• Non ci sono risultati.

4. L A RIFLESSIONE RETORICO POETICA DEL C INQUECENTO

4.3 Il confronto con la teoria artistica

La necessità di giustificare il ricorso ad un espediente del tutto anti- realistico com'è quello della personificazione di enti astratti, difeso in virtù delle sue potenzialità didascaliche, trova riscontri importanti nella teoria artistica dell'età della Controriforma. Il ricorso alle immagini allegoriche e, più specificamente, alle personificazioni è d'uso comune nelle arti figurative tra Cinque e Seicento, tanto in ambito sacro, quanto in ambito profano. Dare «forma a quello che non è», come afferma Giovanni Andrea Gilio nel dialogo Degli errori e degli abusi de' pittori, consiste nel fingere «cose favolose», ossia oggetti che, privi di un correlato empirico, rischiano di forzare i limiti del decorum e della verosimiglianza.162 Il «favoloso» è infatti «quello che non è e non può essere»,

ovvero qualcosa di non rappresentabile, giacché all'uomo è dato di raffigurare soltanto ciò che egli conosce attraverso il filtro della percezione sensibile.163

L'unico modo per dar forma a entità intellettuali che ne sono prive è dunque

160 BONCIANI, Lezione, cit., p. 247. 161 Ivi, pp. 248-252.

162 G.A. GILIO, Dialogo nel quale si ragiona degli errori e degli abusi de' pittori circa l'istorie,

Camerino, Antonio Gioioso, 1564 (si veda il testo in Trattati d'arte del Cinquecento tra

Manierismo e Controriforma, a c. di P. Barocchi, Bari, Laterza, 1961, II, pp. 3-115).

conferire loro una corporeità che le renda visibili. Gilio propone l'esempio della personificazione del Furore per illustrare il modo in cui un poeta può procedere nella costruzione di un'allegoria personificata. Trattandosi di un moto dell'animo, occorre individuarne le proprietà caratterizzanti e dar loro corpo attraverso traslati figurativi:

Le cose favolose, poi, si fingono dandosi forma a quello che non è: come l'istesso poeta finge il Furore, il quale altro non è che un moto d'animo acceso circa il cor de l'uomo per qualche ricevuta ingiuria, con apetito di vendetta; al quale, per essere irregolato e bestiale, fu dato forma d'uomo mostruosa più tosto che naturale, e per mostrar la quiete e la pace come a quello contrarie, lo finse legato con grosse catene di ferro, con le mani dietro, che siede sopra tutte le sorti de armi et istrumenti bellici, come cose appertenenti al furore, a l'ira et al desiderio de la vendetta. In compagnia del Furore sogliono andare l'Orrore, lo Spavento, la Discordia, la Guerra, l'Odio et altre cose tali, ridotte in forma umana, con le qualità appertenenti a ciascuna.164

La «finzione» di «dar forma umana a l'Onore et a la Virtù» è un espediente ampiamente sfruttato dagli antichi – che fecero spesso coincidere le personificazioni con le divinità – ed è stato puntualmente rifunzionalizzato dai cristiani che, «da questi esempi mossi, hanno imparato a dar forma umana a la Religione, a la Fede, a la Speranza, a la Carità et a l'altre virtù che, insieme con queste, vanno mescolatamente con le cose sacre e vertù teologiche si chiamano».165 Come ha mostrato Paola Barocchi confrontando il brano di Gilio

con le considerazioni che Johannes Molanus dedica alle imagines ethicae nel suo De picturis et imaginibus sacris, le personificazioni non sono concepite come semplici immagini, ma come modelli etici performativi che, rendendo visibili i mores, stimolano nel devoto osservatore una pratica di vita cristiana.166

164 Ivi, pp. 100-101. La descrizione del Furore evocata da Gilio in VERG., Aen., 1.294-296.

165 GILIO, Dialogo, cit., p. 102. Cfr. ancora ivi, p. 104: «Penso che dagli antichi abbino i moderni

imparato l'uso di dar forma di donne a le virtù che liberali si chiamano, come la Geometria, la Filosofia, l'Astrologia, la Musica, la Rettorica, la Grammatica, l'Aritmetica, aggiungendovi anche la Teologia. E queste oggi si pongono per il più ne le piramidi e pili che si fanno ai prencipi et ai gentiluomini morti, che 'l mondo per famosi, per eccellenti e per grandi celebra». Per un inquadramento del dialogo di Gilio nell'ambito della teoria artistica coeva, cfr. S. PIERGUIDI, Dare forma humana a l’Honore et a la Virtù, cit., passim.

