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Sophia, Andreia, Sophrosyne: la giustizia nella «polis kata physin»

harmonia: dalla stasis al fragile equilibrio dell’oikeiopragia

2. Sophia, Andreia, Sophrosyne: la giustizia nella «polis kata physin»

Nel II libro della Repubblica Socrate propone di indagare il concetto di giustizia prima nella città, data la maggiore facilità di esaminarne le caratteristiche in un quadro più ampio, e in un secondo momento nel singolo individuo (367e-369b). A una prima forma di stato semplice e primitiva basata sull’incapacità di ciascuno di bastare a se stesso e sulla divisione dei compiti, ne segue una seconda forma complessa, dove vengono soddisfatte non solo le esigenze primarie del cittadino ma anche i bisogni non necessari. Questa seconda forma di organizzazione sociale, spiega Socrate, richiede necessariamente l’introduzione di una nuova categoria di cittadini che si dedichi al governo e alla difesa dello stato: i guardiani, tra cui vengono in seguito distinti gli archontes dagli epikouroi. Si introduce perciò il tema della loro educazione: poiché il guardiano deve essere sia guerriero che filosofo, in lui si devono incontrare mitezza e animosità, da coltivare tramite la musica e la ginnastica (369b-376e). Nel III libro è ulteriormente approfondito il tema dell’educazione dei guardiani: per coltivare nei loro animi il coraggio è necessario eliminare tutte quelle poesie e quelle favole che instillano la paura della morte, che rappresentano gli eroi o dèi nell’atto di soffrire e piangere o troppo inclini al riso. La musica infine deve sviluppare in loro la temperanza, perciò sono messe al bando anche le rappresentazioni di eroi intemperanti o avidi (386a-391c). L’unica forma letteraria concessa ai poeti è un misto tra imitazione e narrazione, la dizione, mentre il poeta imitativo viene espulso dallo stato: la sola imitazione è infatti concessa unicamente ai guardiani e solo per rappresentare l’uomo onesto (392c-398b). Sono inoltre escluse dall’educazione musicale del guardiano le armonie lamentose, molli e conviviali, lasciando spazio a quelle che inclinano alla fermezza e alla pace (398c-399d). Infine, l’educazione dell’anima è messa in stretto rapporto con quella del

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corpo: la ginnastica deve sviluppare maggiormente la forza morale di quella fisica, perciò Socrate insiste molto sulla necessità che l’esercizio fisico si cotemperi con la musica e viceversa, affinché si realizzi temperanza e coraggio nell’animo del guardiano (409d-412a). A conclusione del III libro, per chiarire i criteri di scelta dei guardiani, Socrate narra il mito della nascita degli uomini entro la terra, distinguendo la classe degli individui aurei da quelli argentei e bronzei: solo i primi saranno indirizzati a ricoprire il ruolo di governanti della città. Non vivranno nella ricchezza: avranno alloggi e pasti in comune, saranno mantenuti dal resto della cittadinanza e non potranno possedere alcun bene privato (414b-417b).

All’interno del IV libro della Repubblica il concetto di giustizia è elaborato prima a livello sociale, poi individuale. Coniando il termine oikeiopragia, Platone intende riqualificare sul piano politico e psicologico la tradizionale formula ta heautou prattein, quel “fare le proprie cose” che nel II libro indica il principio di divisione del lavoro sulla base delle competenze individuali. Oikeiopragia si connette invece con una corretta distribuzione dei compiti, da un lato tra le classi sociali, dall’altro tra le funzioni psichiche, che permetta ad ognuna di svolgere il proprio ruolo in modo corretto. La connessione del concetto di giustizia con il potere è introdotta da Trasimaco già nel I libro, identificando la dikaiosyne con ciò che le leggi prescrivono, quindi con l’utile dei più forti, che governano con l’unico fine di preservare il loro comando. In questo modo, la discussione della Repubblica si concentra fin da subito sul kratos, comportando nel IV libro la traduzione del problema sulla dikaiosyne nella questione sul ruolo di chi deve ricoprire il potere sia all’interno della polis che della psiche53.

