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4. L A RIFLESSIONE RETORICO POETICA DEL C INQUECENTO

4.1 Considerazioni general

La riflessione sulla prosopopea si inserisce all'interno della più ampia considerazione di cui godono nel Cinquecento le figure di pensiero. Sebbene sia di rado l'oggetto di interventi specifici, essa fa spesso la sua comparsa nei trattati di poetica e retorica. I teorici dell'Umanesimo e del Rinascimento trovano nell'ampia trattazione quintilianea e nella Rhetorica ad Herennium una base solida da cui prendere le mosse, ben presto affiancata dai maneggevoli compendi retorici di Ermogene e, soprattutto, Aftonio. Le traduzioni e i commenti che gli umanisti dedicano a questi testi costituiscono un corpus di riferimento per la classificazione delle figure retoriche e rappresentano il punto di partenza per la riconsiderazione critica delle figure stesse.106 La prosopopea non desta un interesse paragonabile a

quello suscitato dalla metafora, ma la fortuna di cui gode è determinata anche dalla prossimità con l'ambito dei traslati.

L'affinità tra la personificazione e la metafora, suggerita da Aristotele e variamente segnalata nella tradizione retorica greco-latina, aveva trovato una importante formulazione nel Liber de schematibus et tropis di Beda. Definendo la

106 Nel corso della ricerca si è avuto modo di verificare le seguenti edizioni: APHTHONII

Progymnasmata idest praeexercitationes rhetorum […] nuper a Ioanne Maria Cataneo latinitate donata, Bologna, Caligola Bazalieri, 1507 (la «deffinitio ethopoeiae», che include

quella di prosopopea, alle cc. [c iv]v-d ir); APHTHONII SOPHISTAE Progymnasmata partim a

Rodolpho Agricola, partim a Ioanne Maria Cataneo latinitate donata, Parigi, Jean Mace, 1573

(la stessa sezione – unitamente agli scolii dell'umanista tedesco Reinhard Lorich, alle cc. 116r- 125v); O. TOSCANELLA, Essercitii di Aftonio Sofista tirati in lingua regolata italiana, Venezia,

Domenico e G.B. Guerra, 1578 (pp. 105-110). Per la Rhetorica ad Herennium, cfr. la riduzione ad alberi di O. TOSCANELLA, La retorica di M. Tullio Cicerone a Gaio Herennio ridotta in alberi,

con tanto ordine, et con essempi così chiari, & ben collocati, che ciascuno potrà da sé con mirabile facilità apprenderla, Venezia, Ludovico Avanzi, 1561, cc. 171r-172v. Si è tenuto

conto anche del volgarizzamento toscanelliano dell'Institutio quintilianea: O. TOSCANELLA,

L'institutioni oratorie di Marco Fabio Quintiliano retore famosissimo, Venezia, Gabriele

Giolito, 1566 (si vedano in particolare le pp. 302, 458-459). Per quanto riguarda la diffusione di Ermogene, cfr. gli studi di A.M. PATTERSON, Hermogenes and the Renaissance: Seven Ideas

of Style, Princeton, Princeton University Press, 1970; e più di recente l'inquadramento di H.

GROSSER, La sottigliezza del disputare. Teorie degli stili e teorie dei generi in età

«tropica locutio» come «translata dictio a propria significatione ad non propriam similitudinem necessitatis aut ornatus gratia», il Venerabile offre una nozione ampia di tropo che, realizzandosi al meglio nella metafora, individua all'interno di essa la ratio che sta alla base del procedimento della personificazione:107 tra i

quattro modi della metafora, definita semplicemente come «rerum verborumque translatio», è contemplato il passaggio «ab animali ad inanimale», ossia l'attribuzione ad esseri inanimati di prerogative proprie degli essere animati.

Le definizioni offerte in sede trattatistica sono per lo più sintetiche e ripetitive, direttamente derivate dalle fonti classiche. I teorici integrano però l'esemplificazione canonica con riferimenti alla letteratura volgare, rivelando talvolta dinamiche di lettura dei testi letterari che tendono ad inquadrare i “nuovi” classici nelle griglie critiche ereditate dall'antichità. Pier Francesco Giambullari accosta per esempio nelle sue Regole della lingua fiorentina la personificazione ciceroniana della Patria alle anime, agli angeli e ai demoni cui Dante ha dato voce nella Commedia; cita inoltre come esempio di prosopopea la Giustizia che prende la parola nella canzone dantesca Tre donne intorno al cor e le capre che parlano «belando» in un'egloga di Luigi Alamanni.108 Ad un simile coacervo di casi tanto

diversi segue un'ulteriore specifica dedicata alla possibilità di «attribuire il parlare alle cose inanimate, o che non lo hanno», intesa però come apostrofe interlocutoria rivolta ad oggetti inanimati.109 Meno disordinata, ma ugualmente

sintetica è la definizione di Giovan Giorgio Trissino: nella sua Poetica egli sottolinea la «vaghezza» della prosopopea ricordando Omero, Virgilio, Dante e Petrarca, canone di riferimento che tende a ripetersi nella trattatistica coeva e

