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Platone e il problema dell'akrasia, dalla Repubblica alle Leggi

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DI PISA

D

IPARTIMENTO DI

C

IVILTÀ E

F

ORME DEL

S

APERE

C

ORSO DI

L

AUREA IN FILOSOFIA E FORME DEL SAPERE

Tesi di laurea magistrale

Il problema dell’akrasia in Platone,

dalla Repubblica alle Leggi

Relatrice

Candidata

Prof.ssa Maria Michela Sassi

Martina Del Grosso

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Indice

Introduzione 1

CAPITOLO I

L’emergere del tema del conflitto psichico fra Socrate e la tragedia

1. Dal daimon arcaico alla psyche socratica 8

2. L’intellettualismo etico e la sua declinazione edonistica nel Protagora 13 3. «Felice è chi non ha bisogno di niente»: l’autarkeia della virtù nel Gorgia 20

4. La sophia di Medea 27

5. Il conflitto intrapsichico di Medea e Fedra: Euripide contro Socrate 33

CAPITOLO II

La dinamica psichica nel IV libro della Repubblica fra akrasia e harmonia: dalla

stasis al fragile equilibrio dell’oikeiopragia

1. Dal Fedone alla Repubblica: l’elaborazione platonica del conflitto tragico 43 2. Sophia, Andreia, Sophrosyne: la giustizia nella «polis kata physin» 56 3. Dalla città all’anima: il problema della stasis interiore 66 4. La risoluzione del conflitto: il ruolo dello thymoeides nella politica delle alleanze

psichiche 73

5. Il problema dell’isomorfismo tra città e anima 82

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CAPITOLO III

Il conflitto psichico nelle Leggi

1. Razionalità e irrazionalità nella Repubblica e nelle Leggi: enkrateia e akrasia 95

2. Thymos e thymoeides nelle Leggi 109

3. La vera natura dell’anima 120

4. Il Consiglio Notturno e la ragione divina 127

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Introduzione

In questo lavoro mi sono proposta di trattare il problema dell’akrasia in Platone, ponendolo in relazione con la sua psicologia. A questo scopo, ho ritenuto opportuno soffermarmi in un primo momento sul Protagora e sul Gorgia, per poi considerare il IV libro della Repubblica e le Leggi: tali scritti presentano configurazioni differenti della psiche umana, che oscilla fra una concezione semplice e un’altra complessa; parallelamente, rispondono al problema dell’akrasia presentando modi diversi in cui la ragione si deve relazionare alle passioni e ai desideri.

Il primo capitolo prende in considerazione l’approccio socratico all’akrasia. Accogliendo un’eredità orfico-pitagorica, Socrate riconduce il conflitto fra ragione e passioni a una stasis fra la psyche e il soma e identifica l’anima con un’entità monolitica esclusivamente razionale, indicando invece nel corpo l’origine delle pulsioni irrazionali. Su questa base poggia l’intellettualismo etico con cui è affrontato il problema dell’akrasia, riconducendo la causa dell’errore morale all’ignoranza del bene. Infatti, nessuno commette volontariamente il male, ma solo perché lo confonde con il bene: conoscerlo è perciò la condizione necessaria e sufficiente per essere uomini virtuosi. Affrontando il Protagora e il Gorgia, ho sottolineato quindi come Socrate risolva il problema dell’akrasia eliminandolo alla radice, ovvero negando la possibilità che anche l’uomo buono, pur nella conoscenza di ciò che è giusto, agisca in senso contrario sotto la spinta della sua emotività.

Nel Protagora l’intellettualismo etico assume una declinazione edonistica, identificando il bene col piacere e il male col dolore. Su questa base si espone la necessità di effettuare un calcolo dei piaceri e dei dolori derivanti da un determinato comportamento, in relazione non solo al momento presente ma anche a quello futuro.

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Nel Gorgia, al contrario, ci si allontana nettamente dall’edonismo etico: confutando la possibilità di identificare il bene col piacere e il male col dolore, si collega il conseguimento dell’eudaimonia alla coltivazione della propria razionalità con la parallela soppressione della sfera emotiva, ritenuta di ostacolo alla conoscenza. L’anima felice è solo quella riconciliata con se stessa, che fugge dal mondo rifiutandone i valori secondo uno stile di vita che ancora ricorda l'ascesi orfico-pitagorica.

Il primo capitolo si conclude considerando l’emergere del tema del conflitto psichico nella tragedia euripidea, e confrontando l’approccio di Euripide al conflitto psichico con quello socratico. Con il personaggio di Medea, nell’omonima tragedia, ho osservato che Euripide introduce una novità fondamentale rispetto alla precedente esperienza tragica: la consapevolezza che la donna mostra di avere delle proprie tensioni interne. E’ quanto emerge in particolare nelle parole pronunciate dalla protagonista ai versi 1078-10801, da interpretare non tanto come un conflitto fra ragione e passioni, quanto fra due passioni del desiderio di vendetta e dell’amore materno, oppure nei termini funzionali di strumentalizzazione del pensiero ai contenuti emotivi: una collaborazione tra un principio di vendetta di matrice passionale e un piano per attuarli di matrice razionale. Se il conflitto psichico di Medea può essere oggetto di diverse interpretazioni, le parole di Fedra, protagonista dell’Ippolito, esprimono chiaramente un’opposizione interiore fra la ragione e le passioni. Questo si osserva in particolare ai versi 373-3852, dove Euripide sembra entrare in contrasto polemico con l’intellettualismo etico socratico accettando la passionalità come fondamentale realtà

1 «So bene quanto male sto per fare, ma la passione domina sopra il mio volere: è la causa delle sciagure

più grandi per i mortali».

2 «O donne di Trezene […], ho pensato tante volte, a lungo, nelle mie notti alla vita degli uomini,

chiedendomi che cosa l'ha guastata. E credo che il difetto non sia nella ragione, quando prendono di due vie la peggiore. Molti il senno lo hanno. Ma è così, che noi il bene lo sappiamo qual è, e lo vediamo, ma non facciamo nulla: o è l'inerzia, o perché c'è un piacere, e il nostro cuore è lì».

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della natura umana, senza indicare una soluzione positiva al conflitto psichico, che rimane irrisolto.

Il secondo capitolo è principalmente dedicato all’analisi della psicologia platonica nel IV libro della Repubblica, dove l’anima, come la città, è un’unità composta e conflittuale, comprendente sia la ragione che la sfera irrazionale. La soluzione al conflitto psichico e quindi all’akrasia è indicata nel principio dell’oikeiopragia, connessa alla sophrosyne: sia nell’accezione di enkrateia, l’autocontrollo o moderazione dei propri desideri, sia come quello stato di accordo (symphonia) e armonia (harmonia) fra le parti psichiche, per cui l’epithymetikon e lo thymoeides accettano di ricoprire un ruolo subalterno al logistikon, e questo di esercitare la funzione di direzione dell’anima. Tuttavia, ho voluto sottolineare che l’etica della Repubblica non sembra suggerire l’eliminazione delle istanze delle due componenti inferiori. Ho osservato a questo proposito che nel IV libro, a partire dall’esposizione del principio per cui una cosa non può, nello stesso momento e sotto lo stesso aspetto, compiere due azioni contrarie, sono individuate nell’anima due autonome fonti dell’azione, rettificando il principio socratico dell’involontarietà del male: la volontà non è sempre diretta al bene, e non è solo per mancanza di conoscenza che agiamo in conformità con ciò che bene non è. Se questo accade è perché nella psiche vi sono centri motivazionali autonomi con desideri propri che cercano di prevalere l’uno sull’altro: si tratta cioè di un conflitto di forze desideranti, dove la giustizia risulta dal “prevalere” del logistikon sui desideri di altre parti dell’anima. Al logistikon da un lato, all’epithymetikon dall’altro, vengono infatti assegnati due differenti tipi di desiderio: da una parte, desideri semplici e moderati, dall’altra invece la ricerca della soddisfazione immediata di ogni desiderio, senza alcun criterio selettivo. Ho quindi considerato che anche nel IX libro (580d-581c) si distingue per ogni parte dell’anima una tipologia di desiderio, con il proprio oggetto e il proprio piacere: si può quindi concepire la partizione psichica nei termini di partizione del desiderio, e l’anima nei termini di

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un’unica fonte di energia neutra, come l’eros nel Simposio. La ragione, in quanto desiderio del bene complessivo dell’anima, se la dinamica psichica è armonica si relaziona nei confronti della terza “parte” scartandone i desideri superflui e non necessari e moderando gli altri, da appagare ma nella giusta misura.Perciò, Platone nella Repubblica, attribuendo il comando dell’anima alla ragione intende instaurare un sistema non costrittivo ma normativo, per cui il desiderio del logistikon s’impone senza coercizione sugli altri desideri ma in quanto loro norma di orientamento, in un rapporto di collaborazione reciproca. Al contrario dell’etica socratica, bisogna perciò accettare la possibilità che anche l’uomo buono cada nell’errore, perché la virtù non è un’acquisizione stabile ma un fragile equilibrio facile da infrangersi: il contrario della duratura condizione di serenità riservata da Socrate all’anima esclusivamente razionale, che conoscendo il bene è necessariamente buona.

