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Thymos e thymoeides nelle Legg

Il conflitto psichico nelle Legg

I. Razionalità e irrazionalità nella Repubblica e nelle Leggi: enkrateia e akrasia

2. Thymos e thymoeides nelle Legg

Come nella Repubblica, anche nell’ultima opera di Platone l’anima è concepita

come un’entità complessa, in cui ragione e irrazionalità si rapportano in modo conflittuale, e la stasis tra psiche e soma è definitivamente ricondotta all’interno della psiche stessa. Fondamentale resta il problema di una continuità tra la Repubblica e le Leggi per quanto riguarda la psicologia tripartita, se cioè sia possibile individuare anche

nell’ultimo scritto platonico un ruolo autonomo dello thymoeides, oppure se questo venga assimilato alla sfera irrazionale delle emozioni, perdendo la funzione positiva che lo contraddistingue nella Repubblica. Qui infatti, come già osservato precedentemente, Platone riserva allo thymoeides una funzione fondamentale: da esso e dalla sua forza mediatrice e integratrice dipende la possibilità di risolvere o meno il conflitto interiore. La sua presenza è quindi la condizione essenziale della possibilità di concepire la virtù come armonia: non basta la conoscenza per essere saggi, ma è necessaria una riconciliazione tra le forze intrapsichiche, ricomposte in unità. Come nella Repubblica, anche nelle Leggi la saggezza non si identifica più con la conoscenza, ma con una differenza: se da un lato non è più sufficiente la conoscenza, coerentemente con la concezione di un’anima complessa, dall’altra non si parla di virtù come armonia ma nei termini di coordinazione tra ragione e emozioni, e di vizio come assenza di tale coordinazione. In particolare, incontriamo queste concezioni di virtù e vizio all’inizio del II libro delle Leggi, parlando del ruolo dell’educazione sui bambini:

(...) cosa intendiamo per una corretta educazione. (...) Bene, io sostengo che le prime sensazioni che si offrono ai bambini sono di piacere e dolore e che sono queste le forme con cui la virtù e il vizio si presentano per la prima volta all’anima, mentre per quanto riguarda la saggezza e le opinioni vere e salde è già una fortuna se si affacciano anche solo nella vecchiaia (...). Intendo appunto la prima acquisizione della virtù da parte dei fanciulli; e se piacere, amicizia, odio si producono correttamente nelle anime prima che possiedano la ragione, e se una volta acquisita la ragione, concordano con essa nel riconoscere di aver contratto buone abitudini grazie a pratiche ad essa corrispondenti, questa concordia rappresenta la totalità della virtù; e se col ragionamento ritagli la funzione che riguarda la corretta formazione relativamente ai piaceri e ai dolori grazie alla quale odiamo subito dal principio sino alla fine ciò che dobbiamo odiare e amiamo ciò che dobbiamo amare, e a tale funzione assegni il nome di «educazione», ecco che a mio giudizio dai una definizione corretta. (653a-c)

Il tema della virtù è nelle Leggi, come nella Repubblica, strettamente legato a quello dell’educazione: compito di quest’ultima, nell’ultimo dialogo di Platone, è abituare i

bambini, privi di ragione, ad amare ciò che merita di essere amato e odiare ciò che merita di essere odiato, formando anime capaci da adulte di seguire il sacro filo d’oro della ragione, ossia di rispettare le direttive della legge. Educazione e legge: con queste si risponde al problema del conflitto intrapsichico, nei termini non di ricomposizione ma di accordo, come controllo e obbedienza delle passioni ai dettami della razionalità. Sempre nel II libro delle Leggi, incontriamo l’affermazione di tale legame tra virtù come accordo e paideia:

(...) l’educazione consiste nell’attrarre e nel condurre il fanciullo verso il principio che la

legge dichiara giusto (...); e dunque affinché l’anima del fanciullo non si abitui a sperimentare gioie e dolori contrari alla legge e a coloro che vi si attengono, ma nel gioire e nel soffrire si uniformi a ciò che è causa di gioia e dolore anche per i vecchi, a tal fine quelli che chiamiamo canti in realtà sono ora diventati incantamenti dell’anima studiati in vista dell’accordo di cui stiamo parlando, e dal momento che le anime dei giovani non sono in grado di sopportare un vero impegno, si parla di giochi e di canti e questi si praticano, allo stesso modo che ai malati e a quanti sono fisicamente debilitati coloro che li accudiscono cercano di somministrare il cibo adatto sotto forma di manicaretti e bevande gradevoli e quello nocino sotto un aspetto repellente, di modo che si abituino ad affezionarsi al primo e a detestare giustamente il secondo. (659d-660a5)

