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Dal Fedone alla Repubblica: l’elaborazione platonica del conflitto tragico

harmonia: dalla stasis al fragile equilibrio dell’oikeiopragia

1. Dal Fedone alla Repubblica: l’elaborazione platonica del conflitto tragico

e battendosi il petto, così parlava al suo cuore: soffri mio cuore! Altri morsi una volta soffristi più acuti! (Omero, Odissea XX, 17-18)

Così Ulisse, irato per l’unione tra le donne della sua dimora e i proci, esorta se stesso a contenere il proprio impeto vendicativo. Proprio queste parole sono usate nel IV libro della Repubblica, dove si rappresenta l’anima come un’unità complessa: Socrate cita questi versi per distinguere l’elemento psichico che razionalmente giudica del meglio e del peggio, da quello che irragionevolmente si adira. Dopo aver distinto dalla sua parte razionale quella irrazionale delle pulsioni corporee, si individua una terza funzione psicologica: sebbene la sua natura sia irrazionale, quando ben educata è naturalmente portata ad allearsi con il logistikon, da cui a sua volta si differenzia. Infatti, ciò che qui preme al filosofo è definire il terzo elemento delimitandone i confini rispetto agli altri due: se in un primo momento ne dimostra la non riducibilità alla sfera dei desideri, in seguito ne prova l’indipendenza dalla ragione. Che il thymoeides sia una terza funzione psicologica, diversa da quella razionale come da quella desiderante, dice Adimanto, «non è difficile chiarirlo: perché anche nei bambini si può vedere bene che appena nati essi sono pieni di collera, mentre alcuni non mi sembra che raggiungano mai la capacità di ragionare, e per maggior parte solo più tardi». Approvando le parole del suo interlocutore, Socrate aggiunge che «anche nelle belve si può vedere che le cose stanno come hai detto. Inoltre possiamo addurre a testimone quel verso di Omero che abbiamo citato più sopra: “e battendosi il petto, così parlava al suo cuore”. Qui Omero ha

chiaramente rappresentato due cose diverse, di cui una rimprovera l’altra, la parte che ragiona sul bene e sul male e quella che irrazionalmente si adira» (Libro IV, 441a-c). Anche in un altro contesto Platone faceva leva sulle parole di Ulisse, ma per sostenere una concezione dell’anima differente: un’entità unitaria distinta e opposta al corpo, nel quale sono relegati gli impulsi desideranti e irascibili. Siamo all’interno del Fedone, dialogo appartenente alla prima tetralogia della produzione platonica, insieme all’Eutifrone, al Critone e all’Apologia, il cui tema fondamentale, come indica anche il sottotitolo, è l’anima, in particolare la dimostrazione della sua immortalità. Il contesto drammatico ruota intorno alla condanna a morte di Socrate, che all’indomani dell’esecuzione della pena persuade i discepoli circa la sua sopravvivenza oltre la morte del corpo. Il rapporto tra ragione e passioni è qui descritto come un dialogo tra anima e corpo, escludendo quindi dall’ambito psichico umano la sfera pulsionale:

E dimmi, dunque, non è evidente ora per noi che l’anima fa proprio tutto il contrario, sia ch’ella diriga tutti questi elementi di cui vogliono alcuni sia costituita, sia che gli avversi, dirò così, da ogni parte, per tutta quanta la vita, e in ogni modo li domini, ora cercando di contenerli con severità e anche con dolore, seguendo i suggerimenti della ginnastica e della medicina ora invece, più dolcemente, con semplici minacce e consigli, disputando coi desideri con le ire con le paure, quasi ch’ella fosse da codeste passioni estranea o diversa e queste da lei? Anche Omero, nell’Odissea, ha poetato, mi pare, qualche cosa di simile, là dove dice di Odisseo: “e battendosi il petto, così parlava al suo cuore: soffri mio cuore! altri morsi una volta soffristi più acuti!” . Credi tu forse che Omero poetasse a quel modo avendo in mente come se l’anima fosse un accordo e tale da esser governata dalle passioni del corpo, e non invece come se ella governasse e dominasse codeste passioni, e fosse realmente cosa troppo divina da poter essere collocata allo stesso livello di un accordo? (Platone, Fedone, 94d-e)43