Nel secondo capitolo ho anche considerato con particolare attenzione il ruolo dello thymoeides nel IV libro della Repubblica rispetto al problema della risoluzione del conflitto psichico, ponendolo inoltre in relazione con la funzione dell’Io nella dinamica psichica freudiana. In entrambi i casi si tratta di un elemento fondamentale per il ruolo d’integrazione e mediazione fra il logistikon e l’epithymetikon da una parte, fra il Super Io e l’Es dall’altra. Ho sottolineato come per Platone sia essenziale l’alleanza fra lo thymoeides e la ragione, come si osserva anche nel mito dell’anima come una biga alata presente nel Fedro: il motivo risiede nella sua capacità di offrirle quella energia motivazionale di cui risulta carente, senza la quale il desiderio di ciò che è il bene dell’anima intera risulta perdente contro la forza persuasiva dei piaceri specifici, risolvendo la dinamica psichica in una gerarchia disarmonica.

Ho trattato infine lo thymoeides anche nel quadro del rapporto fra la tripartizione psichica e quella della città, esaminando la possibilità che la prima sia derivata dalla seconda: ne conseguirebbe che la partizione della sfera irrazionale in epithymetikon e

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thymoeides sia nata dall’esigenza di completare il parallelismo tra la psiche e la polis. Infatti, la divisione del corpo civile in tre classi corrispondenti a determinate fasce d’età, ognuna con un proprio compito e la virtù ad esso collegata, era già presente nelle prime società greche: da esse Platone può quindi aver tratto spunto nella progettazione della kallipolis, sulla cui base ha progettato la psiche. L’antecedenza della tripartizione politica rispetto a quella psichica può trovare conferma anche considerando che Platone, nel delineare la psicologia del IV libro, ha preso in considerazione solo uno dei possibili stati complessi della mente, il conflitto motivazionale, dipingendolo come una guerra fra fazioni che ricalca da vicino quella civile. Lo thymoeides non sembra quindi il risultato di uno studio focalizzato sulla mente umana, ma piuttosto della necessità di ricalcare nella psiche lo schema tripartito della società. Forse per questo Platone ha semplificato la complessità della sfera emotiva, fondendo nell’elemento intermedio unicamente due emozioni: l’emozione dell’ira e il sentimento di autoaffermazione e di orgoglio proprio dell’eroe omerico. Tuttavia, non vi è motivo per cui ira e coraggio dovrebbero esaurire il mondo delle emozioni, se non quello della necessità di identificare un elemento che possa rispecchiare, nella sua capacità di allearsi con il logistikon e cui poter attribuire la virtù del coraggio, gli epikouroi del corpo civile. Se dallo thymoeides venisse espulso il senso di orgoglio e autoaffermazione che caratterizza l’eroe omerico, si dovrebbe parlare semplicemente di thymos, l’impulso dell’ira. E’ ciò che sembra accadere nell’ultima opera di Platone, le Leggi, oggetto di studio nel terzo capitolo di questo lavoro: qui lo thymos, inteso appunto come ira, è considerato come una delle tante corde di ferro che tirano l’uomo burattino in direzioni opposte, perdendo la funzione integratrice e risolutrice del conflitto, capace di operare in vista della ricomposizione armonica della psiche. Parallelamente, tale forza è assorbita nella sfera irrazionale, osservando quindi una tendenza a ridurre la

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tripartizione psichica in un’opposizione fra ragione e irrazionalità. Data l’assenza della componente dello thymoeides, non si tratta più, quindi, di ricomporre la stasis psichica in un’unità armonica: la virtù corrisponde adesso all’obbedienza di piaceri e dolori al comando della ragione, mentre il vizio non è disarmonia ma ignoranza, da intendersi come assenza di tale tipo di rapporto. Nell’ultima opera di Platone è una forza esterna all’uomo, la legge in quanto espressione del principio razionale divino, che realizza questa forma di coordinazione fra ragione e emozioni. La funzione del corpus legislativo può quindi essere paragonata a quella dello thymoeides nella Repubblica: entrambi mediano tra due poli, ragione e emozioni, permettendo l’instaurazione di una condizione psichica virtuosa: con la differenza fondamentale che, mentre nella Repubblica si trattava di lasciare alla sfera irrazionale la possibilità di esprimersi nella giusta misura, quella indicata dalla ragione, l’azione della legge mira a comandare sulla sfera emotiva, al fine di neutralizzare ciò che rende l’essere umano un individuo e assimilarlo alla ragione divina.

In questo terzo capitolo ho infine preso in considerazione la possibilità che anche all’interno della psicologia complessa del IV libro, del Fedro e delle Leggi, Platone identifichi il vero sé non con l’anima nella sua interezza, ma con il suo elemento superiore, eterno e divino. Come leggiamo nel X libro della Repubblica (611a) infatti, ciò che è composto non può essere eterno, poiché soggetto a cambiamento: solo la semplicità ha i caratteri dell’immutabilità, dell’immortalità e della divinità, suggerendo quindi la coincidenza del vero sé con la ragione e la derivazione degli altri due elementi dal temporaneo attaccamento al corpo (611b-612a). Anche nel Fedro non si parla dell’anima umana come essenzialmente composta, ma della sua complessità come il risultato dell’associazione con il corpo, o meglio della sua entrata nel ciclo delle reincarnazioni: infatti vi osserviamo che l’anima divina, non inserita in questo ciclo,

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non è composta, poiché tutti i suoi cavalli sono buoni. In conclusione di questo lavoro ho osservato quindi come le Leggi sembrino confermare l’idea per cui Platone, sia che identifichi l’anima con la sola ragione, sia che vi includa la sfera emotiva, consideri il vero sé dell’uomo coincidente con la razionalità. In questa direzione possiamo interpretare nell’ultima opera del filosofo l’attribuzione alla ragione della funzione coercitiva sulle emozioni volta alla loro neutralizzazione, come la considerazione per cui l’unione dell’anima col corpo non è migliore della sua separazione (828d), nonché l’identificazione del vero sé con l’anima immortale (959a-b).

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Capitolo primo

L'emergere del tema del conflitto psichico fra Socrate e la tragedia

1. Dal daimon arcaico alla psyche socratica

Cosa motiva l'azione morale? Perché la giustizia è preferibile all'ingiustizia, la virtù al vizio? Secondo un'etica deontologica come quella moderna il vivere virtuosamente è un dovere: non c'è spazio nella sua riflessione per la questione della felicità. È invece in rapporto a questa che il pensiero antico considera l'azione umana: alla domanda “perché agire giustamente?”, Socrate risponde “perché la virtù rende felici, e la felicità è il fine ultimo di ogni tua azione in quanto bene primo a cui ogni uomo tende”. Si parla infatti di etica eudaimonistica in opposizione a quella deontologica di matrice kantiana, poiché l'eudaimonia (letteralmente “l'essere con un buon demone”) è il corrispettivo greco di felicità, non trattandosi però di uno stato di appagamento immediato e momentaneo, ma di una condizione di piena realizzazione delle proprie potenzialità in quanto essere umano: se in inglese possiamo indicarla con l'espressione flourishing life, “vita fiorente”, il termine italiano che meglio traduce il greco eudaimonia è “benessere”3. Concordi nel considerarla il fine di ogni azione

umana, diverse sono però le opinioni dei filosofi antichi su cosa essa sia, come già osservava Aristotele:

Per quanto riguarda il nome [del bene pratico più alto] vi è un accordo quasi completo nella maggioranza; sia la massa che le persone raffinate dicono che si chiama eudaimonia, e credono che vivere bene e avere successo sia la stessa cosa che essere felici. Ma su cosa sia l'eudaimonia vi è disaccordo, e la massa non intende nello stesso modo dei sapienti, dato che i primi credono che sia qualcosa di tangibile ed evidente, come piacere, ricchezza o onore, e altri altro.

