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Il conflitto intrapsichico di Medea e Fedra: Euripide contro Socrate

Vorrei adesso prendere in considerazione i già citati versi del monologo dove emergono le tensioni interne a Medea:

So bene quanto male (kaka) sto per fare, ma la passione (thymos) domina sopra il mio volere (bouleumata): è la causa delle sciagure più grandi per i mortali.

(Euripide, Medea 1078-1080)

La più nota tra le sue interpretazioni traduce il termine thymos come “passione”, cioè la rabbia per il tradimento del marito, e bouleumata come “le ragionevoli intenzioni” dettate dall'affetto materno. Secondo questa lettura, l'animo di Medea sarebbe il teatro di

una lotta tra ragione e passione, che richiama quella platonica tra elemento razionale e lo thymoeides. Tuttavia, questa non è l'unica interpretazione del dramma intrapsichico di Medea e nemmeno la più accreditata. Altri hanno letto la sua dialettica interna come un conflitto non tra ragione e passione, ma tra due passioni: il desiderio di vendetta, che si richiama alla morale eroica incentrata sul sentimento di vergogna, e l'amore di Medea in quanto madre. Sembra quindi realizzarsi un conflitto tra due differenti sé presenti nella donna: quello maschile cui interessa difendere il proprio onore, e quello femminile che chiede di risparmiare i figli.

Secondo una terza interpretazione, questi versi non andrebbero intesi come un conflitto tra due passioni, né tra ragione e passione, ma in termini funzionali: propone quindi di tradurre i bouleumata come “piano di vendetta”, di intendere lo thymos come l'agente del piano di vendetta e il termine kreisson non come “più forte di”, ma “padrone di”. Sarebbe errato infatti, dissociare i bouleumata dei vv. 1078-80 da quelli del v. 1044 e del v. 1048, dove indicano l'intenzione di Medea di uccidere i figli per vendicarsi di Giasone: i “propositi” del v. 1079 non sarebbero in contrasto con il desiderio di vendetta contro il marito né con lo thymos. Nell'animo di Medea non si svolgerebbe quindi una contrapposizione tra ragione e passione, ma una strumentalizzazione del pensiero, dei proponimenti, ai contenuti emotivi: siamo cioè di fronte a «una collaborazione tra un principio di vendetta di matrice passionale e un piano per attuarli di matrice razionale»37.

In accordo con la lettura della dinamica psichica di Medea come un conflitto tra ragione e passione, si coglierebbe nella donna l'emergere di una morale sentita come un fatto interiore ossia di un senso morale moderno; si leggerebbe quindi nei vv. 1078-80 l'opporsi della coscienza a un impulso sotto forma di freno, di rimorso. In questo caso,

si dovrebbe di conseguenza presupporre in Medea la presenza di un concetto di sé e di individuo assente nel mondo omerico, per cui il soggetto si percepisce come origine dei propri stati emozionali e delle proprie azioni, non più come un essere in balia di forze esterne a sé. Perciò sarebbe necessario intendere il concetto di thymos non più secondo l'idea omerica di pura reattività, di slancio (da thyo, “slanciarsi”), ossia un impulso o desiderio senza oggetto né direzione: un'idea legata appunto a quella di un'anima senza dinamiche proprie e soggetta solo a forze esterne. Piuttosto, come passione nei termini di funzione psicologica, avvicinandosi alla concezione platonica dello thymoeides. Gli eroi omerici infatti, non conoscono alternative possibili al loro comportamento perché agiscono sotto la spinta di una forza impulsiva che non permette alcun tipo di riflessione antecedente all'azione. Ciò che manca in essi è la volontà come possibilità di prendere decisioni, nella consapevolezza delle alternative di comportamento possibili: agiscono in una sorta di possessione, e solo dopo l'azione soffrono per l'accaduto, rendendosi conto di ciò che hanno fatto. Non hanno la percezione di essere il fulcro originario dei propri pensieri, sentimenti e azioni perché l'anima e il corpo non sono ancora pensati in una relazione come organi interdipendenti e accentrati in un io, che si ritiene pienamente responsabile del suo comportamento.

Leggere la dinamica psichica di Medea come una collaborazione della razionalità calcolatrice con la passione vendicatrice, non escluderebbe la presenza di un conflitto in atto, che coinvolgerebbe però due passioni: affetto materno da un lato e desiderio di vendetta, di difesa del proprio onore, dall'altro. Sarebbe invece il termine manthano, “so bene”, ad esprimere una razionalità, intesa non come conoscenza del bene e male, ma come depositaria della dolorosa consapevolezza delle conseguenze autodistruttive del proprio agire prossimo. Sia la prima che la terza interpretazione (che leggono nella psyche di Medea rispettivamente un conflitto tra ragione e passione, e una

