La tradizione retorica greco-latina individua nella prosopopea una figura di pensiero che permette all'oratore di introdurre all'interno del discorso una voce diversa dalla propria (all'occorrenza la patria personificata, gli antenati, un personaggio storico, un personaggio generico, ecc.) al fine di incrementare l'evidentia del discorso e colpire emotivamente l'uditorio. Demetrio l'annovera nel trattato De elocutione tra le figure di pensiero che contribuiscono allo stile veemente (deinÒj): «può anche essere impiegata ai fini della veemenza la figura di pensiero chiamata prosopopea [proswpopoi!a]. Immaginate che i vostri antenati o l'Ellade o la vostra terra natale, assumendo la forma di donna, così vi si rivolgesse e così vi rimproverasse».53 In uno scatto di veemenza l'oratore può
dunque, grazie alla prosopopea, dare la parola ai morti o ad entità inanimate. Il retore cita di seguito un'apostrofe che gli antenati rivolgono ai loro discendenti nell'epitaffio di Aspasia, rievocato all'interno del Menesseno platonico. Come specificato da Demetrio, l'oratore non parla qui in prima persona («oÙk æk toà êdíou prosèpou l"gei»), ma a nome degli antenati. Si tratta, in sostanza, di abbandonare la propria !persona" per indossare – proprio come se fosse una maschera – quella di altri e darle voce.
Le potenzialità della figura sono individuate dal retore in questi termini: «la prosopopea rende il passo molto più efficace [pol# g$r ænerg"stera ka ì deinÒtera faínetai ØpÕ tîn prosèpwn], o piuttosto lo rende semplicemente drammatico [m©llon d% dr£mata ¢tecnîj g ínetai]».54 Assumere una persona
diversa dalla propria e darle voce al fine di aumentare il dato patetico incrementa l'azione insita nel discorso (non è un caso che Demetrio ricorra all'aggettivo ænerg"stera, dimostrazione del legame tra il procedimento della personificazione e la categoria retorica di æn"rgeia) rendendolo non solo più efficace, ma propriamente drammatico. Il retore riconosce quella potenzialità teatrale della
53 DEMETR., De eloc., 265. 54 Ivi, 266.
prosopopea che abbiamo visto suggerita anche da Fontanier. L'idea che l'oratore possa dar voce a persone differenti sta infatti alla base del legame tra prosopopea e dialogismo: è questo – lo sappiamo bene dopo i preziosi studi di Marc Fumaroli – uno dei nodi più rilevanti che legano saldamente oratoria e teatro nel segno dell'arte retorica.55
Il passo di Demetrio, per quanto breve e privo di un'istanza definitoria, marca un'affinità importante tra prosopopea e personaggio: le prosopopee intese come voci chiamate ad esprimersi con la propria identità all'interno del discorso oratorio (monologico per statuto, ma potenzialmente dialogico) non sono dissimili dalla funzione che i personaggi incarnano nei testi teatrali, come sarà puntualmente sottolineato dai lettori cinquecenteschi del trattato.56
Per una compiuta definizione della figura occorre però guardare alla Rhetorica ad Herennium che ha il merito di fornire un primo equivalente latino del greco proswpopoi!a. Il termine conformatio implica un rilevante slittamento di senso poiché con-formare, ossia dotare di una forma, ha – come si è visto nel capitolo precedente – un significato più generico dell'originale prÒswpon poieín:
Conformatio est cum aliqua quae non adest persona confingitur quasi adsit, aut cum
res muta aut informis fit eloquens et forma ei et oratio adtribuitur ad dignitatem
55 Si vedano il fondamentale M. FUMAROLI, L'âge de l'éloquence. Rhétorique et «res literaria» de
la Renaissance au seuil de l'époque classique, Genève, Droz, 1980; ma anche la raccolta di
saggi Eroi e oratori. Retorica e drammaturgia secentesche, Bologna, il Mulino, 1990, in cui l'autore, pur soffermandosi su temi e testi del grand siècle francese, offre numerose considerazioni sul rapporto oratoria/teatro nella tradizione retorica classica.