(Aristotele, Etica Nicomachea, I 2, 1095a17-23)

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È stato Socrate il primo a sostenere, opponendosi alla cultura sofistica del suo tempo, l'inutilità della ricchezza e dei beni esteriori, quindi del riconoscimento sociale, in vista del benessere: ciò che rende felici è la virtù in sé in quanto bene dell'anima, perché con quest'ultima s'identifica l'uomo. Curarsi di se stessi non significa altro che curarsi della propria anima cercando di renderla migliore.

È sull'identificazione del vero sé con la psiche e di questa con la razionalità, esposta nell'Alcibiade I, che si fonda la soluzione socratica al problema della virtù e della felicità. Alla domanda: come essere buoni, quindi felici? Il filosofo ateniese risponde che il possesso del sapere è condizione necessaria e sufficiente per l'azione virtuosa, perciò l'errore morale è involontario, conseguenza dell'ignoranza. Attraverso l'equazione fra conoscenza, virtù e felicità, viene così esclusa categoricamente la possibilità di ciò che Platone indicherà con l'espressione “essere più deboli di sé” e Aristotele come akrasia, ovvero il conflitto intrapsichico: una condizione che può essere negata unicamente sulla base di una concezione monolitica dell'anima. Tuttavia, W. K. C. Guthrie sostiene che Platone non abbia rinunciato a individuare il vero sé con la razionalità: nel suo Plato’s View on the Nature of the Soul, lo studioso considera la possibilità che anche all’interno della psicologia platonica complessa, che identifica il sé con la psiche inglobando in questa ragione, desideri e passioni, il filosofo continui a identificare l’anima nella sua essenza pura, semplice ed eterna, con la razionalità, considerando le istanze irrazionali derivanti dal suo temporaneo attaccamento al corpo4.

I primi a proporre una concezione monolitica della psiche sono stati i movimenti religiosi orfico-pitagorici, dando inizio a un processo d'individualizzazione dell'anima come organo unificante di un complesso psicofisico e d'interiorizzazione radicale del

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Crf. W. K. C. Guthrie, Plato’s View on the Nature of the Soul, in Recherches sur la tradition

platonicienne, Entretiens sur l’antiquité classique, tome III, Genève, 1995. Il tema dell’oscillazione

platonica fra l’identificazione del vero sé con l’anima nel suo complesso oppure con la sola razionalità, verrà preso in considerazione nell’ultimo capitolo.

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problema morale. Si sviluppa così un concetto di individuo e di sé fino a quel momento assente nella cultura greca, determinante per la transizione dalla morale omerica, competitiva e fondata sull'onore (time), a una morale imperniata sui concetti di intenzionalità e colpa, entro la quale è possibile palare di disagio psichico e tormento della coscienza. Tuttavia, è proprio nell'Iliade di Omero che si delineano quelle problematiche da cui hanno origine il moderno concetto di psiche, la nascita del sé e l'interiorizzazione della morale. La presenza dell'esercito degli Achei sotto le mura di Troia configura infatti una situazione che possiamo definire “paradossale”, inserendo le figure esemplari degli eroi, che regolano i loro rapporti sulla difesa del proprio onore (time), all'interno di un'impresa collettiva prefigurante la polis, che presuppone vincoli di collaborazione politico-militare. Utilizzando le parole di Mario Vegetti, possiamo dire che «l'Iliade fa dunque precipitare le sue figure esemplari in una situazione politica, senza che esse possiedano la minima attrezzatura morale e sociale per farvi fronte»5.

Questa assenza di un piano di valori universali, che avrebbe potuto risolvere o almeno dirigere il conflitto tra Achille e Agamennone, inizia ad essere avvertita come una questione problematica, una nuova esigenza a cui cercare di far fronte. Due sono le vie intraprese, tra VII e V secolo, in questa direzione: in primo luogo, la politicizzazione del problema morale, ossia la fondazione della città prefigurata da quell'esercito e di una legge che distribuisca i poteri e diriga i conflitti, con l'interiorizzazione di un piano di valori comuni e condivisi. In secondo luogo, l'interiorizzazione radicale del problema morale, attraverso l'individualizzazione dell'anima in quanto fondamento della soggettività morale e organo accentratore di un sé, principio e causa delle proprie azioni6.

Difficile parlare di responsabilità per gli eroi omerici: Achille e Agamennone sono

5 M. Vegetti, L'etica degli antichi, Laterza, Bari 1989, p. 20. 6 Cfr. ivi, pp. 30-32.

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mossi, nei pensieri come nelle azioni, dagli dèi e percepiscono le loro scelte come costrizioni. Così pure le passioni, l'ira, la gelosia, la gioia, sono forze che travolgono dall'esterno chi le vive, impossessandosene e assoggettandolo proprio come le divinità. Alla radice del passaggio dall'”io eroico” di Omero a una nozione più approfondita di individualità, vi è per contro il superamento del concetto di thymos come impulso vitale e della conseguente concezione di un'anima priva di dinamiche proprie e soggetta all'azione di forze esterne. Prima di Platone, lo thymos non designava una funzione psicologica dell'anima, ma una dinamica psichica globale o una passione specifica, l'ira. In entrambi i casi, tuttavia, il termine esprimeva l'idea di uno slancio come pura reattività, privo di direzione specifica: una forza che si traduce immediatamente in azione (significativa da tal punto di vista la connessione con il verbo thyo). Perciò gli eroi omerici non sono capaci di una autonoma possibilità di scelta tra bene e male: non è possibile per loro alcun tipo di riflessione antecedente l'azione, in quanto manca il concetto di “io” come complesso psicosomatico, grazie al quale il soggetto si percepisce responsabile delle proprie esperienze. Nel mondo omerico invece non si può parlare in senso forte né di un'anima né di un corpo, poiché entrambi troppo deboli per accentrare le funzioni psichiche intorno a un “io”: non ha senso perciò parlare di una loro concezione unitaria e integrata, né tanto meno di una interazione tra somatico e psichico nei termini di organo e funzione7.

Se con Platone lo thymos diventa funzione psicologica di un'anima complessa di cui fanno parte come centri motivazionali, insieme alla ragione, anche passione e desiderio, la psyche socratica è pura razionalità. Non fu Socrate il primo a porre una separazione tra la psyche e il soma, ma i seguaci di correnti orfiche e pitagoriche, in cui l'uomo fu per la prima volta identificato con l'anima, e l'anima con un'entità immortale,

7 Cfr. G. Cupido, L'anima in conflitto. Platone tragico tra Euripide, Socrate e Aristotele, il Mulino,

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incorporea e incontaminata in opposizione al corpo e alla temporalità. Contrapponendosi alla città e al sistema di violenza integrato nelle sue dinamiche politico-giudiziarie e nella religione ufficiale stessa, con il suo sistema di sacrifici, questi movimenti filosofico-religiosi individuavano nella psyche il soggetto di un messaggio di salvezza per l'umanità. Sostenevano infatti che destino dell'anima fosse la sua migrazione da un corpo all'altro, come punizione per una colpa commessa ma, contemporaneamente, anche cammino ascetico di purificazione, mezzo di riscatto mediante cui scontare la propria colpa e uscire dal ciclo delle reincarnazioni, riconciliandosi con il divino da cui l'anima proviene. Agli orfico-pitagorici si deve la concezione del rapporto anima-corpo nei termini di un'opposizione tra ciò che è divino e immortale a ciò che è mortale e terrestre, di ciò che è puro all'impuro, quindi l'idea della loro unione come una sorta di caduta dell'anima nel corpo. Molte sono le testimonianze di questa versione moralizzata della dottrina della reincarnazione, tra cui significativo è un frammento di Filolao di Crotone, vissuto tra il V e il IV secolo a. C.: «testimoniano anche gli antichi teologi e indovini che l'anima è aggiogata al corpo per qualche colpa, e che in esso è sepolta come in una tomba» (Fr. 14). Altrettanto significativa, per l'identificazione tra corpo e tomba dell'anima, soma e sema, sono le parole di Platone nel Cratilo:

Dicono che il corpo è tomba dell'anima, quasi che essa vi sia sepolta durante la vita presente […] però mi sembra assai più probabile che questo nome lo abbiano posto i seguaci di Orfeo; come a dire che l'anima paghi la pena di ciò che deve scontare, e perciò abbia intorno a sé, affinché sia custodita, questa cintura corporea a immagine di una prigione; e così il corpo, come il nome significa, è custodia dell'anima finché essa non abbia pagato i suoi debiti.