Vi sono altri luoghi nel II libro dove si parla della relazione tra razionalità ed emozioni nei termini di accordo, senza contemplare la possibilità di una ricomposizione dell’anima ma pensando alla sfera irrazionale come una forza che la ragione deve tenere sotto controllo, essendo le emozioni qualcosa da educare e addolcire. Il filo d’oro della ragione ha infatti il compito di ammansire, rendendoli ordinati, i fili ribelli dei piaceri e dolori, ossia, come si deduce dai passi sopra citati, di educare l’uomo a soffrire e godere come, quando e per chi si deve. Inoltre, anche nel III libro si parla del rapporto tra ragione ed emozioni nei termini sopra detti di controllo, da parte della prima, sulle seconde. In particolare, nel passo che segue l’ateniese si sofferma sul concetto di ignoranza come mancata realizzazione di tale rapporto:

Qual è dunque quella che si può legittimamente definire la più grande ignoranza? (...) Quella per cui qualcuno, pur ritenendo qualcosa bella e buona, non la ama ma la odia e invece ama e desidera ciò che ritiene spregevole e iniquo. Io credo che questa dissonanza di dolore e piacere con l’opinione conforme a ragione rappresenti la forma estrema e più grave di ignoranza perché occupa il grosso dell’anima: sofferenza e piacere sono infatti per l’anima ciò che il popolo e la massa sono per una città. Quando l’anima si oppone alle conoscenze o alle opinioni o alla ragione, alle quali per natura spetta il comando, si ha ciò che definisco stoltezza, e lo stesso vale per una città, quando la massa non obbedisce ai magistrati e alle leggi, e per un individuo, quando i bei ragionamenti che albergano nell’anima non portano a nulla ma si verifica l’esatto contrario: tutte queste forme di ignoranza io le considero le più deleterie così per una città come per ogni singolo cittadino (...). E allora si stabilisca (...) che ai cittadini affetti da una tale ignoranza non deve essere affidato alcun tipo di comando e che devono essere censurati in quanto ignoranti, anche se dotati di grande acume logico ed esercitati in ogni sorta di cavillo e in tutto ciò che per natura giova all’agilità dell’anima, mentre coloro che sono agli antipodi di questi vanno definiti saggi anche se (...) non sanno né leggere né nuotare e ad essi, per la loro assennatezza, vanno assegnate le cariche. E in effetti amici, come potrebbe sussistere anche la minima forma di saggezza senza consonanza? Non è possibile, anzi la più bella e più importante delle consonanze si può legittimamente definire come grandissima saggezza di cui partecipa chi vive secondo ragione, mentre chi ne è privo risulterà ogni volta che rovina per ignoranza la propria casa e non può essere il salvatore della città, bensì il contrario. (689a-d)

La saggezza deriva quindi dalla consonanza della ragione da una parte con i piaceri e i dolori dall’altra, ossia dall’affidare alla ragione il comando sulle emozioni, mentre la stoltezza, in quanto ignoranza, è data dalla dissonanza interna all’anima dei piaceri e i dolori con l’opinione conforme a ragione. Gli individui in cui regna l’ignoranza, non sono adatti a ricoprire nessun tipo di carica: come può infatti, colui che non sa gestire la propria casa, essere capace di occuparsi della città? Costoro devono sottoporsi al comando dei saggi, cui spettano le cariche di magistrati: come nell’anima, anche nella polis la saggezza è data dall’instaurarsi di un rapporto di sottomissione della massa degli stolti ai magistrati e alla Legge. La stessa definizione di saggezza la incontriamo sempre nel III libro, collegata al concetto di virtù come temperanza:

(...) il senso della giustizia non nasce senza la temperanza. E neppure il saggio che ora abbiamo proposto, quello che nutre piaceri e dolori in sintonia e in accordo con i corretti ragionamenti. (696c)

La consonanza tra ragione da una parte e piaceri e dolori dall’altra, è il risultato dell’instaurazione di una condizione interiore di enkrateia, l’autocontrollo come capacità della ragione di comandare sulla sfera irrazionale.

