• Non ci sono risultati.

Fondamento dell'intellettualismo etico è una concezione della psyche come entità monolitica che esclude la possibilità dell'akrasia, l'errore morale dettato non dall'ignoranza ma dall'incapacità di contenere i propri impulsi irrazionali. Platone prende infatti le distanze dall'equazione di conoscenza e virtù, proponendo un'idea complessa di anima abitata anche da una componente desiderante e passionale, e ammettendo la possibilità che anche l'uomo saggio, l'ethos agathon, pur nella consapevolezza del bene possa agire nel senso opposto. Ma Platone non è il solo, nell'Atene della seconda metà del V secolo, a intravedere i limiti del pensiero socratico: anche l'esperienza intellettuale della tragedia euripidea, mettendo in scena la lacerazione dell'animo umano, assume un atteggiamento scettico rispetto al modello di individualità proposto da Socrate. Con le eroine della Medea e dell'Ippolito in particolare, ci troviamo di fronte a una forte presa di posizione contro l'intellettualismo etico e la sua concezione

unitaria dell'animo umano. Medea e Fedra non ignorano la sofferenza che conseguirà per loro stesse dalle loro azioni, ed è a questa sophia26 che si riallaccia Platone

nell'elaborare un modello di personalità in cui la ragione non è solamente «la depositaria di una tragica consapevolezza, ma strumento funzionale alla riorganizzazione delle passioni in una forma di ordine»27.

So bene quanto male (kaka) sto per fare, ma la passione (thymos) domina sopra il mio volere (bouleumata): è la causa delle sciagure più grandi per i mortali.

(Euripide, Medea 1078-1080)

Con queste parole si esprime Medea, protagonista di un atroce delitto nell'omonima tragedia, rappresentata la prima volta ad Atene nel 431 a. C.: per mano sua, i figli avuti con Giasone periranno. Uccidere ciò che gli è più caro, distruggendo l'unico legame rimasto col marito, è il solo modo da lei concepito per vendicarsi del suo tradimento: ma è una decisione presa con sofferenza al termine di un serrato dialogo con e contro se stessa. Euripide infatti mette in scena la storia interiore dell'anima scissa e travagliata di Medea nella sua resistenza all'infanticidio progettato, non interessandosi tanto ai rapporti tra i personaggi quanto ad esasperarne la dimensione soggettiva.

Per cercare di capire le ragioni che hanno portato Medea a commettere l'infanticidio, condannando se stessa all'infelicità, può risultare utile soffermarsi sulla rappresentazione della protagonista data da Euripide. La complessità psicologica di Medea è uno dei tratti che più la caratterizzano all'interno della tragedia: non è possibile infatti definire il suo carattere o razionale o emotivo, essendo questi aspetti entrambi presenti nel profilo psicologico della protagonista. Se infatti in certi momenti della narrazione Medea parla con toni accesi in cui traspare tutta la sua emozionalità, in altri si presenta al lettore nei termini totalmente opposti di una mente analitica. Nella prima

26 Il tema della sophia qui accennato sarà oggetto di considerazione nel corso di questo paragrafo. 27 Cfr. G. Cupido, op. cit., p. 64.

immagine che il tragediografo ce ne restituisce, la protagonista parla con frasi rotte dal dolore e dalla rabbia per il tradimento del marito, considerato da lei adesso “il peggiore degli uomini”. «Ho sofferto infelice, ho sofferto cose degne di grandi pianti» (vv. 111- 12), dice al Coro, dando sfogo impulsivamente al suo stato d'animo. Eppure, nella donna che compare sulla scena poco dopo non c'è traccia di alcun sconvolgimento emotivo: al contrario, fa sfoggio di una capacità di autoanalisi con cui riesce a inquadrare le sue difficoltà in una dimensione generale, riconducendo la sua sventura allo stato d'inferiorità e sottomissione di ogni donna rispetto all'uomo: con l'aggravante, per lei, d'essere straniera e non poter godere degli stessi diritti delle donne di Corinto (vv. 214-16).