Si tratta del dialogo platonico in cui la dottrina orfico-pitagorica tocca la sua massima espressione. L’anima è semplice, e proprio in virtù di questa sua semplicità, è immortale: tre sono infatti le prove portate da Socrate a favore dell’immortalità

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dell’anima, la seconda delle quali la fa derivare dalla sua natura non composta (78b- 80d). Dice il filosofo che ciò che è composto è mutevole perché soggetto al pericolo di decomporsi nelle sue parti, quindi ciò che non cambia deve necessariamente essere semplice. Distinguendo poi, ciò che è invisibile e sempre uguale nel tempo, da ciò che è visibile e variabile, quindi le idee in quanto essenze e paradigmi dal modo sensibile, si dice che il corpo è affine alla seconda specie, mentre l’anima alla prima: con l’intelletto si conoscono le idee, con il corpo si fa esperienza del mondo sensibile. Tuttavia, perché le idee possano essere conosciute dall’anima, è necessario che questa si distacchi quanto può dal corpo: infatti, se essa si dirige verso la conoscenza tramite la percezione del corpo, questa la indirizza verso gli oggetti mutevoli e visibili. Invece, l’anima dirige la sua ricerca verso le idee quando la conoscenza non passa tramite il corpo: così smette di vagare barcollando confusa come se fosse ubriaca, perché ciò che coglie quando ricerca autonomamente dal corpo, è a lei affine. Del complesso psicofisico, continua Socrate, osserviamo che l’anima governa e comanda il corpo: se ciò che comanda è per natura divino e ciò che è comandato è mortale, l’anima non può che essere affine al divino, immortale, intelliggibile, uniforme e indissolubile, mentre il corpo all’umano, mortale, uniforme, inintelliggibile, dissolubile e mutevole. C’è quindi una grande differenza fra la psicologia del Fedone e quella del IV libro della Repubblica: da una parte l’anima è semplice, e da questo ne dipende l’immortalità, dall’altra è composta e conflittuale. Più in generale, si osserva che Platone oscilla fra queste due concezioni dell’anima nell’intero suo corpus letterario: è possibile individuare in questa oscillazione una unità di fondo nel pensiero psicologico del filosofo? W. K. C. Guthrie44 risponde affermativamente: secondo lo studioso, infatti, sia che l’anima sia concepita come semplice e razionale, sia come complessa, il vero sé per Platone coincide con la ragione.

44 Cfr. W. K. C. Guthrie, op. cit.: per una più estesa trattazione di questo tema, rinvio al terzo paragrafo

A sostegno di questa tesi, Guthrie si ricollega anche ad un passo del X libro della Repubblica, dove, in affinità con quanto espresso nel Fedone, si afferma che (...) «non dobbiamo credere che nella sua più vera natura, l’anima sia tale da presentare, rispetto a se stessa, grande varietà, dissimiglianza e differenza. (...) Non è facile che sia eterno un oggetto composto di molti elementi e che non presenti la composizione più perfetta, come invece ora ci è apparsa l’anima. (...) Dunque l’anima è immortale. E per vederla quale è nella sua vera natura, non bisogna contemplarla lordata dal contatto col corpo e da altri mali» (611a-c). Di nuovo, come nel Fedone, sembra che il vero sé, ossia l’anima nella sua essenza immortale, sia semplice, e che la sua complessità derivi dall’attaccamento al corpo.

La psicologia del Fedone spesso è considerata in contrasto non solo a quella della Repubblica, ma anche a quella del Fedro, dove si incontra la concezione psichica tripartita. In particolare, si nota a proposito che in quest’ultimo la composizione dell’anima sussiste anche con il distacco dal corpo, sopravvivendone le parti inferiori, mentre nel Fedone (81 ss) avviene il contrario. In realtà, osserva Guthrie45, questo non è strettamente vero, in quanto se da una parte nel Fedone si afferma che i desideri e le passioni sono del corpo e non appartengono all’anima, dall’altra non si afferma che questa se ne libera immediatamente con il distacco dal corpo. Al contrario, anche qui l’anima, quando lascia il corpo, risulta ancora influenzata da ciò che lo riguarda, ovvero i desideri e le passioni, non liberandosene immediatamente con la morte: vi è un periodo successivo ad essa, in cui passioni e desideri continuano ad influenzare la psiche come nel Fedro, dove le anime coinvolte nel ciclo delle reincarnazioni sono composte indipendentemente dalla loro unione o meno con un corpo. Anche nel Fedro, come nel Fedone, è il rapporto con il corpo che determina la natura composita dell’anima, che