(Cratilo, 400C) E' importante sottolineare tuttavia che all'interno del contesto orfico-pitagorico non si incontra il termine psyche, in quanto l'oggetto di trasmigrazione è un essere

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meta-empirico, un'entità demonica che non si identifica mai con il corpo in quanto di origine divina e destinata a percorrere un ciclo di reincarnazioni solo per giungere alla finale riconciliazione con il divino da cui proviene: è assente perciò l'idea di unità psicosomatica, il concetto di “io”. L'individualizzazione dell'anima nel suo rapporto univoco con il corpo avviene successivamente ed è da attribuire a Socrate, che mediante la laicizzazione della questione orfico-pitagorica dell'anima la espropria dal contesto religioso rendendola il fondamento della soggettività morale8.

Per Socrate l'identificazione dell'”io” con un'anima pura nella sua razionalità è fondamentale per stabilire la validità dell'equazione di conoscenza, virtù, e felicità, secondo cui non si commette mai il male volontariamente, poiché l'errore è conseguenza dell'ignoranza su ciò che è bene. La risoluzione del deficit conoscitivo è quindi la risposta di Socrate all'errore morale, sulla base di una concezione dell'anima che esclude la passione e il desiderio come possibili forze in conflitto con la razionalità: chi conosce il bene non può “essere più debole di sé”, come dice Platone; non può perdere la propria padronanza (akrates, akrasia), come afferma Aristotele. Ma nell'eliminare il conflitto e la scissione intrapsichica, nell'identificare l'“io” con un'entità pura e unitaria, si finisce con il proporre un modello di individualità non rispecchiante la realtà della natura umana, un'immagine impoverita della nostra condizione interiore.

2. L'intellettualismo etico e la sua declinazione edonistica nel Protagora

La ricerca della definizione delle virtù è una delle principali caratteristiche della dialettica socratica, in quanto è intorno a domande come “che cos'è il coraggio?”, “che cos'è la saggezza?” che si organizzano i dialoghi “socratici” di Platone, principale testimonianza del dialegesthai del filosofo ateniese. Questa indagine è dettata

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dall'impostazione intellettualistica della sua morale, ossia dall'equazione di conoscenza, virtù e felicità, secondo cui la conoscenza è condizione necessaria e sufficiente per agire virtuosamente e la virtù condizione necessaria e sufficiente per la felicità. Il sapere in questione è indicato con diversi termini: episteme, per metterne in risalto l'esattezza e la precisione, sophia o sophrosyne o phronesis, sottolineandone l'aspetto di saggezza pratica9. Qualunque sia la sfumatura del concetto di conoscenza che si vuole mettere in

risalto a seconda del termine usato, ciò che comunque persiste nell'etica socratica è il senso di una continuità tra conoscenza del bene e pratica virtuosa, che si traduce in equivalenza tra episteme e arete sulla base della tesi per cui se si conosce il vero bene, sapendolo distinguere da quelli apparenti, non lo si può non perseguire e compiere. La necessità di definire le virtù è inoltre connessa al fatto che per Socrate non esiste un comportamento virtuoso estrinseco e oggettivo, ma il comportamento virtuoso è tale se sentito e interiorizzato. E per introiettarlo ne serve la coscienza, quindi la conoscenza10.

A fondamento dell'intellettualismo etico vi è da un lato una concezione aristocratica del volere, dall'altro l'estensione del paradigma del sapere tecnico all'ambito etico della virtù. Per quanto riguarda il primo punto, Socrate concepisce la volontà come volontà del bene: non può esserci volontà del male, ossia di un bene apparente, ma solo desiderio, la cui presenza implica l'assenza della volontà. Il bene è sempre oggetto di volontà e la volontà, non potendosi non tradurre in azione, esclude contemporaneamente la presenza del desiderio che ha come oggetto il piacere. Per Socrate la volontà non può essere divisa: se questa è presente, come diretta conseguenza della conoscenza, si traduce in azione e il desiderio è assente11. Nessuno quindi sbaglia

volontariamente e sulla base di questa teoria neanche si può porre un problema di debolezza di carattere, intemperanza, “essere più deboli di sé”. Sono state avanzate delle

9 Cfr. M. M. Sassi, Indagine su Socrate. Persona filosofo cittadino, Einaudi, Torino 2015, p. 145. 10 Cfr. F. Ferrari, op. cit., pp. 48-9.

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riserve riguardo alla matrice socratica di questo rigorismo intellettuale, che non tiene conto del ruolo delle passioni e dei desideri eliminandone l'influenza sull'uomo con “il potere” della conoscenza del bene. Testimonianze differenti da quella platonica, come quella di Senofonte, mostrano una maggiore attenzione e sensibilità di Socrate rispetto al ruolo della sfera emozionale: nei Memorabili in particolare emerge una notevole attenzione al contenimento del desiderio, al problema, cioè, della moderazione e della padronanza di sé. L'etica socratica appare qui molto meno rigida rispetto a come la mostra Platone, poiché conoscenza intellettuale e virtù della moderazione sono per il Socrate di Senofonte requisiti, entrambi necessari, per il saggio, come si osserva nel seguente passo tratto dal III libro dei Memorabili:

Non separava sapienza (sophia) e saggezza (sophrosyne), ma giudicava sapiente e saggio un uomo se praticava cose buone e belle conoscendole e si teneva lontano, consapevolmente, dalle turpi. Gli domandarono inoltre se considerava sapienti e insieme temperanti (enkrateis) coloro che, benché sapessero quel che si deve fare, agivano al contrario. «li giudico niente più -rispose- che ignoranti e incontinenti (akrateis); penso infatti che tutti gli uomini scelgono, sulla base delle condizioni di possibilità, di fare ciò che ritengono più utile per loro. Ritengo perciò che quelli che non agiscono rettamente non sono né sapienti né temperanti». (Memorabili III, 9.4)

Del resto, questo binomio di conoscenza e moderazione viene confermato dalla stessa rappresentazione di Socrate nel Simposio platonico, dove lo incontriamo tutt'altro che privo della passione dell'Eros, dell'amore per il cibo e del vino, ma contemporaneamente capace di fruirne con moderazione. Come affermato da M. M. Sassi,

«probabilmente Socrate non era poi così disattento al ruolo degli impulsi passionali, ben vissuti in proprio ma risolti con una capacità di autocontrollo eccezionale e quasi divina. (…) si può ipotizzare che Socrate versasse l'aspetto più umano della sua morale in un rapporto con i discepoli di forte valenza educativa (il punto che più preme a Senofonte), mentre preferiva

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valorizzarne la dimensione epistemica in contesti di discussione più alta sul piano teorico»12.

Questa rivalutazione della considerazione socratica delle passioni e dei desideri, come impulsi non da reprimere ed eliminare ma di cui fruire moderatamente, è sottolineata anche da F. M. Cornford nel suo saggio The doctrine of Eros in Plato’s Symposium13. Lo studioso osserva che l’Eros nel Simposio è descritto dalla sacerdotessa Diotima come una forza neutra, in quanto tensione verso ciò che non si possiede e di cui si sente la mancanza: un bisogno o ricerca del bene e del bello, che si può sviluppare a vari livelli a seconda dell’oggetto preso in considerazione. Attraverso un’educazione del desiderio, delineata da Platone con la scala amoris, nel Simposio si propone in modo chiaro la necessità di incanalare la forza dell’eros, in quanto fondo energetico della psiche, verso il bello e il buono in sé, non di reprimerla.

Per quanto riguarda l'estensione del paradigma del sapere tecnico all'ambito morale, Socrate deve aver avuto alcuni dubbi circa la sua applicabilità alla virtù, come mostra l'esito aporetico dei dialoghi socratici. Ma è in primo luogo nel Carmide che si manifesta nettamente l'inadeguatezza del modello tecnico, in particolare nella difficoltà di individuare i contorni della sophrosyne, definita una scienza del bene e del male che sappia gestire a fin di bene le varie tecniche specifiche (Carmide, 164c-166e). Un altro limite del paradigma tecnico in campo morale lo si incontra nel Protagora, in cui emerge il problema dell'insegnabilità della virtù. Se infatti chi è in possesso di una tecnica, ovvero di un sapere in un determinato campo e su un determinato oggetto, può trasmettere questo sapere, chi può insegnare la virtù del comando o quella necessaria in politica, la giustizia?14 Anche Aristotele manifesta la sua contrarietà all'identificazione

12 Cfr. M. M. Sassi, op. cit., pp. 153-55. 13

F. M. Cornford, The doctrine of Eros in Plato’s Symposium, in Id., The unwritten philosophy and other

essays, Cambridge University Press, Cambridge 1967. Il tema, qui accennato, dell’Eros come energia

psichica neutra all’interno del Simposio, in relazione con la lettura della psyche come flusso di desiderio, sarà oggetto di attenzione maggiore nel terzo paragrafo del secondo capitolo.