La tesi per cui nelle Leggi è assente l’elemento timoeidetico, cui Platone nella Repubblica attribuisce una funzione fondamentale nella risoluzione del conflitto intrapsichico, sembra confermata da tale concezione della virtù come accordo e coordinazione, e del vizio come disaccordo. Si può leggere questa assenza più in generale come una tendenza dell’ultimo Platone ad assorbire lo thymoeides nella sfera irrazionale delle passioni, considerandolo al pari di ogni altra forza emotiva e riducendo la tripartizione psichica in una bipartizione: questa è come abbiamo visto la tesi di Rees, in contrasto con la lettura di Saunders92. In particolare, l’attenzione dei due studiosi si concentra su un passaggio del IX libro dove si descrivono le cause del vizio, in cui si distinguono non solo la ragione da una parte e i piaceri e dolori dall’altra: causa dell’errore morale, spiega Platone, è anche la forza dello thymos, distinta dai piaceri e dai dolori.

(...) E’ chiaro infatti che voi sia dite l’un l’altro sia sentite dire tale cosa sull’anima, cioè che in essa o un’affezione o una parte della sua natura è l’ira, un possesso innato e litigioso difficile da combattere, che con forza irrazionale crea molti sconvolgimenti. (...) E noi affermiamo che il piacere non è la stessa cosa dell’ira, ma diciamo che domina per una forza contraria a quella, e con la persuasione congiunta a un violento inganno fa tutto ciò che la volontà desideri. (...) E se uno dicesse che la terza causa delle colpe è l’ignoranza, non mentirebbe (...). (863b-c2)

In questo passaggio l’ateniese chiaramente distingue l’ira dai piaceri, distinti entrambi dall’ignoranza, cosicché sembrerebbe possibile rintracciarvi la tripartizione psichica presente in altri contesti dell’opera platonica. Tuttavia, la distinzione tra thymos da una parte e epithymia dall’altra appare piuttosto vaga se consideriamo le parole pronunciate dall’ateniese subito dopo il passo sopra riportato, in cui è evidente che non si ha una netta delineazione dell’autonomia di ciascuna forza emotiva rispetto all’altra:

Ora dunque io posso definirti chiaramente, senza dire niente di ambiguo, ciò che intendo per il giusto e l’ingiusto. Infatti la tirannia esercitata nell’anima dall’ira, dalla paura, dal piacere, dal dolore, dalle invidie e dai desideri, sia che arrechi qualche danno sia che no, la chiamo in generale ingiustizia (...). (863e6-864a2)

Lo thymos è quindi raggruppato insieme alla paura, al piacere, al dolore, all’invidia e ai desideri, contrapposti alla ragione e indicati come causa di ingiustizia. Diversamente dal IV libro della Repubblica, in questo passaggio delle Leggi non è possibile osservare una chiara distinzione tra lo thymos e le altre emozioni, lasciando al lettore il dubbio che si tratti di un unico fascio di forze. Questa posizione è condivisa sia da Rees che da Giulia Cupido, sulla base dei passaggi citati del IX libro93, mentre J. Saunders ne dà ovviamente una lettura a favore di una individuazione della tripartizione psichica anche nelle Leggi. Secondo lo studioso, Platone ha trovato maggiormente conveniente raggruppare insieme le due forze emotive, in quanto in questo passaggio prevale la necessità di sottolineare l’opposizione dell’irrazionalità alla ragione, senza negare con questo la precedente distinzione tra thymos e epithymia94. Questa posizione sembra avvalorata dall’evolversi della trattazione, che ribadisce, dopo il precedente raggruppamento di epithymia e thymos, la loro distinzione:

93 Cfr. Rees, op. cit., p. 115, e Cupido, op. cit., pp. 158-161. 94 Cfr. Saunders, op. cit., p. 39.

(...) si è mostrato che esistono tre specie di colpe (...). Una specie è per noi quella del dolore, che chiamiamo ira e paura. (...) La seconda è quella del piacere e dei desideri, l’altra, la terza, è la perdita delle speranze e della vera opinione riguardo a ciò che è ottimo. (864b)