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quindi nella sua essenza è semplice: un rapporto da intendersi non nei termini di una effettiva inclusione in un corpo, ma di coinvolgimento nel ciclo delle reincarnazioni. Le anime degli dèi che, infatti, sono fuori da questo ciclo, sono composte da parti tutte ugualmente buone: per loro non sussiste composizione e la loro natura è semplice, così come quella degli uomini filosofici.

Filosofare significa imparare a morire, afferma di fronte ai discepoli Socrate: il corpo altro non è che la tomba dell’anima, una prigione da cui bisogna separarsi esercitandosi ogni giorno a coltivare ciò che è propriamente umano, la ragione. Vivere immersi nell’attività contemplativa, nel completo distacco dal mondo sensibile delle percezioni, causa di coinvolgimento emotivo per l’uomo; eliminare dalla propria vita la sfera delle passioni e dei desideri, che alimenta l’attaccamento dell’anima al corpo limitandone la facoltà intellettuale; abbracciare uno stile di vita ascetico senza gioia né dolore alcuno, raccogliendo l’anima tutta sola in sé medesima: questa è la via per la virtù e la felicità. Se il corpo non è che il carcere dell’anima, alla quale impedisce di cogliere la verità ontologica, è necessario per l’uomo distaccarsi da desideri, passioni paure, piaceri e dolori, dire cioè addio a tutto ciò che incatena la psiche al soma: la repressione della sfera emozionale è il modo per curarsi realmente di se stessi coltivando la propria anima, coincidente con la razionalità. Socrate espone tali convinzioni sul rapporto anima-corpo in particolare nel passo del Fedone che segue:

Infinite sono le inquietudini che il corpo ci procura per la necessità del nutrimento; e poi ci sono le malattie che, se ci capitano addosso, ci impediscono la caccia alle cose che sono; e poi esso ci riempie di amori e passioni e paure e immaginazioni di ogni genere e insomma di tante vacuità e frivolezze che veramente, finché siamo sotto il suo dominio, neppure ci riesce, come si dice, fermare la mente su alcuna cosa. Guerre, rivoluzioni, battaglie, chi altro ne è causa se non il corpo e le passioni del corpo? Tutte le guerre scoppiano per acquisto di ricchezze; e le ricchezze siamo costretti a procurarcele per il corpo e per servire ai bisogni del corpo. E così non abbiamo modo di occuparci di filosofia, appunto per tutto questo. (...) Sicché insomma non

è possibile, finché si è sotto l’influenza del corpo, vedere la verità: e ci appare chiaro e manifesto che, se mai vorremo conoscere alcuna cosa nella sua purezza, dovremo spogliarci del corpo e guardare con la nostra anima la realtà delle cose. (Fedone, 66b-e)

Nel Fedone, quindi, a una concezione monolitica della psiche si accompagna un dualismo tra psiche e soma, tra ragione da una parte e desiderio e passione dall’altra, e una concezione della virtù come risultante dall’annullamento delle esigenze del corpo, fonte di piaceri, ma anche di paure, dolori e turbamenti. Da tale configurazione psichica consegue quindi la coincidenza della conoscenza con la virtù, eliminando la possibilità dell’akrasia, e la sicurezza, per il sophos, l’uomo saggio, di una vita felice come conquista stabile e duratura46.

Come osservato nel I capitolo, l’equazione di conoscenza, virtù e felicità e la concezione monolitica dell’anima ad essa associata si relaziona in modo polemico nei confronti della tragedia euripidea: rispetto a quest’ultima, suggerisce G. Cupido, l’intellettualismo socratico sembrerebbe esprimere una concezione “involuta” dell’animo umano47. Negare l’influenza delle passioni sulla condotta umana,

relegandole a un soma su cui l’uomo può avere il controllo quando in possesso della conoscenza, significa negare la debolezza umana di fronte ai desideri e alle passioni, quella realtà che Aristotele chiama col termine akrasia, nonché principale oggetto della rappresentazione tragica.