collaborazione tra rabbia vendicatrice e organizzazione del pensiero), condividono l'idea che con il personaggio dell'eroina si rappresenti per la prima volta un essere umano cosciente dell'opporsi in se stesso di due forze (ragione e passione da un lato, rabbia vendicatrice e amore per i figli dall'altro), della necessaria vittoria di una di queste, quindi consapevole della propria sofferenza prossima e di esserne lui stesso responsabile. Tuttavia, c'è chi sostiene la terza interpretazione negando la possibilità di osservare in Medea un senso di colpa, attraverso la traduzione della parola kaka non come male morale ma come quelle “sofferenze”, quei “dolori” che verranno. La donna si sentirebbe consapevole non di stare per commettere qualcosa di malvagio, ma di stare per agire in modo tale da procurarsi delle grandi sofferenze, senza avvertire un senso di colpa nei termini moderni di disagio morale, ma in quelli di un'analisi razionale delle responsabilità. Si sentirebbe sofferente e sventurata, non colpevole, per ciò che sta per compiere38.

G. Cupido critica questa lettura dei kaka, in quanto non sarebbe corretto eliminare la possibilità di cogliere in Medea un sentimento di disagio morale. Intendere il rapporto tra ragione e passione non in termini di conflitto ma di collaborazione, non determinerebbe l'assenza di un senso di colpa nella donna, perché Medea sa che l'affermarsi del principio di vendetta avviene in una forma conflittuale al principio di amore materno. La donna è consapevole della necessità della vendetta, ossia della vittoria della forza vendicatrice sostenuta dal principio dell'onore, ma sa anche che c'è un altro principio che vi si oppone, per quanto non potrà avere la meglio: non agisce quindi in modo impulsivo, ma contempla entrambe le possibilità d'azione prima dell’azione stessa. Attraverso tale consapevolezza, il conflitto di valori (onore e amore) è portato da Euripide all'interno del personaggio, che percepisce come proprie, interne a

sé, le emozioni da cui è scosso e le conseguenti azioni, ancora sentite dagli eroi omerici come forze che lo sovrastano. Perciò, G. Cupido tende considerare che sebbene non si possa parlare già d’individuo e di sé con Medea, nemmeno la si possa pensare ancora nei termini della “povertà” psicologica che caratterizza gli eroi omerici. Se infatti è Socrate il primo pensatore antitragico, in quanto è con lui che si afferma per la prima volta l'idea di colpa per cui il soggetto si sente pienamente responsabile delle proprie azioni, eliminando il condizionamento di forze esterne, tuttavia con Medea non ci troviamo di fronte a una personalità incompleta, ancora del tutto comandata da potenze esterne, che siano gli dèi o le stesse emozioni sentite come forze che s'impadroniscono dei soggetti. E questo grazie alla consapevolezza, che fa sentire le forze di cui la donna è in balia a lei interne, interiorizzando il conflitto di valori.

Collocando il personaggio di Medea al confine tra vergogna e colpa, secondo la studiosa sarebbe quindi grazie al suo sapere, espresso tramite il verbo manthano, che la lotta esterna tra principi diviene dramma interiore, segnando l'inizio dell'idea di individuo e di sé nel mondo greco (per quanto tale idea non si realizzi ancora pienamente in Medea). Questa sophia non consiste nella conoscenza del bene e male, ma, come precedentemente detto, in una razionalità intesa come capacità di generalizzare, di inquadrare in una prospettiva universale gli avvenimenti della propria esistenza: una capacità di autoriflessione tramite cui riesce a superare i confini della sua situazione personale, leggendo lo thymos da cui è dominata come proprio dell'animo umano in quanto tale.

L'idea secondo cui nel mondo greco arcaico sia assente la concezione di io, soggetto e anima, che non sia possibile leggere i comportamenti dei personaggi omerici nei termini di responsabilità, e non si possano quindi porre questioni morali, è discussa

da B. Williams nel suo articolo Shame and Necessity39. Secondo lo studioso, ricercare questi concetti al di fuori della loro cultura di origine è segno di un atteggiamento anacronistico: lui si muove infatti contro una tendenza alla svalutazione della morale omerica rispetto a quella kantiana centrata sull'autonomia della ragione, nel tentativo di rivalutare il significato morale dei comportamenti degli eroi omerici e tragici. Si tende infatti a pensare questi ultimi come soggetti mossi da principi a loro esterni, mentre Williams, riconsiderando i concetti di vergogna e necessità, mostra la non correttezza di tale interpretazione.