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socratica del conseguimento di un sapere tecnico con l'apprendimento di una virtù, come dice nell'Etica Eudemia:

Ebbene, Socrate il vecchio riteneva che il fine fosse la conoscenza della virtù e ricercava cos'è la giustizia, che cosa il coraggio e che cosa ciascuna delle parti della virtù. Aveva buone ragioni per fare così: giudicava infatti che tutte le virtù sono scienze, sicché risultava che si conosce la giustizia e insieme si è giusti. Infatti, non appena abbiamo imparato l'architettura e la geometria, siamo anche costruttori e geometri; perciò Socrate ricercava cosa sia la virtù, ma non come si origina e da quali fattori. (Aristotele, Etica Eudemia I, 1216b 2-16)

Uno dei luoghi in cui incontriamo l'equazione conoscenza, virtù e felicità è il Protagora. Considerato uno dei manifesti dell'intellettualismo socratico, in questo dialogo tuttavia l'etica antica assume una connotazione edonistica. È infatti sull'identificazione del buono (agathon) con il piacevole e del male (kakon) con il doloroso («vivere piacevolmente è bene, vivere spiacevolmente è male», 351c) che si sviluppa la corrispondenza tra conoscenza e virtù. Protagonista del dialogo è, insieme a Socrate, Protagora di Abdera, uno dei più importanti sofisti di Atene, famoso per il suo estremo relativismo espresso con la frase “l'uomo è misura di tutte le cose”. Probabilmente, la tesi edonistica non è rappresentativa del pensiero socratico, ma viene ammessa dal filosofo per svolgere l'argomentazione contro la cultura sofistica del suo tempo, rappresentata in questo luogo da Protagora.

Il punto di partenza dell'argomentazione a sostegno della corrispondenza tra l'eu phronein e l'eu prattein si basa su una forte presa di posizione contro la mentalità comune: «la maggior parte degli uomini», spiega Socrate, pensa che «pur essendo la scienza presente nell'uomo, non sia essa che comanda ma qualcos'altro: talora l'ira, talaltra il piacere, talaltra ancora il dolore, qualche volta l'amore, spesso la paura: insomma, concepiscono la scienza come una sorta di schiava trascinata da tutte le parti da quelle passioni». E' difficile non cogliere in queste parole la netta distanza che separa

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il pensiero di Socrate dalla concezione del tragediografo Euripide sulla complessità dell'animo umano, e l'insufficienza della conoscenza per l'azione virtuosa. In particolare è nella Medea e con più evidenza nell'Ippolito che Euripide sembra esprimersi nettamente contro l'intellettualismo etico socratico: Medea è consapevole del male che farà uccidendo i figli, sa di «compiere l'atto più empio» (ergon anosiotaton, Medea, v. 796); Fedra è distrutta dalla contrapposizione interna tra la passione per il figliastro e la consapevolezza del male in essa connaturato, mettendo in scena con la sua disperazione quel conflitto tra ragione e passione che Socrate nega15. Tuttavia, che sia stato Euripide

a prendere posizione contro Socrate, e non viceversa, non lo si può affermare che per via ipotetica: non si può escludere, anche se appare meno probabile, la possibilità che sia stato Socrate a sviluppare la sua concezione dell'anima e l'intellettualismo etico a partire dalla riflessione di Euripide16.

«[...]sapete, mi è capitato di trascorrere lunghe notti a riflettere sulla vita umana: mi chiedevo che cosa la rovini. Gli uomini hanno dolori e disgrazie, ma non è perché sono sciocchi. Anzi! Molti sono intelligenti. Il motivo è un altro. Noi sappiamo cos'è il bene, lo vediamo, ma poi non ci sforziamo di farlo. O per una sorta di inerzia, o perché c'è un piacere, e il nostro cuore

è lì». (Euripide, Ippolito, vv. 373-385)

Nel Protagora, Socrate si allontana nettamente dall'idea qui espressa da Fedra per cui l'animo umano possa essere abitato da un conflitto di forze, e che quindi la conoscenza di ciò che è bene non possa bastare per agire in modo giusto. Se interpretiamo la situazione descritta nell'Hippolito secondo il pensiero del filosofo, Fedra crede di sapere cos'è il bene, ma ciò che possiede in realtà è la conoscenza di un piacere, un bene apparente: perché inevitabilmente l'uomo persegue ciò che identifica con il bene, pur confondendo talvolta questo con un piacere. L'errore non sarebbe quindi determinato

15 La tematica del conflitto intrapsichico nelle due tragedie citate sarà oggetto di approfondimento

nell'ultimo paragrafo di questo capitolo.

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dall'akrasia, dall'essere vinti dalla passione o dal desiderio, ma da un deficit conoscitivo la cui soluzione non può che essere il possesso dell'episteme. Il filosofo, identificando l'anima con una entità monolitica, nega la complessità della realtà psichica, quindi il conflitto interiore e la debolezza pratica dettata dalla forza della passione e del desiderio.

Se la felicità dipende quindi dalla conoscenza, cui necessariamente corrisponde la virtù, come si conosce il bene? La risposta del Protagora consiste nella formulazione di una episteme metretiké (357d), una scienza del calcolo dei piaceri e dolori non solo in una prospettiva presente ma anche futura. Esistono azioni che procurano molti piaceri nel presente, ma rispetto a cui i dolori che ne derivano sono maggiori, e azioni che portano sofferenza nel qui e ora, ma si rivelano vantaggiose nel futuro apportando maggiori giovamenti delle sofferenze passate. Bisogna quindi essere capaci di individuare l'azione sommamente buona, tale cioè da assicurare maggior piacere nell'intera prospettiva del tempo: in questa abilità, ossia nell'arte di misurare la capacità edonistica delle nostre azioni, consiste la virtù. Di conseguenza, l'errore morale è da ritenere involontario: se la volontà è sempre diretta al bene in quanto causa della felicità cui tende ogni azione umana, è inconsciamente, per ignoranza del vero bene, che commettiamo il male, ossia per un “errore di calcolo”.

Per comprendere meglio il significato dell'impostazione edonistica del dialogo, che identifica il bene con il piacere e il male con il dolore, risulta utile interpretare i termini agathon e kakon attraverso l'analisi semantica del linguaggio morale sofistico. In base a questa, agathon non indica semplicemente il bene morale, ma ciò che è utile, conveniente, vantaggioso: quindi, non solo buono, ma buono a.., efficace, perciò desiderabile. Per kakon, al contrario, non s'intende solamente malvagio, ma anche inutile, inefficace, quindi dannoso, sfavorevole e non desiderabile. Per questo ciò che è

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bene, in quanto sommamente desiderabile per la sua efficacia pratica, si traduce immediatamente in prassi, e da ciò deriva la socratica identificazione della conoscenza del bene con la sua volontà e attuazione: chi conosce ciò che è bene, conoscendo qualcosa di utile, vantaggioso ed efficace quindi desiderabile, non può non volerlo e metterlo in pratica17.