Volendo individuare le cause dell’errore morale, si distingue nuovamente l’ira dai desideri, entrambi distinti a loro volta dall’ignoranza, indicata come la perdita delle speranze e della vera opinione riguardo a ciò che è ottimo: ossia, come la totale prevaricazione sulla ragione dell’irrazionalità. Tuttavia95, risulta ancora difficile poter affermare con sicurezza sulla base dei passi 864b e 863b-c che anche nelle Leggi è presente una psicologia tripartita. Bisogna infatti notare a 864b che l’ira è associata alla paura, entrambe associate a loro volta al dolore, e i desideri, di contro, ai piaceri: in modo tale che si anticipa la nozione aristotelica di ira, secondo cui essa insieme alla paura è una risposta emozionale al dolore, mentre il desiderio al piacere. Si può quindi avanzare l’ipotesi che l’intenzione di Platone nei tre passaggi presi in considerazione sia non tanto quella di distinguere l’ira dal desiderio come componenti autonome dell’anima, quanto quella di individuarli come cause distinte di uno stesso comportamento vizioso, entrambe espressione di uno stato psichico in cui le emozioni prevaricano sul calcolo razionale.

In relazione alla possibilità o meno di individuare in quest’opera elementi di tripartizione psichica, vi è un altro passaggio del I libro molto discusso, in cui vengono introdotte le virtù:

(...) Noi (...) affermiamo che sono ancora più valorosi, e di gran lunga, coloro che brillano per virtù nella guerra più dura. (...) Noi diciamo che nella guerra più penosa costui dimostra assai maggiore virtù dell’altro nella misura in cui la giustizia, la temperanza e la saggezza congiunte con il coraggio valgono di più del solo coraggio. (630a-b3)

Come si può osservare96, qui le virtù della giustizia, della temperanza, del coraggio e della saggezza non sono messe in relazione con precise parti dell’anima, come invece avviene nella Repubblica. In proposito vorrei riallacciarmi a quanto detto in precedenza97, relativamente al fatto che nei primi libri delle Leggi si dà ampio spazio alla trattazione della sophrosyne in quanto enkrateia, autocontrollo derivante dalla capacità della ragione di dominare i dolori e i piaceri (626d1-627a2; 633c-634b; 635c-d;

644d-645a-b; 647c-d; 653a-c; 659d-660a5; 689a-d; 696c). In accordo con l’importanza data

a tale nozione, le due virtù che ricevono maggiormente attenzione nel I libro dopo il passo appena citato sono il coraggio e la temperanza: questo perché il primo consiste nella capacità di dominare i dolori, (di cui sono espressione la paura e la rabbia), mentre la temperanza è tale rispetto ai piaceri, quindi ai desideri ad essi associati. Sia coraggio che temperanza sono dunque manifestazioni della virtù dell’enkrateia, declinata rispetto ai piaceri e ai dolori: una virtù che spetta all’educazione instaurare fin dal principio della vita nell’animo umano, per formare i cittadini al rispetto delle leggi. La delineazione delle virtù nelle Leggi non sembra dunque slegata dalla distinzione fra parti, ma conferma una tendenza a ridurre la tripartizione dell’anima a una bipartizione. Sulla questione della non necessità di correlare ciascuna virtù con una precisa parte dell’anima si pronuncia anche Rees, osservando che anche nel Protrettico di Aristotele s’individuano quattro virtù cardinali, ma che contemporaneamente l’anima è distinta in due parti, la razionale e l’irrazionale. Questo pone delle difficoltà a comprendere come mai le virtù individuate debbano essere proprio quattro, se non si pone ciascuna di esse in relazione con una specifica parte dell’anima: tuttavia, tali difficoltà vengono riconsiderate osservando che nell’Etica Eudemia molte altre virtù, oltre la saggezza, il coraggio, la giustizia e la temperanza, vengono prese in