107 BEDA, De schem. et trop., 2.1.8-10. La «translata dictio» è esemplificata nelle glosse bediane

attraverso un caso evidente di personificazione metaforica, ossia l'attribuzione analogica di tratti umani ad un oggetto inanimato: «Non ad proprium id est quando mons dicitur habere caput et brachia et humeros et barbam» (si cita dall'ed. del Corpus Christianorum, Series

Latina, 123A, a c. di C.B. Kendall, pp. 59-171).

108 P. GIAMBULLARI, Regole della lingua fiorentina, a c. di I. Bonomi, Firenze, Accademia della

Crusca, 1986, § 367.

109 Ibidem: «ma parlando ad esse cose senza anima; cosa familiarissima a' poeti nostri che parlano

alle fonti, all'erbe, ed a' fiori; come Virgilio alla cenere di Troia, et alla suprema arsura de' suoi».

posteriore.110

Le definizioni di Giambullari e Trissino non contemplano la declinazione teatrale della personificazione, non estranea alla tradizione classica e legittimata da varie fonti antiche (si pensi alle osservazioni di Rutilio Lupo sull'impiego della prosopopea nei prologhi teatrali nonché alla personificazione menandrea del Biasimo, citata come esempio da Ermogene e Aftonio).111 Più ricettivo è in tal

senso Giulio Cesare Scaligero che nei Poetices libri septem si mostra ben consapevole della necessità di distinguere ambiti d'applicazione diversi del medesimo espediente retorico. La prosopopea è infatti concepita da Scaligero come una figura duplice: il primo modo («ubi ficta persona introducitur») corrisponde ad invenzioni poetiche come la Fama e la Fame in Virgilio e Ovidio, o ancora le Furie, l'Ira e il Furore secondo quanto affermato da Quintiliano; il secondo modo non implica tanto la finzione di una persona, quanto l'attribuzione di un discorso ad un determinato personaggio. Il primo modo della prosopopea, che non è una semplice figura, ma una «pars argumenti poetici», trova applicazione «in scaenis».112 Purtroppo la trattazione relativa alle prosopopee

110 G.G. TRISSINO, La quinta et la sesta divisione della Poetica, Venezia, Giovanni Bonadio, 1562,

c. 44r-v (si cita il testo da Trattati di poetica e retorica del Cinquecento, a c. di B. Weinberg, Bari, Laterza, 1970-1974, II, pp. 7-90: 84-85): «La prosopopeia ancora si usa, la quale è una formazione di persone nuove alle quali si attribuiscono varii e diversi sermoni. E queste non solamente si fingono di uomini vivi, ma di morti, et ancora di angeli, e di dèi, e di cose inanimate come sono arbori, monti, città, e simili. E questa cosa usandola bene dà grandissima vaghezza ai poemi, di che ne è piena l'opera di Omero, e quella di Virgilio, e quella di Dante, e quella del Petrarca; il quale non solamente forma la persona della sua Laura già morta che li parla, ma ancora forma la persona di Amore che litiga con esso, e quella della Morte, e quella del Tempo, et altre. Alle quali si denno dare i propri e convenienti costumi». Cfr., sulla stessa linea, A. LIONARDI, Dialogi della inventione poetica, Venezia, Plinio Pietrasanta, 1554, pp. 65-

66 (cfr. Trattati di poetica e retorica..., cit., II, pp. 213-292: 273); G. DENORES, Breve trattato

dell'oratore, Padova, Simone Galignani, 1574, c. 26r (cfr. Trattati di poetica e retorica..., cit.,

III, pp. 103-134: 132); C. PELLEGRINO, Il Carrafa, o vero della epica poesia, Firenze, Iacopo

Sermartelli, 1584, p. 136 (cfr. Trattati di poetica e retorica..., cit., III, pp. 309-344: 316); N. ROSSI, Discorsi intorno alla tragedia, Vicenza, Giorgio Greco, 1590, c. 34v (cfr. Trattati di

poetica e retorica..., cit., IV, pp. 61-139: 99).