3. «Felice è chi non ha bisogno di niente»18: l'autarkeia della virtù nel Gorgia

Poiché nel Gorgia si incontrano anche temi tipici dei dialoghi della maturità ma non ancora approfonditi, si è soliti collocarlo al confine fra dialoghi socratici e dialoghi della produzione platonica centrale. Tra i tanti argomenti, vi s'incontra come nel Protagora quello dell'identificazione del bene col piacere e del male col dolore. Tuttavia, il Gorgia si allontana nettamente dall'edonismo etico in quanto qui Socrate adotta sulla questione della felicità un'impronta ascetica che lo avvicina piuttosto al pensiero orfico-pitagorico. In questo luogo non è Socrate infatti a sostenere l'identificazione del bene col piacere e del male col dolore, ma il sofista Callicle, forse non una persona realmente esistita ma “inventato da Platone”, e molto vicino ad Antifonte e Trasimaco per l'avversione alla legge, considerata una violenza alla naturale sottomissione dei più deboli da parte dei più forti. Secondo il sofista, l’uomo è naturalmente portato a soddisfare i propri desideri, dal cui appagamento consegue la felicità, considerando, al contrario di quanto afferma Socrate, i temperanti gli individui massimamente infelici:

Come può essere felice un uomo che è schiavo di qualcuno? In tutta franchezza, il comportamento giusto e bello per natura si riduce a questo: chi vuol vivere bene deve lasciare che i suoi desideri crescano a dismisura, senza frenarli, e poi deve essere abbastanza coraggioso e intelligente da realizzarli, per grandi che siano; deve soddisfare qualunque capriccio gli salti in

17 Cfr. G. Cupido, op. cit., pp. 69 e sgg. 18 Platone, Gorgia 492e.

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testa. E’ chiaro che la massa non è capace di agire così: e talora criticano quelli che ci riescono, e dicono che l’intemperanza è una cosa riprovevole; ma la verità è che si vergognano e cercano di nascondere la loro incapacità. Te lo dicevo anche poco fa: la gente vorrebbe domare gli uomini che hanno doti naturali superiori; siccome non sono capaci di soddisfare i loro piaceri, predicano la temperanza e la giustizia. Ma prendi quelli che fin dall’inizio hanno avuto la fortuna di essere figli di re o quelli che con le loro doti si sono costruiti una posizione di potere e sono diventati re o tiranni: per questi uomini, in realtà, che cosa potrebbe essere più brutto della temperanza e della giustizia? Ma come? Possono avere tutto quello che vogliono, senza che nessuno glielo impedisca, e dovrebbero loro stessi imporsi un padrone e accettare le leggi della gente comune, le loro chiacchiere e le loro critiche? Non sarebbe una gran scalogna per loro vivere secondo giustizia e temperanza, che a te sembrano così belle? Non potrebbero in nessun modo favorire gli amici rispetto ai nemici, pur detenendo il potere nelle loro città? Visto

che dici di amare la verità, o Socrate, diciamola questa verità: la virtù e la felicità consistono nel lusso, nella sfrenatezza e nella libertà, a patto beninteso di poterla realizzare. Tutto il resto, le chiacchiere e le convenzioni umane contro natura, non sono che buffonate senza valore.

(Gorgia, 491e-492c) Socrate risponde al sofista ironicamente lodandone la sua tesi, ribadita in più punti del dialogo, secondo cui «il vivere felice consiste nell'aver tutte le passioni e nel soddisfarle piacevolmente» (494c):

Non senza nobiltà e con franchezza, Callicle, hai preso d'assalto il discorso: con tutta chiarezza dici quello che gli altri pensano, ma non osano dire. Ti prego, continua così, che risulti evidente come si debba vivere. Dimmi, tu sostieni che non bisogna ponga freni alle proprie

passioni chi vuol essere come si deve, bisogna anzi, lasciarle libere di espandersi, dando loro con ogni mezzo, piena soddisfazione, e che appunto in questo consiste la virtù? Non è esatto,

dunque, dire, che felici sono quelli che non hanno bisogni. (Gorgia, 492 d-e)

Secondo Callicle, solo uno stile di vita dissoluto, capace di soddisfare ogni tipo di desiderio senza porsi limiti, può rendere l'uomo felice. Ma Socrate ritiene tale esistenza una condanna all'inquietudine: soddisfare un desiderio non è altro che la momentanea cessazione di un dolore cui subentra un nuovo desiderio da appagare, in un ciclo senza fine, una disperata rincorsa a una serenità che non si riesce ad afferrare. Proprio come un orcio bucato che non si riempie mai, così l'anima desiderante non trova mai posa,

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poiché ad ogni bisogno soddisfatto ne corrisponde un altro. Per contro, Socrate propone uno stile di vita temperante, sostenendo in vista dell'eudaimonia la preferibilità del bene rispetto al piacere, e mostrando le conseguenze paradossali della posizione edonistica assunta da Callicle: identificare il male con il dolore e il bene con il piacere significa infatti affermare la contemporanea presenza di piacere e dolore, quindi di bene e male nella soddisfazione di un desiderio: ma ciò non è possibile in quanto la presenza del bene esclude quella del male, e viceversa19.

(l'aver fame) è doloroso. Mentre l'aver fame e mangiare è piacevole, (allora, quando) uno beve avendo sete prova dolore e piacere insieme. (Ma, poiché) è impossibile che uno stia bene e stia male ad un tempo, (mentre) è possibile che uno provi piacere essendo sofferente, (ne deriva che) il godere non è stare bene né il soffrire è stare male, di modo che il piacere è diverso dal bene. (Gorgia, 496d-497a)

Perché quindi perseguire il bene invece che il piacere, se, come abbiamo detto, l'uno non coincide con l'altro? Perché solo in presenza del bene siamo felici. Perseguire il bene rende l'uomo buono, e solo l'anima buona, in quanto ordinata e temperante, è felice. S’introduce così nel Gorgia quella che diventerà la tesi centrale della Repubblica, per cui la felicità è data dalla virtù dell'anima intesa non più come conoscenza ma come giustizia, ossia armonia intrapsichica. Una tesi che non può essere però in questo dialogo ulteriormente sviluppata, perché presuppone un'idea di anima complessa e conflittuale che trova nella Repubblica la sua prima teorizzazione20. Del resto, così

come la concezione psichica, anche il modello di vita proposto dal Socrate del Gorgia si allontana nettamente da quello della Repubblica: in quest’ultima Platone, riconsiderando l’anima come un’unità complessa, origine non solo della ragione ma anche delle passioni e i desideri, non nega le esigenze delle istanze irrazionali, ma ritiene necessario l’appagamento di ogni pulsione psichica nella giusta misura, quindi

19 Cfr. G. Cupido, op. cit., pp. 79-80. 20 Cfr. ivi, p. 81.

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sotto la giuda della ragione, al fine del benessere dell’anima intera. Perciò, il filosofo non propone uno stile di vita che allontana l’uomo dall’esperienza sensibile, quindi dalla sua emotività, reprimendo piaceri, desideri e passioni. Al contrario, l'idea centrale nel Gorgia è quella di un'anima che, in quanto razionalità, è felice quando riconciliata con se stessa, reprimendo la propria emotività: un’anima che fugge quindi dal mondo sensibile, secondo uno stile di vita che ricorda l'ascesi orfico-pitagorica. Nonostante quindi in questo dialogo si accenni l’idea di un’anima composta di diversi elementi (503), avvicinandosi alla psicologia complessa della Repubblica, si mantiene comunque molto forte il legame con la concezione socratica dell’anima razionale, che trova la sua maggior difesa nel Fedone: in questo luogo, la supremazia dell’anima, la sua identità con l’intelletto, la necessità di coltivarla e renderla il più possibile indipendente dal corpo, sono elementi che vengono enfatizzati molto21.

Ritornando alla considerazione del Gorgia, non possiamo perciò sentirci totalmente in disaccordo con Callicle nel considerare questo modello di vita non come la via per l'eudaimonia, ma per una vita anestetizzata, apatica, priva di dolore e sofferenza ma anche di passione e desiderio. Il sofista si oppone all’immagine socratica della felicità come una condizione statica, data dall’acquisizione dell’autonomia dai desideri esterni, come una botte non forata che raggiunge uno stato di pienezza e quiete. Egli replica infatti proponendo una concezione di felicità non statica ma dinamica, paragonando l’eudaimonia socratica allo stato degli esseri inanimati:

Non mi persuadi, Socrate. Quel tale che ha riempito i vasi una volta per tutte, poi non prova più nessun piacere. E’ come ti dicevo prima: una volta che li hai riempiti, poi vivi come un sasso, senza godere e senza soffrire. E invece il piacere della vita consiste in questo, in un flusso continuo di beni. (Gorgia, 494a-b)

21 Mi sono proposta confrontare la psicologia del Fedone e quella della Repubblica nel primo paragrafo

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Contrapponendosi all'ideale socratico di autosufficienza delle virtù, Callicle sostiene che la felicità si raggiunge soddisfacendo subito ogni desiderio. Perciò, anche il principio per cui «è meglio subire ingiustizia piuttosto che commetterla» viene da lui rigettato come tentativo dei più deboli per natura di sovvertire la legittimazione naturale dei più forti, in quanto capaci di soddisfare i propri piaceri, alla sopraffazione e al comando. La temperanza e la giustizia sono causa d'infelicità per coloro che, resi schiavi, vengono ostacolati nel loro diritto di esercitare il proprio potere a vantaggio degli amici, contro i nemici.