56 Che l'attributo !drammatico non sia utilizzato in senso generico, ma con specifico riferimento"
ai generi teatrali emerge da almeno due delle traduzioni latine di Demetrio più diffuse nel Cinquecento. L'umanista polacco Stanislaus Ilovius fa riferimento al genere comico: «Multo enim illustriora et graviora videntur, eo quod inducta est persona patrum, imo vero plane quandam comoediam referunt» (DEMETRII PHALEREI De elocutione liber a Stanislao Ilovio
Polono Latinitate donatus et annotationibus illustratus, Basilea, Johannes Oporinus, 1552, p.
163); cfr. la successiva traduzione di Pietro Vettori: «multo enim evidentiora et graviora esse perspiciuntur vi personarum illarum: potius autem dramata fiunt» con la glossa: «potius autem dramata, et instar fabularum scenicarum quippiam illo pacto efficitur» (PETRI VICTORII
Commentarii in librum Demetrii Phalerei De elocutione positis ante singulas declarationes Graecis vocibus auctoris, iisdemque ad verbum Latine expressis, Firenze, Bernardo Giunta,
adcommodata aut actio quaedam.57
Si parla di conformatio quando una persona assente («aliqua quae non adest persona») viene immaginata come presente; o ancora quando ad una cosa muta e priva di forma («res muta aut informis») si conferiscano parola, forma, discorso ed azione confacenti al suo grado. L'esemplificazione addotta dall'anonimo autore del trattato è in linea con quella demetriana: la città si rivolge al proprio popolo, il defunto Lucio Bruto ai suoi concittadini.58 L'oratore può introdurre quindi una
nuova persona dando voce ad esseri muti e inanimati («Haec conformatio licet in plures res, in mutas atque inanimas transferatur») al fine di incrementare il dato patetico e la presa sul pubblico («Proficit plurimum in amplificationis partibus et conmiseratione»).59
Prossime alla conformatio sono nella Rhetorica ad Herennium figure quali l'effictio, la notatio e la sermocinatio, accomunate dalla finalità di rendere vivido il discorso oratorio. L'effictio è l'arte del ritrarre in parole l'aspetto fisico di qualcuno;60 la notatio è la descrizione di un individuo basata sui segni (signa o
notae) che gli sono propri e lo caratterizzano in quanto tale: «Notatio est cum alicuius natura certis describitur signis quae, sicuti notae quaedam, naturae sunt adtributa».61 L'istanza locutiva è esplicitamente demandata alla sermocinatio,
figura che, tradendo una certa affinità con la prosopopea, prevede l'effettiva attribuzione di parole ad uno o più personaggi: «Sermocinatio est cum alicui personae sermo adtribuitur et is exponitur cum ratione dignitatis».62
57 Rhet. ad Her., 4.66. Cfr. il brano cit. di CIC., De or., 2.87.357.
58 Ibidem: «Quodsi nunc haec urbs invictissima vocem mittat, non hoc pacto loquatur: “Ego illa
plurimis tropeis ornata, triumphis ditata certissimis, clarissimis locupletata victoriis, nunc vestris seditionibus, o cives, vexor; quam dolis malitiosa Kartago, viribus probata Numantia, disciplinis erudita Corinthus labefactare non potuit, eam patimini nunc ab homunculis deterrumis proteri atque conculcari?”. Item: “Quodsi nunc Lucius ille Brutus reviviscat et hic ante pedes vestros adsit, non hac utatur oratione: “Ego reges eieci, vos tyrannos introducitis; ego libertatem quae non erat peperi, vos partam servare non vultis; ego capitis mei periculo patriam liberavi, vos liberi sine periculo esse non curatis?”».
59 Ibidem.
60 Ivi, 4.63: «Effictio est cum exprimitur atque effingitur verbis corporis cuiuspiam forma, quoad
satis sit ad intellegendum».