166 Trattati d'arte del Cinquecento tra Manierismo e Controriforma, cit., II, p. 609. Cfr. il passo

completo in J. MOLANUS, De picturis et imaginibus sacris, liber unus: tractans de vitandis circa

eas abusibus, et de ea earundem significationibus, Lovanio, Hieronymus Welleus, 1570, c. 98v,

Se Gilio e Molanus si fermano a constatare l'efficacia performativa e disciplinante delle immagini, ivi incluse le personificazioni, Gabriele Paleotti, rivelando un approccio più raffinato, non esita ad affrontare la questione da un punto di vista più propriamente psicologico-conoscitivo.167 Nel secondo libro del

Discorso intorno alle immagini, il cardinale dedica due importanti capitoli alle «pitture delle virtù e dei vizii».168 Dopo aver ricordato – analogamente a quanto

farà trent'anni dopo Cristoforo Giarda nelle sue Icones Symbolicae169 – l'efficacia

con cui le immagini si imprimono nell'animo umano determinando reazioni comportamentali consone, Paleotti sottoscrive il desiderio platonico relativo alla

! "

possibilità di vedere le virtù: «chi potesse con gli occhi rimirare la faccia della virtù et onestà, si accenderebbe di meraviglioso desiderio di quella».170 Purtroppo,

a detta del cardinale, la qualità delle immagini disponibili prodotte dagli antichi e dai moderni è pessima.171 Poiché la virtù e il vizio sono considerabili

esclusivamente nei termini intellettuali del «genere» (la virtù e il vizio generalmente detti) e della «specie» (le virtù e i vizi particolari), risulta «molto

estremamente indicativi: «Propius vero ad nostrum institutum accedunt eae picturae, quae non solum imagines exprimunt, sed simul mores nostros formant, aut ad virtutem instigant. Hae enimi ethicae dici merentur, et medium locum occupant inter prophanas et sacras. Quare eiuscemodi observare non foret inutile. Quomodo videlicet Iustitia depingi soleat, de quo Lud. Coelius Lectionum antiquarum lib. 29. cap. 26 et A. Gellius Noctium Atticarum lib. 14. cap. 4. Quae soleat esse Discordiae imago, quam elegantissimis versibus describit Petronius Arbiter, apud Crinitum lib. 13. cap. 2. Quae Concordiae, quae Amoris, quae Invidiae, ac similium».

167 Cfr. L. SCORRANO, Gabriele Paleotti e il catechismo dei pittori «teologi mutoli», «Studi

rinascimentali», 3 (2005), pp. 113-127; V. CAPUTO, Gli abusi dei pittori e la norma dei

trattatisti: Giovanni Andrea Gilio e Gabriele Paleotti, «Studi rinascimentali», 6 (2008), pp. 99-

110.

168 G. PALEOTTI, Discorso intorno alle imagini sacre et profane, Bologna, Alessandro Benacci,

1582 (cfr. l'ed. moderna in Trattati d'arte del Cinquecento tra Manierismo e Controriforma, cit., II, pp. 119-503). I capitoli in question, ivi, pp. 452-461; II, 43, Delle pitture delle virtù e

dei vizii, e della molta difficoltà in poterle rappresentare; II, 44, Alcuni avvertimenti per rappresentare le imagini delle virtù e vizii.

169 Cfr., qui, § I.1.

170 PALEOTTI, Discorso, cit., p. 453; cfr. PLAT., Phaedr., 250d; Paleotti ricorda anche la formulazione

ciceroniana: «Facies honesti si oculis cerneretur, mirabiles amores excitaret sui» (CIC., De off.,

1.5).

171 PALEOTTI, Discorso, cit., p. 453: «non si vedono disegni antichi né moderni, che in parte alcuna

agguaglino la grandezza et eccellenza loro [della virtù e dell'onestà, ndr], perché, da certe poche imagini in poi, molto ordinarie e trite, della Giustizia, Fortezza, Temperanza o simili, la schiera gloriosa di tante altre virtù resta come derelitta, parendo quasi smarrita la strada di rappresentarle, vedendosi che rari oggi si mettono o più tosto riescono in questa impresa».

difficile impresa il figurarli». Trattandosi infatti di «operazioni dell'intelletto» che si «intendono solamente in astratto», non ci è dato percepirle attraverso i sensi: «non potiamo noi così vestirle che le facciamo venire obietto del senso, né possiamo sottoporre agli occhi del corpo quello ch'è proprio della mente».172 Le

soluzioni adottate dagli artisti si sono rivelate inefficaci e caratterizzate da due errori contrapposti: Paleotti è infatti critico nei confronti delle scelte concettose e incomprensibili di chi, volendo «partirsi dalle cose volgari», ha tentato di esprimere le virtù «con alti concetti e isquisite invenzioni», così come lo è verso la pratica trita delle personificazioni femminili, che avviliscono la dignità dei concetti spingendo l'osservatore ad ammirare la bellezza delle donne rappresentate più che la profondità dell'idea.173

Passando alla pars costruens, il cardinale è tuttavia costretto a riconoscere che la personificazione è l'unica soluzione praticabile con una qualche speranza di esito positivo, analogamente a quanto si fa per rappresentare «le altre cose intelligibili et invisibili, che hanno veramente il loro essere reale, ma non però sottoposto al senso» (canonico è l'esempio degli angeli usualmente rappresentati in forma umana). Il procedimento, in teoria, è semplice: occorre individuare ciò che caratterizza la «sostanza» del vizio o della virtù che vogliamo raffigurare ed esprimerlo attraverso una forma sensibile che sia conveniente. Dopo aver dato alcune indicazioni generiche di contorno (ad una virtù si addice il «nitore», ad un vizio la «bruttezza»), Paleotti suggerisce di seguire l'esempio degli «autori gravi et approvati, che di queste cose hanno ragionato, e vedere come da quelli sono state