96 Cfr. Rees, op. cit., pp. 115-118. 97 Cfr. pp. 8-12 e pp. 15-19.

considerazione. Inoltre, la concezione dell’anima bipartita la incontriamo oltre che nel Protrettico, anche nel De Anima, in particolare nel passo 432A24-26 del III libro che è oggetto di dibattito. Alcuni studiosi sono propensi a vedervi un riferimento critico di Aristotele a Senocrate, sulla base del fatto che anche in altre opere il filosofo lo critica senza menzionarlo; secondo altri invece, Aristotele alluderebbe criticamente al Protrettico, mettendo quindi in discussione nel De Anima la concezione bipartita della psiche. Il filosofo avrebbe quindi appreso la psicologia bipartita in età giovanile, frequentando l’ambiente della prima Accademia, dove tale concezione dell’anima probabilmente era presente, influenzandolo nella scrittura del suo Protrettico. Troverebbe quindi conferma la presenza nell’Accademia platonica e nel pensiero del suo fondatore, della concezione psicologica bipartita.

Si può quindi parlare di thymos ma non di thymoeides a proposito delle Leggi? Sulla base dei passi problematici trattati, si può dire che Platone nella sua ultima opera tende a non fare dello thymos un elemento autonomo rispetto ai desideri, valorizzandone, come avviene nella Repubblica, l’accezione di competitività e autoaffermazione in vista dell’approvazione sociale, che lo rendono adatto al ruolo di carica energetica a servizio della ragione. Nelle Leggi98, seppur considerato a volte anche in modo positivo, lo thymos come energia emozionale dell’ira è il più delle volte descritto come un pericolo per l’equilibrio psichico, perdendo quindi la funzione positiva che aveva nella Repubblica: perciò la virtù non consiste più nell’armonia, ma piuttosto nella coordinazione di istanze impossibili da ricomporre in un’unità, ossia nel comando della ragione sulle emozioni. Tra queste, la collera è considerata come una delle più pericolose, perché più difficile da sedare:

(…) Se uno sia a tal punto incapace di controllare la propria ira nei confronti dei genitori da osare uccidere uno dei genitori in preda alla follia dell'ira, qualora il morto prima di morire assolva spontaneamente dall'omicidio chi l'ha commesso, dopo essersi purificato allo stesso modo di coloro che hanno commesso l'omocidio involontario, e dopo aver fatto quanto al resto come quelli, sia puro. (Libro IX, 869a)

In questo passo, Platone spiega che l'emozione dell'ira può portare chi non è abile nel controllarla ad uccidere un genitore. Ma non solo: essa può anche condurre alla pazzia99:

Qualora uno sia pazzo, non si faccia vedere per la città: i parenti di ciascuno badino a loro la casa, nel modo in cui sappiamo, o paghino una multa (…). In molti sono i pazzi, e in molti modi; quelli che ora abbiamo detto, lo divengono per malattie, ma ve ne sono alcuni che lo diventano per cattiva naturale tendenza all'ira, a cui si è aggiunta una cattiva educazione. Essi, al verificarsi di un'ostilità di scarsa importanza, emettono una gran voce e parlano offendendosi malamente l'un l'altro: non conviene che in una città di persone ben governate avvenga in nessun modo niente del genere. (Libro XI, 934d-e)

Tuttavia, non possiamo evitare di notare che lo thymos viene anche menzionato in quanto forza positiva, come ad esempio quando si parla di uno thymos nobile che si oppone alle ingiustizie, e di come quindi l’uomo virtuoso possa essere sia mite che irascibile:

(…) ogni uomo deve essere tanto mite quanto irascibile. Non c'è infatti altro modo di sfuggire ai soprusi altrui, qualora si rivelino gravi e mal curabili o del tutto incurabili, se non quello di lottare e di difendersi fino a riportare la vittoria, e di punire inflessibilmente, e questo non è in grado di fare anima alcuna senza un nobile cuore. Quanto agli errori curabili di coloro che commettono ingiustizie, bisogna capire in primo luogo che ognuno che sia ingiusto lo è involontariamente: nessuno si procurerebbe spontaneamente nessuno dei mali più grandi, e tanto meno quelli che concernono la sfera del suo prestigio. L'anima (…) è veramente per tutti il bene più onorevole, e dunque in ciò che è degno d'onore nessuno prenderà spontaneamente su di sé il male più grande e vivrà la sua vita con questo possesso. Ma chi è ingiusto è davvero degno

di pietà perché si è tirato addosso dei mali, ed è lecito nutrire compassione per chi ha dei mali