61 Ibidem. 62 Ibidem.
Su tale genere di espedienti retorici si sofferma anche Cicerone nel terzo libro del De oratore e, più precisamente, nella rassegna delle principali figure di pensiero, dove propone la felice formula «personarum ficta inductio»:
Morum ac vitae imitatio vel in personis vel sine illis, magnum quoddam ornamentum orationis et aptum ad animos conciliandos vel maxime, saepe autem etiam ad commovendos; personarum ficta inductio, vel gravissimum lumem augendi.63
Affine alla notatio erenniana, l'imitazione dei mores e della vita di una persona reale («in personis») o fittizia («sine illis») ha una forte presa sull'uditorio; è tuttavia ritenuta ancor più efficace in termini di amplificazione la «personarum ficta inductio», ossia l'introduzione fittizia di un personaggio cui l'oratore cede la parola (la formula, come vedremo, sarà ricalcata con precisione dai retori greci dei primi secoli dopo Cristo).
Lo spettro delle possibilità si amplia nei Topica dove, esaminando il genere dei ficta exempla, Cicerone concede a filosofi e oratori di far parlare le cose mute: «in hoc genere oratoribus et philosophis concessum est, ut muta etiam loquantur, ut mortui ab inferis excitentur».64 Ancor più articolata la casistica prodotta nel De
inventione: la capacità di parlare («oratio») può essere attribuita «ad mutas et expertes animi res», ossia a cose mute e inanimate, provocando diletto e partecipazione emotiva nell'ascoltatore («ut si ad equum, domum, vestem sermonem alicuius accommodes, quibus animus eorum qui audiunt et aliquem dilexerunt, vehementer commovetur»).65 Alla prosopopea vulgata del defunto si
aggiungono quindi prosopopee di animali ed oggetti (è questo il principio che sta alla base del genere dell'apologo). L'espediente retorico trova riscontri in altri brani ciceroniani dell'Orator e delle Partitiones oratoriae,66 ma l'occorrenza del
63 CIC., De or., 3.53.204-205. 64 CIC., Top., 45.
65 CIC., De inv., 109.
66 Cfr. CIC., Or., 138: «Ut saepe cum iis qui audiunt, non numquam etiam cum adversario quasi
deliberet; ut hominum sermones moresque describat; ut muta quaedam loquentia inducat [...]»;
Part. or., 16.55: «Rerum autem amplificatio sumitur eisdem ex locis omnibus e quibus illa quae
dicta sunt ad fidem; maximeque valent [...] fictae etiam personae, muta denique loquantur [...]» (per il rapporto tra prosopopea e amplificatio, cfr. il passo cit. di De or., 3-53.204-205).
De inventione è particolarmente significativa perché parte integrante della trattazione relativa all'evidentia, obiettivo primario dell'oratore.67
L'applicazione della prosopopea a generi diversi da quello oratorio è ventilata dal retore Rutilio Lupo nei suoi Schemata lexeos, agevole manualetto destinato ad una certa fortuna nel Cinquecento. La prima parte della definizione della figura è canonica: «Hoc fit, cum personas in rebus constituimus, quae sine personis sunt, aut eorum hominum, qui fuerunt, tamquam vivorum et praesentium actionem sermonemve deformamus».68 Il procedimento descritto consiste
nell'attribuire una persona a quelle cose che solitamente ne sono prive («quae sine personis sunt»), o ancora nel restituire voce ed azione ai defunti («qui fuerunt») come se fossero presenti. Prima di proporre esempi tratti dall'oratoria, Rutilio Lupo cita un frammento poetico di sapore moraleggiante: «Nam crudelitatis mater avaritiast, pater furor / Haec facinori iuncta odium parit; inde exitium nascitur».69
Il distico spiega che la crudeltà è figlia del furore e dell'avarizia. Ricorrendo metaforicamente al rapporto genetico proprio delle creature animate per indicare la derivazione di un'attitudine (la crudeltà) da due affezioni dell'animo (l'avarizia e il furore) i due versi realizzano di fatto una personificazione: grazie ad un espediente molto diffuso e destinato ad ampia fortuna nei secoli successivi, i tre concetti astratti vengono personificati all'interno di un rapporto genetico. La crudeltà, l'odio e l'avarizia diventano quindi Crudeltà, Odio ed Avarizia.