Il conflitto psichico che condanna Medea e Fedra alla sofferenza non viene tanto rielaborato e risolto da Socrate, quanto semplicemente eliminato. Non c’è niente di tragico nell’esistenza del filosofo che, dedito al sapere, si assicura una vita virtuosa e felice: se non che, come suggerisce Callicle all’interno del Gorgia, la sua esistenza somiglia più a quella di un sasso che a quella di un essere animato. L’idea nietzchiana

46 Cfr. G. Cupido, op. cit., pp. 97-100, e S. Gastaldi, Sophrosyne, in Vegetti (a cura di), Platone, La

Repubblica, cit., pp. 249-251.

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della felicità del più forte espressa dal sofista, di una vita “dionisiaca” consacrata alla soddisfazione caotica della sfera pulsionale, e del despota che proprio perché massimamente ingiusto risulta felice, è lontana anni luce dalla figura del saggio contemplativo dipinto da Socrate. Se da una parte abbiamo l’esaltazione di una vita senza alcun tipo di vincolo né limite, nessuna divinità a dettare legge né un intimo sentimento morale, dall’altra vi è l’estremizzazione dell’elemento apollineo nell’immagine del saggio ascetico, alienato dalla società.

Che la “giusta via” sia da ricercare a metà strada tra questi stili di vita estremi e opposti è ciò che Platone sembra suggerire, in particolare, con il progetto della Repubblica. Lungi dal disfarsi del conflitto tragico negandolo, il filosofo lo elabora approfondendo la questione della scissione psichica messa in scena nella Medea e nell’Ippolito, nel tentativo di risolverla positivamente. Se, infatti, Euripide non lascia spazio a una visione ottimistica per la felicità umana, Platone, muovendo dalla stessa idea di complessità e conflittualità psichica, fa conseguire l’eudaimonia dalla ricomposizione armonica delle istanze psichiche, ossia dallo stabilirsi di quella condizione interiore di accordo (harmonia) e temperanza (enkrateia) data dal comando del logistikon sui desideri delle altre istanze. Perciò, l’anima è virtuosa e felice quando a dirigerne gli impulsi animosi e desideranti è la sophia dell’istanza razionale, poiché essa sa operare in vista del benessere dell’anima intera: quindi, possiamo dire che come per Socrate, anche per il suo discepolo la virtù, in quanto giustizia intrapsichica, risulta dal sapere. Tuttavia, se quest’ultimo per Socrate si consegue applicando il modello tecnico all’ambito morale e ricercando la definizione delle virtù, Platone riformula l’identificazione conoscenza-virtù fornendole una base teorica stabile con la teoria delle idee. La conoscenza platonica, in quanto sophia, riguarda i modelli perfetti dei valori morali che gli archontes devono mettere in pratica nella loro attività politica, quindi,

anche per Platone la virtù è conoscenza, ma a un livello ontologico e metafisico, ossia come dialettica. Infatti, nel settimo libro della Repubblica, Platone illustra mediante l’immagine del segmento quadripartito, quattro gradi di conoscenza:

E’ dunque accettabile, dissi io, chiamare, come abbiamo fatto prima, «scienza» la prima parte, «pensiero discorsivo» la seconda, «credenza» la terza, «immaginazione» la quarta; e le ultime due insieme «opinione», le altre due «pensiero»; dire che l’opinione verte sul divenire, il pensiero sull’essenza; il pensiero sta all’opinione come l’essenza sta al divenire, e la scienza sta alla credenza, il pensiero discorsivo all’immaginazione, come il pensiero sta all’opinione. (...) Chiami inoltre «dialettico» colui che coglie la spiegazione razionale dell’essenza di ogni singola cosa? E di chi non la coglie, nella misura in cui non è in grado di renderne ragione a sé e agli altri, non dirai che non è in grado di pensarla? (Repubblica, VII, 355e-354b)

Sono individuate quattro tipologie di conoscenza: la dialettica, la matematica, la credenza e l’immaginazione. La prima, che si trova al vertice di questa gerarchia, consiste nel sapere riguardante gli oggetti stabili della conoscenza, un sapere certo e universale. Le idee infatti sono enti invisibili, indivisibili, ingenerate, imperiture e fuori dal tempo, in virtù delle quali il mondo sensibile, partecipando di esse, esiste.

