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Come mostrano i testi di Bonciani, Gilio e Paleotti su cui ci si è soffermati, la prosopopea è figura particolarmente indicata per l'allestimento – reale o virtuale – di quel teatro degli affetti e delle passioni che informa di sé la cultura poetico- figurativa rinascimentale. Non è un caso che, avanzando verso la fine del Cinquecento, il ricorso alle personificazioni si intensifichi specialmente in ambito teatrale, trovando due canali privilegiati nella festa di corte e nella drammaturgia confessionale. Se nella prima è soprattutto la dimensione visiva-spettacolare ad imporsi, la seconda tende a privilegiare la forza icastica e persuasiva della parola, confermando peraltro quel nesso tra teatro e tradizione oratoria che aveva trovato una prima affascinante formulazione nell'Institutio di Quintiliano.

Non stupisce pertanto ritrovare la prosopopea nel Cannocchiale aristotelico di Emanuele Tesauro, che la include tra le cosiddette «figure patetiche», ovvero «forme esprimenti alcun movimento dell'animo».1 Prendendo le mosse da una

teoria della conoscenza di stampo aristotelico, Tesauro raggruppa le figure che consentono di rappresentare «obietti non esistenti» (finzione, immaginazione, espressione, prosopopea, apostrofe) e assegna il primato alla prosopopea, «figura infra tutte l'altre miracolosa, che dona a' mutoli la favella».2 Come spiega l'autore

del Cannocchiale, le figure patetiche sono proprie dell'arte «histrionica» perché «rendono la oration patetica, et consequentemente alquanto tragica e teatrale»: in questo si distingue, come opportunamente sottolineato da Aristotele nel terzo

1 E. TESAURO, Il cannocchiale aristotelico, o sia idea dell’arguta et ingeniosa elocutione che

serve a tutta l’arte oratoria, lapidaria et simbolica esaminata co’ principii del divino Aristotele, Torino, Bartolomeo Zavatta, 1670, p. 212.

2 Ivi, p. 220.

della Retorica, lo stile «hipocritico, cioè simulato», da quello «historico». Mentre infatti quest'ultimo «rappresenta mortamente il concetto nelle morte pagine, con un dir piano e schietto», lo stile «hipocritico», «agitato da queste forme patetiche et contentiose, imprime non sol le parole nell'orecchio o il concetto nella mente, ma l'animo di chi parla nell'animo di chi ascolta».3 La parola viva dello stile

«hipocritico cioè simulato», contrapposta alla parola morta di quello «historico», è dunque una parola che, oltre a rendere più agevole la trasmissione dei contenuti, è in grado di agire sull'animo dell'ascoltatore, manipolarlo, (ri)formarlo e, all'occorrenza, disciplinarlo.

La provenienza di Tesauro dalle file dell'ordine gesuitico, che egli abbandonò nel 1635, è una traccia di fondamentale importanza: la formazione del letterato in seno alla Compagnia di Gesù, come è stato più volte sottolineato, è decisiva nell'elaborazione di un sistema retorico-poetico di assoluta originalità che trova nelle potenzialità evocative e conoscitive del linguaggio verbale il proprio perno.4 Le considerazioni di Tesauro sullo stile «hipocritico» sono perfettamente

in linea con il ruolo che la parola gioca nei programmi pedagogici propri della tradizione gesuitica. Come mostrato a più riprese da Marc Fumaroli, teatro e oratoria si saldano nel progetto culturale dei Gesuiti, finalizzato alla formazione non solo dei membri dell'Ordine, ma anche di laici che, spesso destinati a

3 Ivi, pp. 209-210.

4 Ci si limita ad alcuni rimandi essenziali. Oltre alle pagine dedicate a Tesauro in C. SCARPATI-E.

BELLINI, Il vero e il falso dei poeti. Tasso, Tesauro, Pallavicino, Muratori, Milano, Vita e

Pensiero, 1990, pp. 35-72, e ai saggi introduttivi alla rist. anast. cit. del Cannocchiale, si vedano alcuni recenti contributi che si soffermano su vari aspetti del profilo culturale tesauriano: M. FIORANI, Aristotelismo e innovazione barocca nel concetto di ingegno del

Cannocchiale aristotelico di Tesauro, «Studi secenteschi», 46 (2005), pp. 91-129; A. BENASSI,