L'alternanza di momenti di estrema emotività con altri di estrema lucidità percorre tutta la tragedia, raggiungendo la sua massima espressione nel monologo in cui Medea, ferita nel suo onore, combatte contro l'impulso materno di risparmiare i propri figli. Due sono i momenti in cui la donna ritorna in sé, abbandonando l'onda emotiva che l'allontanava dal progetto dell'infanticidio. Riformulando l'omerica espressione “ma perché il mio cuore mi ha detto queste cose?”, Medea si domanda al v. 1049 «kaitoi tí paskhō?», “ma cosa mi succede?”, ritrattando il precedente abbandono dei suoi propositi (khaireto bouleumata, v. 1048). Ma non molto dopo, in un secondo momento di crisi invoca così il suo animo: «No certo, animo mio, non compiere tu questo atto! Lasciali, o misera, risparmia i tuoi figli!» (vv. 1056-7). Entrambi questi snodi sono seguiti dalla grande capacità autoriflessiva di Medea che le permette di controllare la sua emotività, richiamandosi in particolare al motivo della necessità della vendetta per difendere l'onore ferito. E' in questa capacità di controllo e analisi del proprio stato d'animo che consiste la sophia di Medea, cui precedentemente ho fatto cenno: per mezzo di essa la propria situazione presente «cessa ai suoi occhi di apparire qualcosa di

meramente personale, e in uno sforzo estremo di autoriflessione ella arriva a vedere il suo caso come la manifestazione di un disagio che investe più generalmente la società del suo tempo»28. Notiamo infatti che quando nei versi 1078-1080 Medea si riferisce ai

suoi propositi e alla sua passione, parla dei primi utilizzando il possessivo “miei”, presentandoli come qualcosa di personale, mentre della seconda con l'articolo determinativo, presentando quindi lo thymos come una forza che la domina in quanto essere umano. Medea comprende che spesso la volontà di ogni uomo è dominata da forze rispetto a cui è inerme: capisce quindi, ancor prima di agire, l'inevitabilità dell'infanticidio come unica via d'uscita dalla sua situazione, e del destino di sofferenza che l'aspetta. La sua capacità di autoriflessione la porta a rendersi conto della «necessità cui la situazione oggettivamente porta»29, quindi dell'unica soluzione possibile: Medea

sceglie il suo destino di donna infelice, soffrendo le conseguenze delle sue azioni ancor prima di commetterle, perché sa che la sua vendetta si afferma in conflitto con un altro principio, quello dell'amore materno. La novità fondamentale introdotta da Euripide è infatti non tanto la messa in scena delle tensioni interne dell'eroina, quanto la consapevolezza che lei mostra di avere di esse, insieme alla coincidenza del suo agire con il soffrire30. A questo proposito si può notare infatti come all'interno della tragedia

alcuni termini abbiano una colorazione semantica ambivalente. Il verbo tolmaō, utilizzato nei vv. 1079-1080, esprime infatti sia qualcosa che non si dovrebbe fare, quindi un “osare”, sia un subire qualcosa che non si desidererebbe subire: quindi un agire come causa di sofferenza. Alla stessa radice di questo verbo appartengono altre espressioni, come l'aggettivo talaina, al v. 902, con cui Medea definisce se stessa “infelice”, utilizzato anche al v. 1244 in riferimento alla mano esortata contro i figli, e al v. 1057 dove l'animo è apostrofato dalla donna talan, “misero”. Anche il Coro fin

28 Cfr. Euripide, Medea, di Benedetto (a cura di), p. 15. 29 Cfr. ivi, p. 19.

dall'inizio della tragedia associa la donna a questo aggettivo: inizialmente a proposito della sua condizione di straniera, alla lontananza dal padre e al tradimento di Giasone, per poi utilizzare lo stesso termine in riferimento al progetto che ella sta per compiere. Sono inoltre da segnalare, della stessa radice di tolmeo, anche i termini tlēmonestatēn e tlēmonesteran (v. 1067-68), rispettivamente “la strada che è la più sventurata” e “la strada che è ancora più sventurata”, con cui la donna si riferisce prima a se stessa e poi ai figli, in una evidente associazione della propria alla loro infelicità prossima31.