Elaborare il conflitto tragico fino in fondo, significa abbandonare l’idea di un’anima monolitica con la corrispondente equazione di conoscenza e virtù: la stasis che nel Fedone è tra psiche e soma viene ricondotta all’interno della prima, concepita adesso come un’unità complessa e il più delle volte conflittuale. Si tratta per Platone di prendere atto del costante pericolo di akrasia cui va incontro l’uomo per identificare la virtù, condizione di felicità, con la ricomposizione armonica tra le “parti” dell’anima. Questo è il tentativo portato avanti nel IV libro della Repubblica: dimostrare la complessità e conflittualità psichica, indicandone al tempo stesso la soluzione nell’instaurazione tra le “forze” in gioco di un rapporto gerarchico assente nella tragedia euripidea. Superare l’insolubilità del conflitto tragico con la sua condanna alla sofferenza, significa infatti questo: non misconoscere il conflitto, ma individuare, tra i

valori in lotta nel momento della scelta, un criterio per stabilire ciò che è bene per l’anima nel suo complesso: la ragione deve comportarsi come un “filo d’oro flessibile”, dice Platone nelle Leggi (645a), grazie a cui ogni istanza interiore dell’essere umano possa trovare il giusto grado di appagamento, senza né essere repressa, né messa al primo posto ignorando così le esigenze delle altre.

Quale tipo di rapporto si debba instaurare tra queste “parti”, secondo il filosofo, è discutibile: da una parte Platone sembra propendere verso un sistema normativo, per cui la ragione si impone senza coercizione sulle altre componenti dell’anima, ma in quanto norma di orientamento che sviluppa i desideri di ognuna in un rapporto di collaborazione reciproca; dall’altra sembra a volte prevalere un’immagine dell’anima sana in cui l’autorità del logistikon si manifesta in termini di comando e coercizione sulle restanti parti. Si parla spesso di Platone come di un pensatore “antitragico”, vedendo nella giustizia della Repubblica un superamento e una ricomposizione stabile della battaglia interiore. Eppure, se siamo propensi a leggere la dinamica psichica in termini di collaborazione e interazione, la giustizia si risolve in un equilibrio instabile, continuamente da proteggere e difendere, e anzi destinato ad infrangersi; come sembra del resto volerci suggerire lo stesso filosofo, analizzando nel libro VIII e IX le varie forme di degenerazione psichica e politica. Si può allora leggere nella psicologia platonica il senso dell’intima e costante, profonda tragicità della natura umana, la cui felicità dipende da un delicato equilibrio tra forze, perciò sempre e costantemente esposta al pericolo dell’akrasia: non consistendo quindi, l’eudaimonia, in un’acquisizione stabile e costante nel tempo, ma in uno sforzo da rinnovare continuamente48.

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La relazione di Platone con la tragedia si può descrivere in termini di continuità. Infatti da una parte, come sostiene G. Cupido, l’opera di Euripide, con cui l’intellettualismo etico confligge, è per il filosofo un’esperienza cui riallacciarsi in modo propositivo, per indagare la complessità e la fragilità dell’animo umano e proporre un’alternativa all’idea di una vita apatica o sofferente. Una proposta “tragica” perché, al contrario dell’equazione di conoscenza e virtù, non promette una felicità stabile e duratura: dalla reintegrazione nell’animo umano della sfera emotiva, rendendola protagonista, tanto quanto la ragione, dell’equilibrio psichico, risulta infatti necessario confrontarsi con l’instabilità psichica che ne deriva. Dall’altra parte, Platone è “tragico” perché la sua stessa produzione filosofica può essere letta come un’attività mimetica che, facendo leva sul coinvolgimento emozionale del lettore nelle problematiche dibattute nei dialoghi, si propone in alternativa alla mimesis tragica. La critica di Platone alla poesia (che è parte della musica, poiché questa comprende sia il testo che l’armonia e il ritmo) non riguarda tanto l’attività artistica in sé, la sua modalità di operare, quanto l’influenza ideologica e psicologica negativa che i suoi contenuti possono avere sull’uomo, in quanto veicolo di modelli di vita non virtuosi. Nel secondo libro infatti, nel quadro della delineazione dell’educazione giovanile, la tragedia e l’epica vengono criticate per la falsa rappresentazione che danno degli dèi, e di