111 Interessante a questo proposito quanto si legge in uno scolio al brano di Aftonio sulla

prosopopea nell'ed. APHTHONII SOPHISTAE Progymnasmata partim a Rodolpho Agricola, cit., dove

il Biasimo menandreo è accostato alla Pazzia dell'erasmiano Encomium Moriae (ivi, c. 118v).

112 JUL. CAES. SCALIG., Poet., 3.47, 422-424: «Prosopopoeia vero duplex est. Primus modus, ubi

teatrali che l'umanista promette di includere alla fine del libro non fu mai completata. Dobbiamo quindi limitarci a prendere atto dell'attenzione che egli mostra per questo particolare impiego della figura.

Piena consapevolezza dell'ampio spettro di possibilità offerte dalla prosopopea affiora nell'Arte poetica di Antonio Sebastiano Minturno, che propone una classificazione della figura tra le più esaustive di metà Cinquecento. L'umanista individua sette «modi» in cui si realizza la prosopopea:

1. dando voce a cose insensate o ad animali bruti; 2. dando forma alle cose che non l'hanno;

3. dimostrando i ragionamenti, e gli affetti espressi degli huomini; 4. introducendo ragionamenti di finte persone;

5. con parlar finto d'alcuna persona incerta; 6. con dimostrare senza la presenza della persona; 7. con parlare obliquo.113

I numerosi esempi prodotti da Minturno provengono per lo più da Virgilio e dal Petrarca di Trionfi e Canzoniere, attestando l'impiego della figura nella lirica e nell'epica (l'esclusione dell'oratoria a favore di esemplificazioni tratte dalla poesia si spiega con la natura del trattato, programmaticamente destinato all'arte poetica). Il «modo» che ci riguarda più da vicino è il secondo:

Diamo anco forma, e volto alle cose, che non hanno figura: sì come alla Fama Virgilio; alla Morte, e alla Vita Ennio; alla Fame, e all'Invidia Ovidio; alla Ricchezza, e alla Povertà Aristophane; alla Morte altresì, e alla Fama, ad Amore, al Tempo, alla Eloquenza, e alla Sapientia il Petrarca. Et io, alla Peste in una delle mie argumenti poetici. Hanc fictionem appellat Quintilianus êdeîn, ut Dirarum et Irae et Furoris. Quales multae in Scaenis a nobis in fine huius libri declaratae sunt» (si cita dall'ed. J.C. SCALIGER, Poetices libri septem, ed. L. Deitz-G. Vogt Spira, Stuttgart, Fromman, 1993-2003, 5

voll.). Il riferimento quintilianeo va ovviamente a QUINT., Inst. or., 9.2.36.

113 A.S. MINTURNO, L'arte poetica, Venezia, Giovanni Andrea Valvassori, 1564, pp. 393-395; ma

cfr. anche la più stringata definizione in IDEM, De poeta, Venezia, Giordano Ziletti, 1559, p. 522

(«Conformatio. Age vero quam saepe eloquentia, quae muta sunt, inducuntur, ut Achillis equus ab Homero, Polydori cinis a Marone, amnes ab utroque formaque induuntur expertia figurae, ut famam Virgilius finxit, mortem, vitamque Ennius, famem, invidiamque Ovidius, opulentiam et paupertatem Aristophanes. Omitto, ut hominum sermones, ut mores, ut affectus, ut vultus exprimantur. Haec enim fere sunt, in quibus tota versatur poesis, atque his quidem disputationibus conati sumus, ut quemadmodum ea describantur, doceamus, sed tamen privatim id erit eiusmodi, [...]»).

Selve Latine; e in un'altra al Piacere, e alla Vertù.114

La casistica proposta è variegata: essa include – come già in Quintiliano – le personificazioni di Virgilio, Ovidio ed Ennio, accostate alle analoghe volgari dei Trionfi petrarcheschi e delle Selve del medesimo Minturno.115 La serie è però

integrata da un interessante esempio teatrale: le personificazioni di Ricchezza e Povertà, personaggi del Pluto di Aristofane. Con il riferimento alla commedia aristofanea, che risente forse del rinato interesse cinquecentesco per il commediografo greco, Minturno accomuna ambiguamente nel segno del dar «forma e volto alle cose che non hanno figura» prosopopee tipologicamente diverse: mentre la Fama, l'Invidia e le altre personificazioni di marca virgiliano- ovidiana vivono all'interno della narrazione poetica, dando adito a descrizioni spesso virtuosistiche del loro aspetto e dei loro attributi, Ricchezza e Povertà sono veri e propri personaggi che prendono forma e vita attraverso le parole che pronunciano. La distinzione tra queste due “funzioni”, messa in evidenza da James Paxson nel suo importante studio sulla poetica della personificazione, è importante nell'ottica di una classificazione della figura.116 La definizione di