Ritornando a considerare la sophia di Medea, è interessante notare come questa assuma nel corso dell'opera una colorazione sinistra, da rapportare alle precedenti rappresentazioni mitiche della donna. Secondo quanto narrato negli Argonauti, infatti, Medea sarebbe in possesso di abilità magiche, utilizzate per aiutare Giasone a superare la prova nella Colchide. In un'altra tragedia di Euripide, le Peliadi del 455 a. C., Medea è presentata dall'inizio come una maga, ed anche nel poema ciclico dei Nostoi (fr. 6D) si connette la sapienza della donna con le sue abilità magiche. Questa relazione di Medea con la magia affiora anche in alcuni tratti dell'omonima tragedia, pur non essendo qui posta in primo piano: è uno sfondo, su cui si staglia la razionalità della protagonista. Tuttavia, questa razionalità le deriva dall'essersi inserita in una cultura, quella greca, che non le è propria: è quindi segno della stratificazione più recente di un personaggio in cui riemerge a tratti l'inquietante mondo magico-primitivo in cui è nata e si è formata, l'oriente barbarico. Le abilità magiche di Medea si vanno a intersecare, nella tragedia in questione, con la sua abilità di autoriflessione che assume di conseguenza, in alcuni momenti, dei tratti sinistri: come ad esempio, quando la protagonista definisce le donne esperte nel compiere azioni cattive, rapportando così la loro sophia alla malvagità; oppure quando Medea definisce la capacità di vendetta nei confronti dell'uomo un

motivo di vanto per la donna, che viene indicata con l'epiteto omerico del dio Ares miaiphonos, “distruttrice degli uomini” (vv. 263-66)32.

Anche M. M. Sassi nel suo articolo Storia d'onore e di eros,33 sottolinea

l'emergere di uno sfondo mitico-primitivo nel personaggio di Medea, e come questo si rifletta sulla sua sophia in modo non irrilevante. La studiosa nota infatti come a tratti lo spettatore si confronti con una donna estremamente razionale, fredda e calcolatrice, totalmente compenetrata dalla cultura greca di cui condivide i valori, tra cui quello della vendetta. Tuttavia, ella mette anche in risalto come vari siano nel corso dell'opera i riferimenti alle capacità magiche di Medea, che connotano negativamente il suo sapere attribuendole una malvagità inquietante e una potenza sinistra arcaica. Se lo spettatore inizialmente tende a inquadrare la donna nel mondo greco in cui si muove e da cui è compenetrata, rimane la percezione che l'identità di Medea non possa ridursi a ciò: che un aspetto della sua personalità, sopito da tempo, tenti di riemergere lentamente alla luce per poi esplodere violentemente nell'infanticidio. E' come se la protagonista avesse represso una parte di sé assimilandosi totalmente a Giasone, e rinnegando così la propria identità ha fatto dipendere totalmente il senso della sua persona dal proprio partner. Questo sembra emergere dal modo in cui ella si riferisce al loro passato insieme: anche se non si nomina mai la parola “amore”, e nessuno dei termini da lei usati contengono la radice semantica di questo termine34, «tutto racconta di una donna

che ha messo la sua sophia a servizio di un uomo amato»35, quell'uomo «nel quale c'era

tutto per lei» (Medea, vv. 228-9). Con l'abbandono di Giasone Medea non si sente semplicemente abbandonata da suo marito: ciò che scatena la tempesta emotiva è la percezione di perdere, insieme a lui, il senso di sé ormai totalmente assimilato all'uomo

32 Cfr. ivi, pp. 19-22.

33 Cfr. M. M. Sassi, Storia d'onore e di eros, in Emozioni, corpi, conflitti, Vinzia fiorino e Alessandra

Fussi (a cura di), ETS, Pisa 2016.

34 Cfr. Euripide, op. cit., pp. 47-62.

e da lui dipendente. Il suo amore per Giasone si declina perciò in un forte sentimento di gelosia possessiva, un attaccamento morboso: grande è quindi la paura di perderlo e sprofondare in un vuoto esistenziale, immensa è la sua reazione quando questo accade. E' infatti possibile spiegare un atto tanto devastante per una madre quale l'assassinio dei propri figli solo con il sentimento di vergogna per l'onore ferito, e quindi con la necessità di vendicarsi? Risulta utile rivalutare l'emozione dell'eros nella declinazione sopra detta come forza motrice principale dell'animo della protagonista, senza negare il ruolo dei sentimenti di ira e vendetta. Molteplici sono le emozioni con cui Medea reagisce al comportamento del marito: tra queste rabbia, dolore, orgoglio ferito hanno un ruolo importante, ma sono «parte di una sindrome emozionale il cui nucleo è la gelosia possessiva, il timore di perdere, con l'allontanamento del partner, il senso di sé»36. Consegue perciò all'abbandono di Giasone, l'esplosione del suo io arcaico

violento, che da tempo sopito, necessita di riaffermarsi trascinando la madre verso l'atto autodistruttivo dell'infanticidio.