Questa “morale della sfrontatezza” proposta da Callicle non può non richiamare alla memoria le parole di Trasimaco nel I libro della Repubblica, per cui «la giustizia è l'utile del più forte». Come bene spiega Ferrari22, «secondo Trasimaco la giustizia

effettivamente consiste nell'osservanza delle leggi. (…)», ma «il positivismo giuridico si fonda, per il sofista, in un vero e proprio positivismo della forza, dal momento che coloro che stabiliscono le norme giuridiche sono i più forti. Dunque, chi detiene il potere (in quanto è il più forte) decide che cosa è giusto e lo fa nel proprio esclusivo interesse». Da notare, inoltre, è una certa affinità tra l'etica sofistica e la nietzschiana “morale degli schiavi”: come sappiamo, Nietzsche era profondamente avverso a Socrate, ritenendolo l'iniziatore della décadence occidentale pienamente compiuta col cristianesimo. Riteneva infatti che con l'equazione fra conoscenza, virtù e felicità, Socrate avesse distrutto l'istintualità propria della Grecia arcaica, inaugurando uno stile di vita che nega la vita stessa ed ergendosi a modello di un estremo razionalismo, che indicava con l'espressione sprezzante “superfetazione della logica”. Probabilmente, però, l'autarchia della virtù nel Gorgia, ovvero l'esaltazione di una vita ascetica all'insegna della negazione del piacere e della sfera istintuale umana, è da attribuire alla

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volontà platonica di sottolineare in modo estremo dei tratti propri del Socrate storico, al fine di combattere l'edonismo di Callicle23.

Come già in precedenza notato, Senofonte ci restituisce l'immagine di un Socrate più “umano”, meno distaccato dalla vita e più incline al godimento del piacere, seppur con moderazione: ma tale immagine risulta del resto anche nel Simposio platonico, dove Alcibiade dice di apprezzare il filosofo proprio per la sua capacità di fruire moderatamente delle passioni, non di eliminarle dalla sua vita. Del resto, Ferrari ci fa notare che lo stesso personaggio di Alcibiade è «la confutazione vivente della validità dell'intellettualismo socratico»24, poiché il giovane, nonostante abbia ascoltato gli

insegnamenti del maestro, si è poi fatto corrompere dagli «onori delle folle» (Simposio 216b): la conoscenza del bene non ne ha garantito per lui l'attuazione. Possiamo quindi leggere il Simposio anche nella chiave di una presa di distanza platonica dalla concezione monolitica dell'anima, e dalla conseguente visione “antitragica” dell'esistenza serena del saggio, data dall'identificazione di sapere e virtù. Platone svilupperà infatti una visione della psiche che non ne nega la complessità e conflittualità, ma la risolve nello stabilirsi di un rapporto armonico tra le sue parti. L'errore risulta sempre involontario, ma non, come sosteneva Socrate, a causa dell'ignoranza, bensì dell'assenza di armonia interiore. Se per Socrate è necessario sradicare la passione e il desiderio per la felicità, quest'ultima per Platone risulta invece dall'integrazione degli elementi inferiori dell'anima con la ragione.

Ritornando sul confronto tra Gorgia e Protagora, vorrei infine aggiungere una considerazione a proposito della concezione “aristocratica” della volontà incontrata nel secondo, che emerge anche nel primo. La volontà è aristocratica in quanto sempre e solo volontà del bene, mai del male ossia di un bene apparente: in presenza di quest'ultimo,

23 Cfr. M. M. Sassi, op. cit., pp. 159-160. 24 Cfr. ivi, p. 152.

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si desidera, e il desiderio esclude la volontà che al contrario sussiste sempre in presenza della conoscenza del bene, perché conoscere il bene significa volerlo e perseguirlo. La connessione tra conoscenza e volontà (del bene) emerge esplicitamente in un noto passo del Protagora, in cui Socrate si rivolge al sofista in questo modo:

L'opinione più diffusa sulla conoscenza è che essa non abbia forza e non sia in grado di guidare e comandare. Non solo la si considera tale, ma si pensa che, anche se è presente in un uomo, non è essa a comandare, ma qualche altra cosa: ora l'inclinazione, talvolta il piacere, talvolta il dolore, talvolta l'amore, spesso il timore, e si pensava volgarmente alla conoscenza come fosse uno schiavo, trascinata qua e là da tutto il resto. Sei anche tu di questo avviso o ritieni che la conoscenza sia una bella cosa e capace di dirigere l'uomo, per cui se uno conosce i beni e i mali, non può essere dominato da nient'altro al punto di fare cose diverse da quelle prescritte dalla conoscenza, e che l'intelligenza basti ad aiutare l'uomo? (Protagora, 352b-c)

Dall'analisi cui è sottoposto il concetto di volontà (boulesis) nel Gorgia risulta che solamente quando si fa davvero ciò che si vuole si può parlare appunto di volontà: e poiché ciò che si vuole è il bene, si fa ciò che si vuole solo in presenza del sapere. Fare ciò che ci pare non equivale, infatti, a fare ciò che si vuole. Per spiegare la differenza tra fare ciò che si vuole e ciò che ci pare, Socrate porta a Polo l'esempio dei retori e tiranni, che uccidono o allontanano un uomo credendo di avere sulla propria città il potere di cui sono privi, poiché arrecano loro stessi solo danni. Fanno cioè ciò che gli pare, ma ciò non coincide con l'oggetto della loro volontà, che è il proprio bene:

(…) retori e tiranni hanno piccolissimo potere nella città: nulla, se così possiamo dire, essi fanno di ciò che vogliono, ma solo ciò che ad essi sembra meglio, [e questo non significa avere potere perché] avere gran potere è un bene per chi sia potente. (…) e tu pensi che sia un bene per un uomo fare ciò che meglio gli sembra, se non ha intelletto? (…) retori e tiranni, che fanno nelle città quello che sembra loro meglio, con tale potere non possederanno alcun bene, se è vero che il potere è un bene, mentre fare senza intelletto quello che sembra, è un male.

(Platone, Gorgia, 467a)

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necessariamente legata alla conoscenza? L'argomentazione socratica prosegue nell'intenzione di chiarire questo snodo fondamentale, distinguendo lo scopo per cui si agisce dalle azioni che si compiono in vista di questo25. L'oggetto della volontà è

l'obiettivo, e per rendere ciò chiaro a Polo il filosofo utilizza l'esempio della medicina:

(...) ti pare che gli uomini vogliano di volta in volta ciò che fanno, oppure ciò al cui fine fanno ciò che fanno? Per esempio: coloro che bevono le medicine prescritte dai medici, ti pare che vogliano questo che fanno, oppure il fine per cui bevono la medicina, ossia avere buona salute? (…) e allora, cerchiamo sempre il bene, anche quando camminiamo, se camminiamo, perché riteniamo che questo sia meglio, e al contrario, quando stiamo fermi se stiamo fermi, lo facciamo sempre con lo stesso scopo, per il bene. (…) E così, anche uccidiamo, se uccidiamo, mandiamo in esilio, confischiamo i beni di qualcuno, ritenendo che per noi sia meglio fare questo che non farlo. (…) Chiunque agisce, insomma, fa quello che fa in vista del bene.

(Gorgia, 467c-468b)

4. La sophia di Medea

Fondamento dell'intellettualismo etico è una concezione della psyche come entità monolitica che esclude la possibilità dell'akrasia, l'errore morale dettato non dall'ignoranza ma dall'incapacità di contenere i propri impulsi irrazionali. Platone prende infatti le distanze dall'equazione di conoscenza e virtù, proponendo un'idea complessa di anima abitata anche da una componente desiderante e passionale, e ammettendo la possibilità che anche l'uomo saggio, l'ethos agathon, pur nella consapevolezza del bene possa agire nel senso opposto. Ma Platone non è il solo, nell'Atene della seconda metà del V secolo, a intravedere i limiti del pensiero socratico: anche l'esperienza intellettuale della tragedia euripidea, mettendo in scena la lacerazione dell'animo umano, assume un atteggiamento scettico rispetto al modello di individualità proposto da Socrate. Con le eroine della Medea e dell'Ippolito in particolare, ci troviamo di fronte a una forte presa di posizione contro l'intellettualismo etico e la sua concezione

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unitaria dell'animo umano. Medea e Fedra non ignorano la sofferenza che conseguirà per loro stesse dalle loro azioni, ed è a questa sophia26 che si riallaccia Platone

nell'elaborare un modello di personalità in cui la ragione non è solamente «la depositaria di una tragica consapevolezza, ma strumento funzionale alla riorganizzazione delle passioni in una forma di ordine»27.