Si introduce il problema della giustizia sociale all’interno di una discussione sulla felicità dei phylakes. Riferendosi a quanto detto da Socrate alla fine del III libro circa le

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condizioni di vita dei governanti, Adimanto sostiene che questi, non ricevendo alcun tipo di retribuzione, non possiedono i requisiti per una vita felice: se sua condizione è la ricchezza, gli uomini nelle cui mani Socrate ha messo il governo, non possedendo nessun bene, saranno infelici. Il filosofo risponde alla critica paragonando la distribuzione della ricchezza nella città a quella del colore su una scultura: per quest’ultima è la bellezza dell’intero e non delle singole parti che conta, che si ottiene distribuendo ogni colore in modo appropriato per un risultato globalmente ottimale. Così, la ricchezza sarà distribuita nella città non concentrandosi in una singola classe sociale, ma distribuendosi in ognuna nella giusta proporzione, in modo tale che i difensori possano «diventare i migliori possibili artefici della loro specifica funzione, e similmente tutti gli altri cittadini» (421c2-4). Per ognuno il giusto grado di ricchezza, quindi di benessere ad essa corrispondente: troppo denaro rende pigri, quindi meno produttivi, i technitai, così come la povertà stessa risulta controproducente. Ma soprattutto, ricchezza e povertà sono dannose per i difensori, perché responsabili di lusso e pigrizia da una parte, e servilismo ed inefficienza dall’altra. Il danno per la comunità in questo caso è infatti maggiore: quando i difensori delle leggi e della polis non sono più in grado di svolgere il proprio ruolo, la stasis ne è la sicura conseguenza. Non è quindi il denaro, il benessere, la felicità di una singola classe, né tantomeno della migliore, che bisogna avere come obiettivo, progettando la kallipolis: ma l’eudaimonia dell’intero, attraverso un’adeguata ripartizione dei beni tra le singole parti sociali. In questo modo, ognuna sarà in grado di svolgere il proprio compito in modo corretto ed eccellente, senza sovrapporsi ai ruoli altrui, e la felicità dell’intero, ripercuotendosi positivamente su ogni classe, renderà felice ciascun individuo.

Compito fondamentale dei difensori è vigilare sull’unità della città, vegliando che cresca senza frantumarsi al suo interno. E’ la stasis, la scissione, il pericolo maggiore

per la felicità della polis, al quale ovviare preservando un’adeguata distribuzione della ricchezza ai fini dell’oikeiopragia, insieme ad un’adeguata paideia incentrata sulla ginnastica e la musica. Bisogna iniziare a educare i phylakes da bambini con giochi “ben disciplinati” per non far maturare potenziali trasgressori delle leggi, procedendo nella loro formazione psichica con un’educazione musicale che instauri temperanza e li renda capaci di orientarsi al meglio in ogni situazione e rispetto ad ogni problema. Con il termine sophrosyne Platone intende sia una forma di enkrateia, ossia di autocontrollo o potere sulla propria persona, sia l’acquisizione del senso degli equilibri sociali: il risultato di una predisposizione naturale e di una formazione che prepari i ragazzi ad interiorizzare, da adulti, l’accettazione e il rispetto delle leggi. Tuttavia, la musica può formare anche potenziali trasgressori, perciò è necessario vigilare che non ne siano trasformati i contenuti introducendone di nuovi: come infatti, essa può plasmare gli animi all’autocontrollo, allo stesso tempo li può rendere intemperanti. Il pericolo di una cattiva melodia risiede però soprattutto nel suo scorrere, come un flusso di corrente, dall’individuo alle leggi e agli assetti costituzionali, sovvertendoli: «Non fa niente infatti, salvo che scivolando dentro a poco a poco si infiltra silenziosamente nei caratteri e nelle occupazioni; di qui, ingrossandosi, passa nei contratti privati e poi da essi si rivolge contro le leggi e gli assetti costituzionali, con grande insolenza, Socrate, senza

arrestarsi finché non abbia sovvertito tutto nel privato e nel pubblico» (424d7e3). Dopo una discussione sulla tipologia legislativa adatta alla kallipolis, la sua

fondazione appare compiuta. Dove rintracciarvi la giustizia e l’ingiustizia? Da quale delle due consegue la felicità? Prima dell’anima nella sua complessità, è infatti la città ad essere esaminata nelle sue tre classi sociali, individuando per ognuna la rispettiva arete. Vi è una stretta relazione tra le loro tre virtù e la giustizia: questa viene infatti descritta più avanti come, da una parte, «ciò che assicura alle altre virtù la possibilità di

svilupparsi, e una volta sviluppate ne garantisce la salvaguardia finché ne è presente» (433b), dall’altra però, rovesciando questo rapporto, come ciò che è assicurata dalla pratica delle virtù, quindi loro conseguenza. In seguito, individuando queste stesse aretai nell’anima (con le dovute spiegazioni riguardo al parallelismo tra città e anima) la discussione verte sulla ricerca della giustizia intrapsichica.

