equilibrio da trovare è quello fra tempo e risorse dedicate all’assolvimento della missione e tempo e risorse dedicate al monitoraggio, al controllo, alla rendicontazione. Il quadro normativo creatosi per effetto dell’incrociarsi tra riforme sulla performance e armonizzazione contabile sembra propizio. L’introduzione di una

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contabilità-economico patrimoniale uguale per la generalità degli enti consente di superare uno dei maggiori alibi che ha impedito il diffondersi di pratiche di controllo di gestione. Sulla base dei metodi sviluppati in quel contesto, è possibile un governo consapevole della performance dell’ente che investa anche la verifica del raggiungimento degli obiettivi dell’ente stesso, prima ancora che dei singoli individui. L’esperienza commentata, sia pure con le difficoltà derivanti da un processo di transizione in corso, e nei limiti di un’analisi basata solo sui documenti, sta a dimostrarlo. La maggiore sfida, in quell’esperienza come altrove, resta la rappresentazione dei motivi che guidano le scelte: quali valori sottendono le scelte strategiche? Su quali tavoli vengono decise le strategie? Come tradurre i valori in obiettivi ed indicatori? Consegnare queste dinamiche solo al ciclo politico-elettorale sembra inadeguato alla complessità della società attuale. Neppure sembra possibile affidarsi a processi deliberativi compulsivi non fondati sulla conoscenza delle materie sulle quali ci si esprime. Lo sviluppo della capacità di rappresentare adeguatamente il contesto, e di offrire competenze, potrebbe costituire uno dei futuri terreni di maggior impegno per i manager pubblici, che potrebbero essere coinvolti direttamente nei canali di interazione e di governance che gli organi politici dovrebbero farsi carico di aprire con la loro comunità.

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