Per quanto riguarda la vergogna, principio che muove il comportamento dell'eroe omerico, secondo Williams si tratterebbe di un sentimento interiorizzato: ovvero un sentimento originato da un giudizio che il soggetto percepisce non solo a lui diretto dallo sguardo altrui, ma che è lui stesso a proiettare sulla sua persona, avendo introiettato i valori della propria comunità nella sua identità. Con il termine necessità, si è soliti intendere l'intervento divino e il destino che muove i personaggi tanto nelle tragedie quanto nei poemi omerici. Williams critica questa tendenza a classificare i comportamenti dei personaggi come predeterminati, quindi i soggetti come privi di qualsiasi ruolo decisionale e responsabilità. Non si tratterebbe, secondo lui, di una sottomissione passiva, ma di una necessità come accettazione responsabile da parte dell'uomo dei condizionamenti della divinità: responsabile in quanto l'unico modo possibile per porre fine a una situazione di difficoltà40.

Osserviamo ora le categorie di vergogna e necessità rispetto al caso specifico di Medea, come procede nel suo articolo M. M. Sassi. Per quanto riguarda la prima, nell'eroina agisce sicuramente un sentimento di vergogna per l'onore perduto: questo

39 Cfr. M.M. Sassi, Storia d'onore e eros.

40 Cfr. M. M. Sassi, Storia d'onore e di eros, dove si spiega che Williams giunge a tali considerazioni

analizzando gli elementi di deliberazione, scelta e responsabilità in alcuni episodi dell'Iliade, dell'Odissea e di alcune tragedie: tra queste, l'Agamennone e I sette a Tebe, i cui protagonisti scelgono di compiere delle azioni necessarie.

emerge chiaramente dal suo indicare il comportamento di Giasone come un'ingiustizia (adikein), un'infrazione dei giuramenti stipulati di fronte agli dei e dal suo parlare di se stessa come una donna disonorata. Ma si tratterebbe di un sentimento di vergona e di un giudizio di disonore che la donna stessa proietta su di sé. Inoltre, ho già osservato precedentemente la possibilità d'interpretare la spinta emotiva di Medea all'azione non solo in termini di aidos, ma di amore possessivo e paura di perdere il senso di sé, che si rovescia nella violenta affermazione della propria identità arcaica sopita. Il codice dell'onore sarebbe quindi «un'impalcatura razionale che sostiene una pulsione erotica distruttiva »41.

La necessità all'interno della Medea compare invece non nei termini di una forza divina soprannaturale, ma in quelli di una pulsione emotiva dettata dalla convergenza dell'eros e del sentimento di umiliazione: Medea sottostà alla potenza del suo ethos, il suo carattere, che prende il posto degli dèi assenti nella tragedia. Tuttavia, la donna è conscia delle forze che si contrappongono al suo interno e del domino che su di sé ha lo thymos: è quindi consapevole della necessità dell'atto che sta per compiere, da leggere quindi nei termini di accettazione responsabile e non sottomissione passiva. Tuttavia, nonostante sia responsabile di gesta spietate, non si è esortati ad esprimere un giudizio morale su Medea, quanto piuttosto a elaborare riflessioni sulla complessità della psyche umana e sulla sua natura in parte irrazionale, che può portare una madre a uccidere i propri figli. Sembra quindi che la tragedia non trasmetta un messaggio di biasimo e condanna dell'immoralità, ma non sottolineando la malvagità di Medea inviti piuttosto a sospendere il nostro giudizio là dove l'animo umano è dominato da impulsi passionali, a causa di cui l'uomo non si chiede se le sue azioni siano giuste o sbagliate. Nell'eroina si manifesta la potenza della componente irrazionale dell'uomo, la sua capacità di

condizionarne il comportamento a tal punto da portarlo a compiere i gesti più empi. Se nel caso della Medea sussistono diverse possibili interpretazioni del conflitto intrapsichico, nell'Ippolito, tragedia rappresentata ad Atene nel 428 a. C., questo sembra espresso in termini più chiari di ragione e passione. Fedra, moglie di Teseo innamoratasi del figliastro Ippolito, preda della vergogna (aidos) (v. 335) per la colpa da cui sente contaminata (miasma) la sua mente (v. 327), all'inizio decide di tacere questa sua passione, occultandola nel silenzio; in seguito, prova a sostenerne la sofferenza con la saggezza; ma quando i suoi sentimenti sono dichiarati, il peso della vergogna è troppo forte e la donna si uccide, essendo questo l'unico modo per salvare il suo onore (time). Fedra stessa dichiara il suicidio la decisione migliore (vv. 400-2), decisione del resto già prefigurata nel prologo da Afrodite con queste parole: «Fedra salverà il suo onore, ma dovrà morire lo stesso» (vv. 45 ss).