Lo “scherzevole inganno”. Figure ingegnose e argutezza nel “Cannocchiale aristotelico” di Emanuele Tesauro, «Studi secenteschi», 47 (2006), pp. 9-55; M. BISI, Visione e invenzione. La

conoscenza attraverso la metafora nel Cannocchiale aristotelico, ivi, pp. 57-87. Per i rapporti

di Tesauro con la tradizione gesuitica, cfr. le indicazioni offerte da G. DAMIANO, Il Collegio

gesuitico di Brera: festa, teatro e drammaturgia tra XVI e XVII sec., in La scena della gloria. Drammaturgia e spettacolo a Milano in età spagnola, a c. di A. Cascetta e R. Carpani, Milano,

Vita e Pensiero, 1995, pp. 473-506; R. CARPANI, Hermenegildus/Ermegildo: la tragedia

cristiana nell'opera di Emanuele Tesauro, «Comunicazioni sociali», 19 (1997), 2, pp. 181-220.

Si vedano infine i capitoli dedicati a Tesauro in ZANLONGHI, Teatri di formazione, cit.

posizioni di prestigio sociale, sappiano calcare al meglio la scena del mondo.5 Tale

modello, che non si esaurisce nell'esperienza gesuitica, ha un'ampia diffusione in Europa a cavallo tra Cinque e Seicento. Il teatro classico del grand siècle francese lo farà suo reinterpretando la componente allegorico-morale propria della drammaturgia confessionale nell'ottica della rappresentazione dei moeurs e della costruzione di caratteri psicologicamente complessi.

A differenza di quanto accade in Inghilterra, Germania e Spagna, la Francia si mostra infatti diffidente nei confronti dell'impiego dei personaggi allegorici e, più specificamente, delle astrazioni personificate. Come ha messo in luce Chris Rauseo, mentre il teatro barocco inglese, quello tedesco e gli autos sacramentales spagnoli continuano a fare ampio uso di personificazioni allegoriche che rappresentano funzioni morali,6 i drammaturghi francesi, in ossequio alla poetica

classicista del verosimile, preferiscono dar corpo a tali funzioni attraverso la caratterizzazione psicologica di personaggi che agiscono all'interno di un'azione opportunamente congegnata.7 Il ricorso all'espediente della personificazione

5 Si vedano le sintetiche considerazioni sulla «parola parlata» come momento essenziale della

pedagogia classicista in FUMAROLI, Eroi e oratori, cit., pp. 15-25; in particolare:

«l'interpretazione drammatica era il cardine centrale nella genesi di una persona civile, di un io eloquente, adatto al dialogo vivo con l'altro» (ivi, p. 15); e ancora: «ricollegata dall'esercizio retorico all'esperienza della parola immagazzinata nelle biblioteche, il teatro è il vestibolo in cui la parola diventa atto e si prepara ad affrontare i rischi del gran teatro del mondo» (ivi, p. 18). Preziosa ricognizione sulla prosopopea nelle retoriche gesuitiche in FUMAROLI, L'âge de

l'éloquence, cit., pp. 269-270 (dove l'autore si sofferma sugli Enrichissements de l'éloquence di

Étienne Binet, 1621); 358-360.

6 C. RAUSEO, Moeurs et Maximes. Personnification, représentation et moralisation théâtrales, du

«Gran teatro del mundo» au «Malade imaginaire», Heidelberg, Universitätsverlag C. Winter,

1998, p. 10. Per un inquadramento sulla componente allegorica nella drammaturgia coeva in Inghilterra e Spagna, cfr.: H. ZIMMERMANN, Die Personifikation im Drama Shakespeares,

Heidelberg, Quelle & Mayer, 1975; A.A. PARKER, The Allegorical Drama of Calderón. An

introduction to the Autos Sacramentales, Oxford, Dolphin Book, 1943. Per la Germania, resta

ovviamente prioritario il riferimento a W. BENJAMIN, Il dramma barocco tedesco, Torino,

Einaudi, 1999; ma cfr. anche A. SCHÖNE, Emblematik und Drama im Zeitalter des Barock,

Munich, Beck, 1968; e, incentrato sulla figura di Andreas Gryphius, D.W. JÖNS, Das “Sinnen-

Bild”. Studien zur allegorischen Bildlichkeit bei Andreas Gryphius, Stuttgart, Metzler, 1966.