67 CIC., De inv., 107. Sull'impiego delle prosopopee Cicerone è tuttavia molto cauto: nell'Orator
mette in guardia da un uso eccessivo di tale espediente facendo riferimento al caso vulgato del defunto che prende la parola, affiancato questa volta da un esempio destinato a diventare topico, quello della Patria che si rivolge ai propri cittadini CIC., Or., 85: «Non faciet rem
publicam loquentem nec ab inferis mortuos excitabit»; per l'effetto che provoca, in ambito oratorio, la rievocazione di un defunto a parlare, cf. De or., 1.57.245: «vel si causam ageres militis, patrem eius, ut soles, dicendo a mortuis excitasses; statuisses ante oculos; complexus esset filium flensque eum centumviris commendasset; lapides mehercule omnes flere ac lamentari coegisses [...]», passo in cui è bene notare l'insistenza sull'effetto di azione ed evidenza prodotto dall'introduzione del padre defunto.
68 RUT. LUP., Schem. lex., 2.6.
69 Ibidem. Il frammento citato da Rutilio Lupo è in realtà di difficile interpretazione; per
indicazioni puntuali sulla questione cfr. R.M. D'ANGELO, Rutilio Lupo 2,6: un tormentato
L'esempio è seguito da una puntualizzazione di notevole importanza, giacché essa conferma la pertinenza di tale risorsa retorica all'ambito poetico e, più precisamente, a generi di finzione: «Hoc genere usi sunt poetae, qui fabulas scripserunt, in prologis. Nam humana figura produxerunt personas, quae in veritate artis et voluntatis sunt, non personae».70 I poeti – autori di fabulae –
ricorrono alla personificazione di enti astratti «in prologis», ovvero nei prologhi dei testi teatrali, laddove viene attribuita forma umana a personae che, pur non essendolo nella realtà, sono tali limitatamente all'artificio della rappresentazione teatrale e all'intenzione dell'autore.71 Rutilio è il primo a riconoscere nel prologo
drammatico uno spazio particolarmente adatto all'introduzione di astrazioni personificate ed è molto fine il rilievo per cui il retore attribuisce a tali entità, rappresentate in forma umana, un'esistenza legittima all'interno dello spazio della finzione teatrale.
Un discorso a parte merita la trattazione relativa alla prosopopea nell'Institutio oratoria di Quintiliano che, pur incentrata sul genere oratorio, offre spunti interessanti sui legami tra performance oratoria e dimensione teatrale.72
Quintiliano entra nel merito della figura nel terzo libro dell'Institutio, dove dedica
70 RUT. LUP., Schem. lex., 2.6.
71 Rutilio non offre esempi di prosopopee «in prologis», ma Pietro Vettori, riferendosi al brano
del retore romano nel suo commento al passo di Demetr., De eloc., 265 su cui ci siamo soffermati, spiega che la personificazione di enti astratti non è contemplata dal retore greco e ricorda, ad integrazione delle considerazioni di Rutilio, il prologo plautino del Trinummus: «cum aliquis inducit personam aliquam, quae nunquam fuerit […] [Hoc] genere narrat Rutilius uti solere poetas in prologis: intelligit autem (ut puto) locum hunc Plauti in prologo Trinumi, qui loquentes una induxit Luxuriam, et inopiam, aliosque huic similes locos» (PETRI VICTORII
Commentarii in librum Demetrii Phalerei..., cit. p. 230). Oltre all'esempio plautino che, come
vedremo, è destinato a diventare topico nei trattati del Cinquecento che si occupano della questione, non sono molti i casi di personificazioni allegoriche impiegate nei prologhi antichi (ma, com'è opportuno ricordare, le poche testimonianze a disposizione non permettono generalizzazioni su questo aspetto del teatro classico).