172 Ivi, p. 456.

173 Ibidem: «Laonde si vede per esperienza che quelli che sinora hanno voluto rappresentare

alcuna di queste virtù sono ordinariamente incorsi in uno de' due errori, che sono tra sé come estremi: l'uno è stato di quegli che hanno cercato di esprimerle con alti concetti et isquisite invenzioni, per partirsi dalle cose volgari; e questi hanno partorito opera tanto oscura et intricata, che senza l'aiuto appresso d'alcun valente filosofo o teologo non se ne può cavare i piedi, e resta il concetto loro incomprensibile. L'altro è stato di quegli che, volendo farle conoscere al popolo, le hanno figurate, come volgarmente si usa, in forma di donna con gli abiti et insegne che le si danno; il che viene tanto ad abbassare et avilire la grandezza loro, che perdono tutta la dignità e splendore della virtù, talché, dive dovriano queste imagini rapir l'animo per meraviglia et infiammarlo d'ardore di bontade, rendono più tosto negligente il pensiero, parendoli rimirare cosa commune e triviale, come sono le donne che si veggono ogni giorno».

descritte, valendosi del modo, in dipingerle col pennello, che quelli con la penna hanno tenuto».174 Una prima lista di esempi, che include alcuni Padri della Chiesa

e Luciano, si sofferma – citando il passo per intero – sull'Avarizia ritratta efficacemente da Giovanni Crisostomo. Paleotti prosegue poi il breve catalogo facendo riferimento anche ad «alcuni poeti cristiani e gentili» che hanno prodotto «materia non volgare a questo effetto», da Ovidio, Lucano, Silio Italico e Claudiano, all'immancabile Prudenzio, per arrivare fino al recente Battista Mantovano.175 D'altra parte, confermando un leggero scetticismo nei confronti

delle personificazioni di vizi e virtù, l'autore raccomanda la possibilità di raffigurare non l'astrazione personificata, ma personaggi reali che l'abbiano incarnata (spiccano in tale categoria i santi: emblematici i riferimenti a San Giorgio e San Cristoforo).176

Le caute prescrizioni di Gabriele Paleotti si confrontano esplicitamente con le difficoltà insite nel ricorso alle personificazioni nelle arti figurative. A questo proposito, è estremamente significativo che le fonti additate come modelli da imitare siano testuali e non propriamente iconiche, così come la priorità della dimensione verbale-esplicativa emerge alla fine del capitolo sugli Avertimenti per rappresentare le imagini delle virtù e vizii, laddove Paleotti consiglia vivamente al pittore di integrare la figura con le parole:

E sopra tutto, per maggiore distinzione e chiarezza, lodaressimo assai alcuno breve e significante motto, che venisse a dar anima e vita alla imagine; poi che, essendo

174 PALEOTTI, Discorso, cit., pp. 458-459.

175 Interessante, nella sua varietà, la lista di auctoritates ivi, pp. 459-460: «sì come della umiltà e

della fucata bellezza appresso il Nazianzeno; dell'iracondia et invidia appresso il Nisseno; dell'avarizia appresso S. Basilio; della eloquenza e della calunnia appresso Luciano; della giustizia, della discordia, della emulazione, del silenzio e di molte altre appresso altri autori, che ne hanno parlato giudiziosamente e molto a proposito per poter fare un ritratto de' detti loro e rappresentarlo al popolo: sì come Tertulliano dipinge la imagine della pazienza nella orazione dove raccomanda questa virtù a tutti i buoni; e parimente S. Crisostomo descrive diligentemente l'avarizia e le sue parti [...] Potrassi parimente da alcuni poeti cristiani e gentili sciegliere materia non volgare a questo effetto; poi che con l'ingegno suo hanno mirabilmente espresse alcune cose, sì come, presso Prudenzio, della fede et idolatria, della castità e libidine, e di molte altre virtù e vizii; presso il Carmelitano, dei sette vizii capitali; presso Ovidio, della invidia e sua casa; presso Lucano, del lusso e della parsimonia; presso Silio Italico, della virtù e della voluptà; e presso Claudiano, della eternità; e così presso molti altri».

formata di cose forsi non molto note, viene a restare come corpo morto, se non è vivificato da alcune parole o dal luogo dello autore approvato, come di sopra in altro proposito si è discorso.177

Similmente a quanto affermerà di lì a poco Cesare Ripa sull'opportunità di integrare le immagini con le parole, Paleotti spiega che il motto dà «anima e vita» alla figura rappresentata, realizzando compiutamente la personificazione.

III.

Tra teatro del mondo e teatro dell'anima.

Sondaggi sul codice allegorico nel dramma morale del tardo Rinascimento