7 RAUSEO, Moeurs et Maximes, cit., p. 16: «C'est pourquoi la personnification se passe de

psychologie à ses risques et périls: le Vice et la Vertu, la Gloire et l'Amour, la Religion et le Temps seront d'autant plus efficaces sur le plan dramaturgique qu'on pourra croire à la réalité des rôles dans lesquels ils s'incarnent. Les rapports qu'entretiennent, dans la constitution du rôle, la psychologie et la personnification allégorique ne sont pas dialectiques; on aurait tort de croire à leur antinomie».

risponde evidentemente ad esigenze diverse: in un'ottica del tutto anti-realistica, non si tratta di dar vita ad un carattere, ma – come afferma Calderón de la Barca a proposito della sua opera – rappresentare un'idea.8 Parafrasando il drammaturgo

spagnolo, Rauseo parla di «sermons imagés»: il codice allegorico basato sulle personificazioni permette infatti di portare sulla scena quei contenuti morali e quelle verità teologiche che, fatte immagini, danno vita al calderoniano «gran teatro del mundo».

Il quadro delineato dallo studioso non contempla la situazione italiana, ma nelle sue considerazioni più generali offre spunti critici e metodologici validi anche per un approccio al nostro teatro confessionale del tardo Rinascimento. Come si è detto, esso non si esaurisce nell'esperienza gesuitica, che è stata peraltro oggetto di studi numerosi e illuminanti.9 Il teatro della Compagnia di Gesù

rappresenta infatti solo il capitolo più vistoso di un fenomeno d'ampio raggio che necessita ancora di approfondimenti specifici per poter essere più compiutamente messo a fuoco. Sullo sfondo della drammaturgia confessionale in latino, convivono esperienze di teatro etico-morale in volgare che costituiscono un importante tassello nella storia della pedagogia e della formazione cristiane.

Fortemente improntato al recupero di forme già proprie del teatro medievale, solo apparentemente oscurate dalla rifioritura della drammaturgia d'ispirazione classica, il teatro italiano d'argomento religioso e morale tra fine Cinque e inizio Seicento acquisisce progressivamente uno statuto ambiguo che,

8 P. CALDERÓN DE LA BARCA, La segunda sposa y triunfar muriendo, in IDEM, Obras completas,

Madrid, Aguilar, 1991, III, p. 427: il drammaturgo parla del proprio teatro religioso basato sull'impiego di allegorie personificate come di «Sermones / puestos en verso, en idea / representable, cuestiones / de la Sacra Teología / que no alcanzan mi razones / a explicar ni comprender». Molto fine il rilievo di Rauseo sulla teatralizzazione calderoniana del proprio pensiero: «Calderón, en passant de l'idée à l'acte, n'étoffe pas son concept, ne lui donne pas chair et os; il le dépouille, jusqu'à ce que le concept ressemble au Pauvre dans le Gran Teatro, auquel le Monde, au lieu de lui distribuer les attributs de son rôle, ôte les derniers haillons. Les

images, chez Calderón, sont d'une richesse, d'un foisonnement, parfois aussi d'une ambiguïté

sans pareils, comme nous aurons l'occasion de le voir; mais les attributs de l'idée ne sont souvent que des points de repère pour la commodité du spectateur» (RAUSEO, Moeurs et

Maximes, cit., p. 23).

9 Cfr. la bibliografia citata qui, § I.2, nota 42.

proprio in virtù della sua funzione formativa, tende a rendere labili i confini tra destinazione scenica e lettura personale con finalità meditative. Un esempio lampante di tale ambiguità è dato dalla produzione teatrale del medico bresciano Fabio Glissenti, su cui ci si soffermerà nell'ultima e più consistente parte del lavoro. Il teatro del mondo – metafora strutturale nell'opera morale di Glissenti – e il teatro dell'anima, spazio mentale più che reale, destinato alla messa in scena interiore del dramma universale della vita umana, sono i termini entro i quali si muove peraltro gran parte della produzione drammatica confessionale del tempo. L'editoria teatrale di primo Seicento offre in tal senso documenti di notevole interesse su cui vale la pena soffermarsi per individuare almeno gli aspetti più rilevanti del fenomeno.