Si procede mediante il principio di esclusione. Se la città che abbiamo costruito è correttamente formata dev’essere perfettamente buona: di conseguenza non può che essere sapiente, coraggiosa, moderata e giusta. Ammesso, senza una chiara spiegazione, che tutte le virtù si esauriscano in queste quattro, individuando le prime tre non potremo che identificare la giustizia. Cos’è quindi la sophia? Da intendere in senso epistemico e intellettuale, si distingue dalla sophrosyne, moderazione o temperanza: si tratta di una scienza che permette di deliberare in vista del bene e della felicità della città intera, e che sia anche in grado di stabilirne il giusto rapporto con le altre polis. Una capacità di governare in difesa dell’unità e del benessere interno alla città, e di proteggerla contro i nemici esterni: coloro che la possiedono sono chiamati infatti “perfetti difensori”. Grazie all’educazione musicale, gli archontes introiettano quell’armonia che li predispone ad accogliere la legge, rispettandola e difendendola: il loro naturale equilibrio interiore rafforzato dalla mousikè è condizione della loro capacità di realizzarlo nella città, che risulta sapiente quando i suoi archontes lo sono.

Definita da Socrate come euboulia, ossia capacità di deliberare giustamente in materia politica, e da Adimanto come episteme phylakike (428d), scienza della difesa e protezione della città, la sapienza, pur appartenendo a un solo ceto, rende tale la città intera. Tuttavia, non si può parlare ancora di quella conoscenza che nel libro V include l’idea di bene, fondamento ontologico della sophia: nel libro IV si tratta di un sapere pratico-politico finalizzato al benessere della città, quindi alla cura dei rapporti interni

tra cittadini e a quelli nei confronti delle altre città. Si sottolinea più volte l’esiguo numero di coloro che, individuati all’interno del gruppo dei phylakes, vengono distinti dai guerrieri epikouroi: gli archontes infatti sono «pochissimi» (428e5) e la loro, insiste Socrate, è «una stirpe per natura piccolissima» (428e7, 429a1). Questo è dovuto alla difficile convergenza a loro richiesta di elevate doti intellettuali e morali, che garantiscono loro la capacità di agire in vista del bene dell’intera città. Tuttavia, perché ciò sia possibile si devono presentare determinate condizioni. Prima di tutto una struttura psicologica naturalmente armonica, in cui il logistikon presiede al buon funzionamento dell’anima intera collaborando con le altre funzioni psicologiche; in secondo luogo, è necessaria un’educazione che, improntata sulla ginnastica e sulla musica, contribuisca a modellare l’animo predisponendolo all’interiorizzazione e al rispetto della legge; infine, la rinuncia al possesso di beni privati. Non è detto, precisa Platone, che un’eccellente struttura psichica innata, insieme a una condizione sociale povera, rimangano stabili e immutate nel tempo. Tratto caratteristico della struttura psicologica umana è la sua connaturata fragilità: ne deriva che le classi delineate in base alla physis non sono statiche e chiuse in se stesse, e che non si tratta di un sistema a trasmissione ereditaria dei ruoli sociali.

Grazie dunque al suo gruppo e alla sua parte più piccola, e alla scienza che vi risiede - a ciò che esercita il comando ed il potere – la città fondata secondo natura risulterà nel suo insieme sapiente; ed è questa, a quanto sembra, la stirpe per natura più piccola, cui spetta di condividere questa scienza che sola fra tutte dev’essere chiamata sapienza.