72 La prima suggestiva occorrenza del termine prosopopoeia è inserita all'interno di una serie di
prescrizioni sui modi della lectio. Le prosopopee, afferma Quintiliano senza specificare il significato della parola, non devono essere pronunciate alla maniera dei comici: «Nec prosopopoeias [...] ad comicum morem pronuntiari velim»; deve esserci solo un'inflessione della voce che permetta all'ascoltatore di distinguere tali parole da quelle che l'oratore pronuncia in prima persona: «esse tamen flexum quendam quo distinguantur ab iis in quibus poeta persona sua utetur» (QUINT., Inst. or., 1.8.3).
un intero capitolo a suasoria e prosopopoeia nell'accezione di esercizi retorici che il futuro oratore è tenuto a praticare assiduamente negli anni della formazione. Dopo aver insistito, parlando della suasoria, sulla personalità di colui che deve persuadere, Quintiliano individua una difficoltà maggiore nella prosopopoeia: «Ideoque longe mihi difficillimae videntur prosopopoeiae, in quibus ad relicum suasoriae laborem accedit etiam personae difficultas».73 Ciò che rende la
prosopopea più difficile della suasoria è la difficoltà insita nella costruzione del personaggio da interpretare. Mentre nella suasoria l'oratore parla in prima persona, la prosopopea prevede che egli indossi una sorta di maschera per dar voce al personaggio. Cesare, Catone, Cicerone si esprimerebbero infatti in modo diverso sullo stesso argomento, e non solo quanto ai contenuti. L'oratore che dà voce ad un personaggio deve introiettarne la psicologia ed esprimersi in modo ad essa confacente.
Questo tipo di esercizio è utilissimo, prosegue Quintiliano, perché implica un lavoro doppio e giova anche ai poeti e agli storiografi.74 L'osservazione è degna
di nota: il maestro di retorica esplicita infatti la destinazione polivalente degli esercizi preparatori. L'abilità nel dar voce a personaggi diversi, facendone emergere le caratteristiche morali e mettendone in evidenza le passioni, è infatti indispensabile non solo per l'oratore, ma per chiunque pratichi l'ambito letterario. Rientrano infatti nell'alveo della prosopopea i discorsi fittizi disseminati nelle opere storiografiche, concepiti spesso come veri e propri pezzi di bravura, ma anche i discorsi pronunciati dai personaggi nelle opere propriamente letterarie (si pensi ai protagonisti dei poemi epici). Come spiega Quintiliano, che indica Cicerone quale esempio di straordinaria perizia nel dar voce a personaggi diversi, l'oratore deve immedesimarsi nel modus cogitandi della persona che vuole introdurre a parlare; ne deve riprodurre l'imago avendone ben meditato la sorte, il grado e le imprese («omnium quibus vocem dabat etiam imaginem expressit»).75
73 QUINT., Inst. or., 3.8.49.
74 Ibidem: «Utilissima vero haec exercitatio, vel quod duplicis est operis vel quod poetis quoque
aut historiarum futuris scriptoribus plurimum confert: verum et oratoribus necessaria».
Ponendo la questione in termini analoghi a quelli aristotelici ed oraziani relativi alla coerenza dei personaggi, Quintiliano afferma infatti che è mal riuscita un'orazione in cui le parole non si accordino alla persona che deve proferirle.76
Tali prescrizioni valgono soprattutto per i declamatori, ovvero per coloro che pronunciano discorsi in persona di altri.