So bene quanto male (kaka) sto per fare, ma la passione (thymos) domina sopra il mio volere (bouleumata): è la causa delle sciagure più grandi per i mortali.

(Euripide, Medea 1078-1080)

Con queste parole si esprime Medea, protagonista di un atroce delitto nell'omonima tragedia, rappresentata la prima volta ad Atene nel 431 a. C.: per mano sua, i figli avuti con Giasone periranno. Uccidere ciò che gli è più caro, distruggendo l'unico legame rimasto col marito, è il solo modo da lei concepito per vendicarsi del suo tradimento: ma è una decisione presa con sofferenza al termine di un serrato dialogo con e contro se stessa. Euripide infatti mette in scena la storia interiore dell'anima scissa e travagliata di Medea nella sua resistenza all'infanticidio progettato, non interessandosi tanto ai rapporti tra i personaggi quanto ad esasperarne la dimensione soggettiva.

Per cercare di capire le ragioni che hanno portato Medea a commettere l'infanticidio, condannando se stessa all'infelicità, può risultare utile soffermarsi sulla rappresentazione della protagonista data da Euripide. La complessità psicologica di Medea è uno dei tratti che più la caratterizzano all'interno della tragedia: non è possibile infatti definire il suo carattere o razionale o emotivo, essendo questi aspetti entrambi presenti nel profilo psicologico della protagonista. Se infatti in certi momenti della narrazione Medea parla con toni accesi in cui traspare tutta la sua emozionalità, in altri si presenta al lettore nei termini totalmente opposti di una mente analitica. Nella prima

26 Il tema della sophia qui accennato sarà oggetto di considerazione nel corso di questo paragrafo. 27 Cfr. G. Cupido, op. cit., p. 64.

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immagine che il tragediografo ce ne restituisce, la protagonista parla con frasi rotte dal dolore e dalla rabbia per il tradimento del marito, considerato da lei adesso “il peggiore degli uomini”. «Ho sofferto infelice, ho sofferto cose degne di grandi pianti» (vv. 111-12), dice al Coro, dando sfogo impulsivamente al suo stato d'animo. Eppure, nella donna che compare sulla scena poco dopo non c'è traccia di alcun sconvolgimento emotivo: al contrario, fa sfoggio di una capacità di autoanalisi con cui riesce a inquadrare le sue difficoltà in una dimensione generale, riconducendo la sua sventura allo stato d'inferiorità e sottomissione di ogni donna rispetto all'uomo: con l'aggravante, per lei, d'essere straniera e non poter godere degli stessi diritti delle donne di Corinto (vv. 214-16).

L'alternanza di momenti di estrema emotività con altri di estrema lucidità percorre tutta la tragedia, raggiungendo la sua massima espressione nel monologo in cui Medea, ferita nel suo onore, combatte contro l'impulso materno di risparmiare i propri figli. Due sono i momenti in cui la donna ritorna in sé, abbandonando l'onda emotiva che l'allontanava dal progetto dell'infanticidio. Riformulando l'omerica espressione “ma perché il mio cuore mi ha detto queste cose?”, Medea si domanda al v. 1049 «kaitoi tí paskhō?», “ma cosa mi succede?”, ritrattando il precedente abbandono dei suoi propositi (khaireto bouleumata, v. 1048). Ma non molto dopo, in un secondo momento di crisi invoca così il suo animo: «No certo, animo mio, non compiere tu questo atto! Lasciali, o misera, risparmia i tuoi figli!» (vv. 1056-7). Entrambi questi snodi sono seguiti dalla grande capacità autoriflessiva di Medea che le permette di controllare la sua emotività, richiamandosi in particolare al motivo della necessità della vendetta per difendere l'onore ferito. E' in questa capacità di controllo e analisi del proprio stato d'animo che consiste la sophia di Medea, cui precedentemente ho fatto cenno: per mezzo di essa la propria situazione presente «cessa ai suoi occhi di apparire qualcosa di

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meramente personale, e in uno sforzo estremo di autoriflessione ella arriva a vedere il suo caso come la manifestazione di un disagio che investe più generalmente la società del suo tempo»28. Notiamo infatti che quando nei versi 1078-1080 Medea si riferisce ai

suoi propositi e alla sua passione, parla dei primi utilizzando il possessivo “miei”, presentandoli come qualcosa di personale, mentre della seconda con l'articolo determinativo, presentando quindi lo thymos come una forza che la domina in quanto essere umano. Medea comprende che spesso la volontà di ogni uomo è dominata da forze rispetto a cui è inerme: capisce quindi, ancor prima di agire, l'inevitabilità dell'infanticidio come unica via d'uscita dalla sua situazione, e del destino di sofferenza che l'aspetta. La sua capacità di autoriflessione la porta a rendersi conto della «necessità cui la situazione oggettivamente porta»29, quindi dell'unica soluzione possibile: Medea

sceglie il suo destino di donna infelice, soffrendo le conseguenze delle sue azioni ancor prima di commetterle, perché sa che la sua vendetta si afferma in conflitto con un altro principio, quello dell'amore materno. La novità fondamentale introdotta da Euripide è infatti non tanto la messa in scena delle tensioni interne dell'eroina, quanto la consapevolezza che lei mostra di avere di esse, insieme alla coincidenza del suo agire con il soffrire30. A questo proposito si può notare infatti come all'interno della tragedia

alcuni termini abbiano una colorazione semantica ambivalente. Il verbo tolmaō, utilizzato nei vv. 1079-1080, esprime infatti sia qualcosa che non si dovrebbe fare, quindi un “osare”, sia un subire qualcosa che non si desidererebbe subire: quindi un agire come causa di sofferenza. Alla stessa radice di questo verbo appartengono altre espressioni, come l'aggettivo talaina, al v. 902, con cui Medea definisce se stessa “infelice”, utilizzato anche al v. 1244 in riferimento alla mano esortata contro i figli, e al v. 1057 dove l'animo è apostrofato dalla donna talan, “misero”. Anche il Coro fin

28 Cfr. Euripide, Medea, di Benedetto (a cura di), p. 15. 29 Cfr. ivi, p. 19.

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dall'inizio della tragedia associa la donna a questo aggettivo: inizialmente a proposito della sua condizione di straniera, alla lontananza dal padre e al tradimento di Giasone, per poi utilizzare lo stesso termine in riferimento al progetto che ella sta per compiere. Sono inoltre da segnalare, della stessa radice di tolmeo, anche i termini tlēmonestatēn e tlēmonesteran (v. 1067-68), rispettivamente “la strada che è la più sventurata” e “la strada che è ancora più sventurata”, con cui la donna si riferisce prima a se stessa e poi ai figli, in una evidente associazione della propria alla loro infelicità prossima31.

Ritornando a considerare la sophia di Medea, è interessante notare come questa assuma nel corso dell'opera una colorazione sinistra, da rapportare alle precedenti rappresentazioni mitiche della donna. Secondo quanto narrato negli Argonauti, infatti, Medea sarebbe in possesso di abilità magiche, utilizzate per aiutare Giasone a superare la prova nella Colchide. In un'altra tragedia di Euripide, le Peliadi del 455 a. C., Medea è presentata dall'inizio come una maga, ed anche nel poema ciclico dei Nostoi (fr. 6D) si connette la sapienza della donna con le sue abilità magiche. Questa relazione di Medea con la magia affiora anche in alcuni tratti dell'omonima tragedia, pur non essendo qui posta in primo piano: è uno sfondo, su cui si staglia la razionalità della protagonista. Tuttavia, questa razionalità le deriva dall'essersi inserita in una cultura, quella greca, che non le è propria: è quindi segno della stratificazione più recente di un personaggio in cui riemerge a tratti l'inquietante mondo magico-primitivo in cui è nata e si è formata, l'oriente barbarico. Le abilità magiche di Medea si vanno a intersecare, nella tragedia in questione, con la sua abilità di autoriflessione che assume di conseguenza, in alcuni momenti, dei tratti sinistri: come ad esempio, quando la protagonista definisce le donne esperte nel compiere azioni cattive, rapportando così la loro sophia alla malvagità; oppure quando Medea definisce la capacità di vendetta nei confronti dell'uomo un

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