(Platone, Repubblica, 428e7-429a2) Polis kata physin, “città fondata secondo natura”: così è definita la kallipolis, al termine

dell’argomentazione relativa alla sophia degli archontes54

. Si vuole quindi sottolineare che questa città è organizzata sulla corrispondenza tra le strutture psichiche e le

54 Per la trattazione della sophia in relazione alla classe degli archontes, cfr. in Platone, La Repubblica,

conseguenti doti naturali individuali da un lato, e le differenti classi sociali con le loro specifiche attività lavorative dall’altro. Il posto di ciascuno all’interno della società è assegnato unicamente sulla base delle proprie capacità: il criterio distributivo non è più la ricchezza, la forza o la nascita, né infine il numero.

La seconda virtù presa in considerazione è l’andreia, il coraggio55. Appartiene, come la sapienza, ad uno specifico gruppo sociale, che transitivamente rende coraggiosa l’intera città: sono i guerrieri, gli epikouroi, pur essendo il coraggio il principale carattere di tutto il gruppo dei phylakes. Si tratta di «coraggio politico» (430c3-4), afferma Socrate, che si scosta nettamente dalla omerica virtù dell’eroe, l’audacia in battaglia di fronte ad una morte probabile. L’andreia è piuttosto legata alla conoscenza, alla capacità di calcolo, di analisi dei pro e contro in ogni situazione e alla prudenza che ne deriva: non più incoscienza data dalla convinzione della propria superiorità, ma scelta consapevole prodotta dalla riflessione. Nel suo saggio Andreia/thymoeides F. Calabi nota come la distinzione tra queste due tipologie si incontri già in Tucidide, sottolineando come nel II libro lo storico attribuisca l’andreia, come qualità dell’animo, ai guerrieri spartani, mentre come sapere e calcolo agli ateniesi: perché costoro in guerra, prima di avventarsi sul nemico, ne studiavano i punti di forza e di debolezza. Lo studioso nota inoltre che già con Erodoto è in atto un processo di “intellettualizzazione del coraggio” in cui Platone si inserisce, oltre che nella Repubblica, anche nel Lachete. In questo luogo, la virtù in questione è associata a termini quali episteme, phronesis e sophia: se ne mette in rilievo la sua connessione con il sapere piuttosto che con l’irrazionalità del furore guerriero propria dell’eroe omerico, anticipandone le posizioni della Repubblica.

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Il coraggio è «una forza capace di salvaguardare in ogni circostanza l’opinione circa le cose da temere - che cioè siano esattamente quelle e di quel genere che il legislatore aveva prescritto nel corso dell’educazione» (429c). Tale virtù consiste quindi nella capacità di non deviare dalla norma stabilita dai legislatori, non solo in situazioni di guerra ma in ogni circostanza che suscita in noi piaceri, dolori, desideri o paure. Si tratta di una forma di autocontrollo, che si può confondere con il concetto di sophrosyne come enkrateia: tuttavia, mentre quest’ultima esercita una forza di comando e freno direttamente sui comportamenti, l’andreia agisce sulle opinioni, essendo suo scopo il tenere costante nel tempo il pensiero della legge su com’è giusto agire. Non è una capacità universale, quella di mantenere salda sempre e comunque l’opinione della legge. Pochi sono infatti gli uomini che posseggono la physis adatta ad accogliere la legislazione, modellando inoltre la propria anima con una paideia ginnica e musicale che rende possibile l’interiorizzazione del nomos. Per spiegare questo passaggio Platone paragona le anime a panni bianchi (429d-430c): come questi devono essere trattati in modo tale che la tintura rossa, una volta applicata, non sbiadisca, così le anime dei guerrieri, già per natura predisposte ad accogliere e difendere la legislazione, devono essere accuratamente modellate perché vi si impregnino le leggi. La physis adeguata è necessaria ma non sufficiente: dovrà essere accompagnata da un’altrettanto adeguata trophe.