Minturno è ambigua perché evidenzia l'analogia sostanziale tra una personificazione evocata all'interno del discorso poetico e una personificazione che di quel discorso si fa interprete diretta – si tratta, in entrambi i casi di dar corpo ad un'entità astratta –, ma non ne rileva la differenza formale. D'altro canto, similmente a Giambullari, Minturno ascrive al medesimo «modo» le apostrofi petrarchesche all'Invidia, alla Morte e alla Terra, confermando la flessibilità del proprio schema.

Per una chiara individuazione della specificità d'uso delle personificazioni in ambito teatrale occorre attendere la grande opera di esegesi aristotelica di Ludovico Castelvetro. Nella sezione della Poetica d'Aristotele vulgarizzata e

114 MINTURNO, L'arte poetica, cit., pp. 393-394. 115 QUINT., Inst. or., 9.2.36.

sposta dedicata ai tre modi dell'imitazione, il commentatore si sofferma con precisione sui «parlatori introdotti nella narrazione». Leggiamo il brano del filosofo greco nella traduzione castelvetrina:

Ora [segue] appresso la terza differenza di queste, [cioè delle rassomiglianze], la quale è come altri possa rassomigliare ciascuna maniera di queste [cioè delle differenze]. Percioché aviene che alcuna volta si fa la rassomiglianza e con quelle medesime cose e di quelle medesime cose, o raccontando altri o divenendo un'altra cosa, secondo che fa Omero, o come [standosi] quello stesso e non tramutato, o [essendo] tutti i rassomiglianti come occupati in facende e operanti.117

L'imitazione poetica può essere di tre tipi: narrativa (il poeta non abbandona mai la propria persona); mimetica (gli attori interpretano i personaggi); mista (il poeta racconta, ma cede talvolta la parola ai personaggi «divenendo un'altra cosa» da sé: è questa, come si è visto, una delle possibili declinazioni della prosopopea). Come osserva Castelvetro, Aristotele usa il «sesso neutro» nella formula «divenendo un'altra cosa [! !eterÒn ti gignÒmenon]» perché i poeti non introducono a parlare solamente «o uomo o donna, ma altra cosa ancora». Esistono infatti vari tipi di «parlatori introdotti nella narrazione»: oltre agli uomini, alle divinità, agli animali «sensibili e vegetabili», alle «cose insensate e vegetabili», il commentatore ricorda la categoria che ci interessa:

quelle affezzioni o vizii o virtù dell'animo nostro che appresso la religione pagana non hanno deità personale né certo nascimento come hanno gli altri suoi iddii, come sono invidia, odio, perseveranza, castità, alle quali aggiungere si possono le condizioni e gli stati degli uomini, come ricchezza, povertà, gloria, infamia, nobiltà, viltà e simili; e di questa schiera sono ancora le città e le provinzie, le quali cose tutte si figurano in forma di donna o d'uomo e s'attribuisce loro la favella umana e sono stimate accostarsi alla natura divina.118

Il catalogo castelvetrino è inceccepibile nella sua completezza: Ludovico elenca alcuni generi (affezioni, vizi, virtù, condizioni e stati umani, città e province) che coprono gran parte del vasto repertorio di soggetti personificabili e individua le

117 L. CASTELVETRO, Poetica d'Aristotele vulgarizzata et sposta, Vienna, Caspar Stainhofer, 1570 (si

cita dall'ed. a c. di W. Romani, Bari, Laterza, 1978-1979, I, p. 65; cfr. ARIST., Poet., 1448a 19-

24).

due componenti essenziali della personificazione (forma e favella umane) evidenziandone la vicinanza alla rappresentazione antropomorfa di divinità.119

Nelle pagine suggestive in cui Castelvetro si sofferma sul modo in cui il poeta deve assegnare i nomi ai propri personaggi, egli offre inoltre alcuni esempi concreti di «prosopopee di cose senza anima e invisibili» in ambito comico (le personificazioni aristofanee già citate da Minturno) e tragico: Bía (la Forza) e Kr£toj (il Potere) nel Prometeo legato di Eschilo.120 Analogamente a quanto accade per le metafore ben riuscite, prosopopee di tal fatta colpiscono e dilettano il pubblico – come afferma il commentatore in un altro passo della Poetica vulgarizzata – per la loro «novità miraculosa e non usitata».121