La presenza di un conflitto nei termini di ragione e passione nell'animo di Fedra emerge chiaramente quando lei stessa dichiara, rivolgendosi al Coro:

O donne di Trezene […], ho pensato tante volte, a lungo, nelle mie notti alla vita degli uomini, chiedendomi che cosa l'ha guastata. E credo che il difetto non sia nella ragione, quando prendono di due vie la peggiore. Molti il senno lo hanno. Ma è così, che noi il bene lo sappiamo qual è, e lo vediamo, ma non facciamo nulla: o è l'inerzia, o perché c'è un piacere, e il nostro cuore è lì. (Ippolito, vv. 373-385) Ma anche nelle parole rivolte alla nutrice, si colgono le tracce di tale conflitto:

Una che ha senno ama senza volerlo, ed ama quelli che non ne sono degni. (Ippolito, vv. 358-359) In questi versi sembra che Euripide entri in contrasto polemico con la convinzione socratica che l'ignoranza sia la causa del male morale, e con la sua negazione dell'akrasia come fondamentale realtà della natura umana. All'eu phronein non corrisponde necessariamente l'eu prattein, secondo un principio che Socrate critica nel

Protagora, quando riferendosi all'opinione secondo lui errata dei più, dice:

la maggior parte degli uomini ritiene che pur essendo la scienza spesso presente nell'uomo, non sia essa che comanda ma qualcos'altro: talora l'ira, talaltra il piacere, talaltra ancora il dolore, qualche volta l'amore, spesso la paura: insomma, concepiscono la scienza come una sorta di schiava trascinata da tutte le parti da quelle passioni. Essi, continua Socrate, pur conoscendo il meglio e pur essendo questo in loro potere, non lo vogliono fare e fanno invece tutt'altro, (…) perché dicono che si lasciano vincere dal piacere o dal dolore o da qualcuna delle passioni di cui ho detto sopra. (Protagora, 352b-e)

La convinzione socratica che alla conoscenza consegue necessariamente la felicità, è chiaramente confutata dal suicidio di Fedra: la donna attua la decisione che sa essere la migliore, l'unica in grado di restituirle l'onore perso, ma che allo stesso tempo la condannerà alla distruzione.

Se Aristotele considera la tragedia un mezzo di catarsi delle passioni, quindi una sorta di “terapia” per l'anima, Platone vi individua la causa dei mali che la affliggono per la capacità del dramma tragico di rendere l'uomo doppio, creando disordine interiore. Dal punto di vista dello studioso moderno Mario Vegetti l'esperienza intellettuale della tragedia è in ogni caso il sintomo di un disagio che investe il pensiero, ereditato da Socrate, dell'anima come puro fondamento di una soggettività morale autonoma, liberamente responsabile della sua salvezza. Interiorizzare il problema morale significa infatti interiorizzare anche l'umana debolezza, e gli eroi tragici bene mostrano come gli uomini non siano sempre capaci di governare se stessi. Da una parte, risultano infatti soggetti all'azione degli dèi che orientano il loro destino, dall'altra sono forze a loro interne che li governano, assoggettando la loro ragione: le passioni.

Non si può mettere in discussione l'integrità dell'anima senza mettere in discussione l'intellettualismo etico di Socrate: non basta sapere dov'è il bene, per compierlo, poiché la passione e il desiderio spesso sono più forti di qualsiasi ragione,

travolgendo letteralmente l'uomo. L'”errore” di Socrate è stato quello di ereditare dai movimenti religiosi orfico-pitagorici la contrapposizione di un'anima pura e incontaminata al corpo, alla temporalità, alla città, alla violenza e all'infelicità che ne deriva, traducendola nella versione laica della cura dell'anima ricondotta a se stessa, liberata dai suoi vincoli e resa il nucleo di una soggettività autonoma e unitaria, responsabile delle sue decisioni.42 Ma l'anima non è unitaria: anche al suo interno regna

la stasis, oltre che fra anima e corpo. Individuando nella psiche la sorgente d’istanze fra loro conflittuali, Platone nel quarto libro della Repubblica non intende negare il conflitto fra psiche e soma, né spostarlo all’interno della prima: la presenza della stasis interna all’anima non esclude quella fra anima e corpo. Nella Repubblica, ma ancor prima nel Fedro, riconoscendo che il conflitto si verifica anche nell’anima stessa, il filosofo riconosce che anche le passioni e i desideri svolgono una importante funzione al fine della salute e felicità dell’anima, essendo quindi l’attenzione focalizzata sulla loro regolazione piuttosto che sulla loro soppressione. Si tratta di instaurare un rapporto di collaborazione fra le tre istanze nei termini di coordinamento, da parte della ragione, di desideri e passioni: stabilendo una condizione di equilibrio interno molto fragile, data la forza degli impulsi irrazionali rispetto alla carenza energetica della razionalità. Perciò, la coscienza di compiere un male a volte non è sufficiente per desistere dal nostro comportamento. Come poter considerare, quindi, la psiche, il fondamento saldo della soggettività morale, se al suo interno regna la conflittualità, e se anche l’instaurazione di una dinamica psichica armonica equivale allo stabilirsi di una condizione instabile e precaria, sempre pronta a rovesciarsi nel suo contrario?

Capitolo secondo