Tu sai, dissi, che i tintori, quando desiderano tingere lane per farle diventare purpuree, prima scelgono dalla massa di colori un’unica specie, i colori bianchi; poi le sottopongono a un lavoro preparatorio trattandole accuratamente, per far loro ricevere il colore più vivo possibile; e solo allora le tingono. E quale sia l’oggetto tinto così, la stoffa tinta non può più stingersi e il lavaggio, con o senza detersivi, non può toglierne vivezza. Ma le stoffe che non vengono tinte così, tu sai come diventano senza cure preliminari, si tingano in altri colori o anche in bianco. (...)Supponi dunque, ripresi, che pure noi facessimo, come potevamo, un simile lavoro quando sceglievamo i soldati e li educavamo con la musica e la ginnastica; pensa che non avevamo altro

intento se non che si persuadessero a ricevere nel migliore modo possibile le leggi nostre, come una tintura, affinché la loro natura e l’educazione adatta rendessero indelebile la loro opinione sulle cose temibili e le altre, e che la tintura non venisse stinta da quei terribili detersivi quali sono il piacere (che a produrre questi effetti è più terribile di qualsiasi calastrea e lisciva), il dolore, la paura e la brama, che sono più terribili di ogni altro detersivo. Ora, disporre di un tale potere e salvaguardare costantemente la retta e legittima opinione sulle cose temibili e non temibili, io lo chiamo e lo considero coraggio, se non hai obiezioni da fare. (429d5-430b6)

Essendo una forma di sapere instaurata tramite l’educazione alla legge, il coraggio che nasce senza paideia è proprio di bestie e schiavi, e non se ne può parlare in senso appropriato.

Se sapienza e coraggio appartengono rispettivamente agli archontes e agli epikouroi, che, transitivamente, rendono tale l’intera città, lo stesso non si può dire della sophrosyne56. Questa virtù racchiude in sé due diversi significati, passando dall’essere qualità propria di un solo gruppo, ad attraversare tutte e tre le classi sociali. Vi sono, spiega Socrate, «desideri semplici e misurati, accompagnati da opinione corretta e soggetti alla guida del ragionamento, che troverai in pochi: quelli di natura migliore e di migliore educazione» (431c4-7): quando sono costoro a governare nella città, sui desideri molteplici e di varia natura di donne, servi, bambini, e technitai, allora la polis la si potrà definire moderata, più forte di se stessa dato il dominio della parte “migliore” su quella “peggiore”. In questa accezione la sophrosyne, come una forma di ordine (kosmos) e moderazione, ossia padronanza su certi piaceri e desideri (enkrateia), è descritta nella città in parallelo alla sua realizzazione nell’anima. Come per la città si dice che è temperante, “più forte di se stessa” quando la parte migliore governa sulla peggiore, e viceversa intemperante e più debole di se stessa in caso contrario; allo stesso modo nell’anima di colui che è temperante, l’elemento migliore per natura, il logistikon, comanda su quello peggiore, l’epithymetikon.

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La sophrosyne è già presente nell’Iliade e nell’Odissea, dove la conoscenza dei propri limiti, quindi il rispetto del proprio ruolo nei confronti degli dèi è una qualità molto apprezzata, di cui è depositaria la divinità di Apollo. Lo stesso tempio di Delfi, secondo la tradizione, sulla facciata aveva iscritto “conosci te stesso”, gnothi seauton: un avvertimento a non andare oltre i propri limiti, a non cadere nell’eccesso sfidando le proprie potenzialità umane. Tuttavia, essa risulta ancora subordinata alle qualità guerriere dell’eroe, e solo dal VII secolo il valore della moderazione inizia ad assumere una maggiore importanza, evidente anche nelle massime dei Sette Sapienti incentrate sul disprezzo dell’eccesso e l’equilibrio tra il troppo e il poco. Con la tragedia di Eschilo, inoltre, la sophrosyne diviene virtù cardine, arricchendosi del significato di rispetto, da parte del cittadino ateniese, delle leggi della città. Euripide, invece, ne traccia una connotazione diversa, ereditata dalla filosofia platonica: non si tratta più di rapportarla alla hybris, la superbia dell’uomo che vuole sfidare i propri limiti usurpando il ruolo degli dèi. La sophrosyne si riferisce qui ad una forma di potere sugli impulsi desideranti e passionali, assente nei protagonisti delle tragedie: il dramma delle eroine euripidee risiede proprio nella loro incapacità di gestire le forze che le abitano, quindi nell’assenza di enkrateia. Quando Platone nel IV libro della Repubblica parla della sophrosyne come moderazione, sottintende la presenza nell’anima di quel conflitto di forze che caratterizza Medea e Fedra, individuandone nella virtù suddetta la ricomposizione armonica. L’enkrateia consiste in uno sforzo di collaborazione e gestione da parte della ragione delle forze appetitive e passionali, presupponendo quindi