Il retore elenca di seguito una vera e propria serie di caratteri, una rassegna di personaggi tipici che, come osserva ironicamente lo stesso Quintiliano, non si discostano molto da quelli delle commedie: «plerumque filii patres divites senes asperi lenes avari, denique superstitiosi timidi derisores fiunt, ut vix comoediarum actoribus plures habitus in pronuntiando concipiendi sint quam his in dicendo».77
La prosopopea si trova quindi in equilibrio tra l'esigenza di impersonare un carattere generico, ma definito in quanto tale (secondo una linea che risale ai Caratteri di Teofrasto), e personae storicamente individuate. Ad una griglia generale, cui l'oratore attinge per cogliere i tratti basilari di un tipo, deve sovrapporsi – laddove richiesto – una caratterizzazione individualizzante coerente e credibile.78
La componente drammatica della figura è messa in evidenza da Quintiliano in un suggestivo passo del sesto libro che approfondisce ed esplicita il legame tra oratoria e pratica teatrale individuando alcune dinamiche condivise dalle due forme di comunicazione. Il ricorso alle prosopopoeiae («id est fictae alienarum personarum orationes») risulta quantomai indicato nei momenti in cui più forte deve essere la dimensione patetica ed emotivamente coinvolgente del discorso oratorio. La ragione di ciò, per quanto semplice, coincide con una delle premesse fondanti ogni forma di retorica: «nudae tantum res movent: at cum ipsos loqui fingimus, ex personis quoque trahitur adfectus».79 I fatti, nudi e crudi,
commuovono di per sé, ma quando fingiamo che siano i personaggi stessi a
76 Ivi, 3.8.51: «Neque enim minus vitiosa est oratio si ab homine quam si a re cui accommodari
debuit dissidet».
77 Ibidem.
78 Per altre indicazioni quintilianee sulla prosopopea e i suoi usi, cfr. QUINT., Inst. or., 4.1.28;
4.2.103; 4.2.107;
prendere la parola, è da loro che l'uditorio ricava le emozioni. La distinzione tra il contenuto (le «nudae res») e il modo in cui il contenuto è espresso (l'intervento diretto del personaggio) sembra contemplare due forme – una narrativa ed una dialogico-drammatica – che hanno una differente presa sul pubblico. Affrontando la questione dal punto di vista del giudice che ascolta l'oratore – ma non sarà avventato accostare alla posizione del giudice quella dello spettatore destinatario di uno spettacolo teatrale – Quintiliano spiega infatti che, grazie alla prosopopea, non si ha l'impressione di ascoltare qualcuno che lamenti le sventure altrui, ma la voce e i sentimenti dello sventurato («Non enim audire iudex videtur aliena mala deflentis, sed sensum ac vocem auribus accipere miserorum»). Il retore sottolinea che a muoverci al pianto non saranno solo le parole, ma già l'aspetto silente del personaggio («etiam mutus aspectus lacrimas movet»),80 prospettando una
situazione pertinente anche all'ambito teatrale. Il confronto con l'arte scenica è esplicitato di seguito:
quantoque essent miserabiliora [verba, ndr] si ea dicerent ipsi, tanto sunt quadam portione ad adficiendum potentiora cum velut ipsorum ore dicuntur, ut scaenicis actoribus eadem vox eademque pronuntiatio plus ad movendos adfectus sub persona valet.81
Le parole sono tanto più commoventi e toccanti se pronunciate dai personaggi stessi, proprio come succede per gli scaenici actores, che emozionano il pubblico non in quanto attori, ma in quanto personaggi («sub persona»). Il nesso tra oratoria e teatro trova uno sviluppo nei paragrafi successivi, in cui Quintiliano si sofferma sulla componente visuale della performance verbale. La commozione del pubblico non è infatti suscitata esclusivamente dalle parole, ma anche dall'actio («Non solum autem dicendo, sed etiam faciendo quaedam lacrimas movemus»).82 Proprio in virtù della priorità percettiva della vista (e si ricordino a
tale proposito i rilievi aristotelici sull'Ôyij) è invalsa la pratica – prosegue
80 Ivi, 6.1.26. 81 Ibidem.
Quintiliano – di mostrare dimessi e afflitti coloro che sono sotto processo,83 o
ancora di esibire oggetti che, testimonianza vivida ed emblematica dell'accaduto,